Tuareg
No alla balcanizzazione del Sahara
di
Barbara Fiore
Si calcola che a partire dal 2 febbraio più di diecimila tuareg del Mali, e appartenenti alla cosiddetta popolazione bianca, ossia mauri e arabi, abbiano precipitosamente abbandonato accampamenti e abitazioni nel Nord e altrove nel paese, compresa la capitale Bamako, per cercare asilo negli stati vicini, Mauritania, Algeria, Niger, Burkina Faso e Senegal in conseguenza agli scontri iniziati il 17 gennaio tra esercito regolare e ribelli tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad. Se nel Nord la fuga è determinata dalla impossibilità di rimanere nelle zone del conflitto, a Sud si fugge quella che si configura come una nuova persecuzione: come avvenuto in passato infatti, cittadini maliani attaccano altri cittadini maliani che agli scontri sono del tutto esterni sulla base della loro appartenenza etnica, assimilandoli ai ribelli e rendendoli corresponsabili di quanto accade. E come in passato sta avendo luogo un drammatico esodo di massa.
Le violenze, nel Sud del paese, hanno avuto inizio mercoledì 2 e giovedì 3 febbraio a Bamako con la lunga marcia delle mogli e delle famiglie dei militari maliani uccisi a Aguel hoc dai ribelli di un gruppo separatista tuareg, il MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, le quali chiedevano di incontrare il Presidente della Repubblica del Mali, Amadou Toumani Touré, perché facesse chiarezza su una situazione, quella della guerra in atto nel Nord, sulla quale il governo ha scelto di tenere un profilo basso e, fin quando è stato possibile, di tacere. L’intervento della polizia ha avuto come risultato una esplosione di violenza che ha portato alla completa distruzione di abitazioni di tuareg sulla collina di Kati. Secondo testimonianze, solo l’intervento dei militari ha evitato episodi di linciaggio ai loro danni. La situazione si è rapidamente così aggravata che il Presidente ha dovuto prendere la parola dichiarando alla televisione di seguire attentamente l’evoluzione dei fatti e invitando “maliani e maliane a prendersi per mano” e non confondere i ribelli con pacifici cittadini “nostri compatrioti”. L’appello non ha avuto alcun risultato e gli episodi di violenza si sono moltiplicati. Di fatto il governo non ha adottato nessuna misura di protezione neppure verso i suoi ministri e funzionari tuareg, arabi e mauri: una delle abitazioni completamente distrutte e incendiate sulla collina di Kati (e non è stato l’unico caso) è quella di Zakiyatou oualett Halatine, ex ministro dell’Artigianato e del Turismo, della quale si darà qui di seguito il testo della violenta lettera di protesta che, dopo quanto accaduto, ha indirizzato al Presidente del Mali.
La popolazione (non solo tuareg ma anche mauri, arabi, songhay, peul) dei villaggi del Nord conquistati e occupati dai ribelli è stata costretta ad abbandonare tutto e affrontare il deserto nel terrore che i luoghi diventassero teatro di battaglia con l’esercito regolare ma anche perché i villaggi costituiscono i luoghi di rifornimento per i ribelli che portano via tutto il necessario. Risulta che molti civili sono già rimasti uccisi negli scontri, si parla di fosse comuni con decine di morti e circolano video inviati via cellulare che testimoniano di fatti di una violenza raccapricciante.
In migliaia hanno raggiunto le frontiere con ogni mezzo a disposizione, vetture, motociclette, asini, ma anche a piedi., per lo più senza scegliere la destinazione, essendo unico scopo quello di uscire dal paese. La Croce Rossa Internazionale parla oggi di oltre tredicimila profughi in Mauritania e oltre cinquemila in Niger, mentre non c’è ancora una stima esatta su quanti si sono spostati in Burkina Faso. Chi è fuggito ha abbandonato tutto portando con sé solo lo strettissimo necessario, dal momento che, sebbene ci si attendessero gravi conseguenze agli scontri, la situazione è precipitata con velocità imprevedibile.
Il futuro è rappresentato per la maggior parte degli esuli dai campi profughi che, a quanto risulta ad esempio per quelli della Mauritania dove manca perfino l’acqua, non offrono per il momento nessun aiuto anche se l’HCR, l’Haut Commisariat pour les Réfugiés, assicura di poter organizzare in breve tempo una accoglienza adeguata. Grande angoscia suscita il futuro dei bambini e dei giovani che hanno dovuto interrompere gli studi, né si prevedono scuole nei campi.
L’informazione, praticamente inesistente sulla stampa ufficiale, è estremamente difficile da ottenere: le notizie arrivano via cellulari, unico modo per sapere cosa realmente stia accadendo.
Fin dal 1963, con la rivolta delle popolazioni nomadi tuareg dell’Adagh, il nord del Mali è zona di rivendicazioni aventi al centro una non vivibile condizione di marginalizzazione sia economica che politica. La rivolta venne allora repressa con esecuzioni collettive pubbliche alle quali era d’obbligo applaudire, violenze sulle donne, saccheggi, massacri di animali a migliaia al fine di distruggere l’unico mezzo di sostentamento. Molti furono i morti tra la popolazione inerme e migliaia di persone emigrarono quindi verso la Libia, l’Algeria, il Niger. Il conflitto, sempre latente, riprese nel 1990 e proseguì fino al 1996, investendo anche i tuareg del Niger e della Mauritania, e portando alla morte, nel Mali, di duemila civili con una migrazione di massa di circa duecentomila persone. Un patto firmato col governo nel 1996 che salvaguardava l’unità dello Stato maliano pur consacrando uno statuto particolare al Nord non ha di fatto posto fine alla ribellione che ha continuato a ripresentarsi periodicamente non essendo mai stati sanati i problemi da cui era nata.
Oggi, dopo una tregua di tre anni dall’ultimo scontro, quello di Abeibara alla fine del 2007, il conflitto si è riacceso e questa volta con grande violenza. Ma ci si trova adesso in una situazione nuova, che è l’attacco di un movimento, il MNLA, che si propone di liberare l’Azawad, ossia tutta la regione del Nord, “dalla presenza dello stato maliano”.
Uno dei motivi del risveglio della ribellione è il ritorno dei tuareg spostatisi in Libia nelle passate migrazioni, che avevano sostenuto Gheddafi ma che, in parte anche, avevano combattuto nelle fila del CNT, il Consiglio Nazionale di Transizione libico e che al crollo del regime libico sono rientrati nei luoghi di origine, Mali, Niger, ma portando con sé di una massa impressionante di armi, comprese armi pesanti, mezzi anticarro e antiaereo. Mentre il Niger ha posto come condizione al rientro la consegna delle armi, il Mali non lo ha fatto. La costituzione nel mese di ottobre 2011 del MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, nato dall’unione di più gruppi tuareg, ma al quale sembra appartengano anche altre popolazioni dell’Azawad, songhay e mauri, movimento reso quindi più forte dai mezzi bellici ora a disposizione e, a quanto dichiara il governo del Mali, dall’appoggio di al Aqmi (la frangia di al Qaeda che rivendica un Maghreb islamico) e dei salafisti algerini, ha portato alla rivendicazione dell’indipendenza o almeno di una grande autonomia del Nord.
Sebbene le ritorsioni e le violenze abbiano come conseguenza una forte coesione identitaria e il rafforzarsi del senso di appartenenza ad un unico popolo, non tutti i tuareg condividono la ribellione in atto e il conflitto iniziato dal MNLA e di fatto militari tuareg rimasti fedeli allo Stato sono stati uccisi, pur essendosi arresi, nell’attacco di Aguel hoc.
In un incontro tra eminenti intellettuali e uomini politici maliani il 13 febbraio a Bamako, si è parlato di una volontà esterna di “balcanizzazione di questa zona del Sahara” a proposito della situazione, estremamente complessa da analizzare. Non è possibile avere ora tutti gli elementi necessari per farlo, né d’altronde è al nostro fine importante farlo in questo momento. Quel che invece ci appare assolutamente indispensabile, nel più completo silenzio della informazione, è denunciare e far circolare la notizia di quanto sta accadendo.
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Lettera dell’ex Ministro
dell’Artigianato e del Turismo, Zakiyatou Oualett Halatine
Lettera dell’ex Ministro dell’Artigianato e del Turismo,
Zakiyatou Oualett Halatine
A Sua Eccellenza il Presidente della Repubblica del Mali.
Mi permetta, Signor Presidente, di esprimerLe la mia collera e la mia indignazione per i gravi incidenti di cui siamo stati vittime io stessa e i miei familiari.
Sono semplicemente allibita che i servizi di sicurezza e i militari e forse Lei stesso, dal momento che non posso pensare neppure per un istante che Lei non fosse al corrente di quanto stava per succedere, non abbiate preso nessuna disposizione per evitalo.
Ho diritto di chiedermi se per far tacere le vostre sorelle e spose dei militari, Lei non abbia preferito esporci alla vendetta popolare. Pur avendomi sempre chiamato Sorella, e mio marito Signore.
Lei ha scelto la stessa via scelta dai miei vicini e amici del quartiere di Kati ai quali, nel corso di dieci anni di buon vicinato, ho sempre testimoniato rispetto e amicizia. Questo almeno ha il merito di essere chiaro e coinciso. Tra parenti e amici ci si guarda in faccia e si dice la verità. Ma questo non è stato il caso dei miei vicini e Suo, Lei che è l’autorità suprema da cui non pensavo di dovermi aspettare una tale connivenza. Ho sbagliato dunque nel credere alla vostra fraternità e alla vostra amicizia. Ho sbagliato nel farLe sopportare la mia presenza perché non è buona educazione sedere alla tavola alla quale non si è stati invitati. Diversamente da ciò che si pensa e si fa credere, e cioè che noi siamo dei viziati della Repubblica, non è la prima volta che succede quanto accaduto. Nel 1991, nella piena connivenza della guarnigione di Diabaly e delle autorità di quella città, tutta la mia famiglia ha dovuto rifugiarsi in Mauritania dopo il brutale assassinio di mio zio a Sokolo e il saccheggio delle nostre case e dei nostri beni, che mai ci sono stati restituiti. E morirono allora mia sorella e i suoi tre (tre) bambini nel tentativo di sfuggire alle atrocità.
Vede, Sua Eccellenza Signor Presidente: noi abbiamo sofferto e continuiamo a soffrire come allora, se non di più. Perché Signor Presidente, noi non siamo ricevuti a Kolouba per le nostre lamentele e non ci si degna neppure di chiederci cosa ci stia accadendo. Quando si saccheggia, si ruba, si usa violenza a noi Tuareg, è normale, si tratta di vendetta. Mi dica, signor Presidente, se siamo Suoi cittadini malgrado Lei, e capiremo. Sarebbe più semplice ed eviterebbe migliaia di morti e di inutili sofferenze. In questa faccenda noi soffriamo e questo non è cominciato oggi. Sì, in effetti Sua Eccellenza Signor Presidente, sono rimasta stupefatta nel vedere che nessuna autorità preposta si sia preoccupata di sapere cosa ci è accaduto dopo il saccheggio della nostra casa e i tentativi di violare la nostra integrità fisica.
Contrariamente a quanto si tenta di far sapere ai Maliani, i nostri padri e le nostre madri hanno combattuto e hanno dato il loro sangue perché il Mali esistesse. Anche noi, le nuove generazioni, abbiamo fatto del nostro meglio per conquistarci la stima dei nostri amici e concittadini, e della Repubblica.
Non posso evitare in questi momenti difficili per me e i miei figli, di pensare al mio fratello maggiore che ha subito la stessa nostra sorte e che ha lasciato il Mali nel 1991 in condizioni analoghe, dopo che la sua casa è stata saccheggiata, preda dei vandali, e che è stato minacciato di morte assieme a tutta la sua famiglia, e di pensare a mia suocera (morta in esilio) che in esilio ha vissuto quasi vent’anni.
Penso anche a mio cugino, il defunto Mohemedoun Ag Hamani, fratello maggiore del “Suo amico”, brutalmente assassinato a Tombouctou. A mia sorella Zeinabo, il cui domicilio, la clinica e la farmacia sono state oggetto di vandalismo e di saccheggio nello stesso giorno. Zeinabo è la perfezione. Perché si è lasciato che la gente le facesse vivere questo incubo? Nessuno a Kati può dire di aver mai ricevuto un torto da lei, perché lei ne è semplicemente incapace. Sua ricompensa è stata questo atto selvaggio e disumano, quattro ore passate con suo figlio in un incubo.
Questi momenti mi fanno pensare anche alla gente di mio marito, i Kel Essouk di Gao, ai quali la Repubblica non ha mai reso giustizia. Mentre lui, mio marito, si batteva per la pace.
Perché questo Lei non l’ha detto e spiegato alle sorelle di Kati quando le ha ricevute? Forse questo avrebbe attenuato la loro pena, dal momento che disgraziatamente la disperazione non è appannaggio di nessuno. Tra cittadini di una repubblica ci si guarda in faccia e ci si dice cosa non va.
Ho pensato che la Repubblica fosse una e indivisibile, ma scopro con grande dolore che questo dipende dalla vostra origine e dal vostro colore. Sfortunatamente, Signor Presidente, è il colore della pelle che determina lo sguardo al quale si ha diritto. E’ un “noi” e “loro” che dura ormai da cinquant’anni.
Signor Presidente, tra Repubblicani ci si deve dire la verità, non si può mentire al proprio paese e agli amici, altrimenti quale è il senso che si può dare a queste due parole così importanti? Sono sicura, Sua Eccellenza Signor Presidente, che un giorno i Maliani, figli degni e rispettosi dei valori africani, faranno venir fuori questa verità, non se ne dispiaccia nessuno.
Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro, tra i miei amici, che nelle forme più diverse hanno voluto darci il loro sostegno e la loro amicizia.
La prego, di voler accettare, Sua Eccellenza Signor Presidente della Repubblica, i miei più rispettosi saluti.
Zakiyatou Oualett Halatine
Ex Ministro
Autre Presse del 9 Febbraio 2012
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Segnalo questo refuso nella frase: “Fortunatamente, Signor Presidente, è il colore della pelle che determina lo sguardo al quale si ha diritto”. Invece che “Fortunatamente” è “Sfortunatamente”.
Nell’ambito di un servizio a puntate che sto conducendo sui migliori blog italiani secondo http://it.blogbabel.com/classifica-blog/ , ho dedicato una scheda al suo blog:
http://iltafano.typepad.com/il_tafano/2012/02/i-migliori-blog-italiani-secondo-blogbabel-nazione-indiana20.html
corretto
effeffe