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Nuovi autismi 15 – La mia prima fidanzata ufficiale

di Giacomo Sartori

La mia prima fidanzata ufficiale aveva un buonissimo odore. Un odore lieve ma pieno, altalenante tra due apici sempre in agguato di gomma per matita e pavimento di falegnameria, che poi nel solleone estivo si condensava in fragranza di pane appena uscito dal forno, e con gli sfregamenti della pelle si faceva bruciaticcio di motorino elettrico surriscaldato, o di trenino che dir si voglia, per poi virare al salmastro di costa oceanica battuta dal vento e foderata di alghe, quasi di ostrica appena aperta. Questa mia prima fidanzata era una mia compagna di classe, e in quarta ginnasio era seduta proprio davanti a me. Io all’inizio mi limitavo a attaccarle con lo scotch le punte dei lunghi capelli al mio banco e a fare lo spiritosino. Il professore comunista eterodosso la sgridava con la sua voce cavernosa di marxista fumatore, e lei piangeva, piangeva. Lui la sgridava citando Bertold Brecht e Solone, e lei piangeva ancora di più. Tra i singhiozzi balbettava che le facevano male gli occhi, aveva molto male agli occhi. Il resto della classe ascoltava soggiogato. Poi alla fine delle lezioni la portava in un bar, dove riprendeva a strapazzarla fumando le sue sigarette senza filtro e bevendo vino bianco di qualità, tirando in campo Giordano Bruno o Antonio Gramsci, e lei continuava a singhiozzare sorseggiando un bicchiere di acqua minerale. Adesso un professore così che rapisce le belle allievine all’ora di pranzo lo schiafferebbero subito in prigione, ma all’epoca si andava meno per il sottile, e l’erudito satiro era anzi molto rispettato. D’altra parte la sua attrazione e le filippiche che ne scaturivano avevano qualcosa di indifeso, di timido, erano in fondo molto caste. L’anno dopo lei s’era tagliata i capelli, e eravamo già una coppia a tutti gli effetti, con sedimentate connivenze di gusti e sessuali. I nostri compagni di classe erano rampolli dell’impalata borghesia cittadina, avevano brufoli e merendine confezionate, e noi con i nostri trent’anni complessivi eravamo una coppia materialista storica aperta alle brezze della rive gauche. Lei non piangeva più in classe, ma il professore comunista eterodosso la portava pur sempre qualche volta al bar dopo la lezione di greco, dove lei piangeva ancora, però con una disperazione più trattenuta, quasi dialettica. A me il professore mi soppesava con l’angolo degli occhi, diffidente, ma per certi versi anche ammirato, e sotto sotto connivente: ero pur sempre un appassionato lettore dei testi che lo elettrizzavano. Del resto presto sarebbe cominciato il liceo ultraconservatore e mortifero, si girava pagina. Si entrava nel vivo dell’abiezione provinciale. Proprio nei momenti peggiori la mia prima fidanzata ufficiale mi amava però con slanci indifesi e esplosioni cristalline di bimba, intramezzando dubbi autodistruttivi o silenzi remissivi, nessuno mi ha più amato a quel modo. Io a dir la verità non sapevo che si potesse essere amati: non ne avevo mai fatto l’esperienza, nessuno me ne aveva mai parlato. In casa mia non si usava. Era molto rassicurante, ma certe volte anche opprimente, per certi aspetti insopportabile. Era chiaro che avrei dovuto fornire qualcosa in cambio, ma non sapevo bene cosa. O forse è evidente solo adesso che ci ripenso, lì per lì non avevo questa visuale. Spesso lei piangeva. Dei pianti impenetrabili e struggentissimi, che qualche volta contagiavano anche me. Piangevamo abbracciati, disperati e ebbri di desiderio, infelicissimi, e insomma felici. Piangevamo per la necessità ineluttabile di lasciarci e per i dolori che ancora non subivamo: era una sorta di preveggenza. In ogni modo lei era bellissima, davvero bellissima, e gli uomini quando la vedevano smettevano di respirare e la fissavano senza più muovere un muscolo. Dovunque arrivassimo i giovanotti e i signori di tutte le classi sociali le agganciavano gli occhi addosso come ancore ben tese, come ventose. In quei loro sguardi paralizzati si leggeva una sete inestinguibile, qualcosa di terribilmente tragico, di dolorosissimo. Era evidente che quegli uomini soffrivano molto. A me non dava noia, la consideravo una brezza persistente della quale non capivo bene l’origine, ma non pericolosa. Neanche quando la situazione degenerava, e uno di quei signori tanto per fare un esempio si armava di pistola e rubava una lussuosa macchina per rapirla, e finiva in prigione. Ogni tanto succedevano cose così. Nemmeno lei se ne curava, e certo non ne traeva fierezza: sospetto che per lei gli uomini maturi assomigliassero tutti a suo padre, il nostro grande nemico. Lei amava me, le mie sicurezze adolescenziali e la mia inadattabilità di biondino. Io amavo le sue gonne leggerissime a fiorellini e i suoi piedi quasi nudi nei sandali, i suoi magnifici piedi espressivi e elastici, e i suoi dilatati maglioni a losanghe, che devo confessare hanno formattato per sempre il mio ideale di femminilità. Del resto la sua stessa bellezza risulterebbe oggi forse un po’ datata, evocherebbe la Maria Schneider di Antonioni. Con la mia prima fidanzata ufficiale imparavo tante cose. Io non sapevo che esistessero individui che si arrogano la signoria sull’esistenza di altre persone più giovani, e che questi strani despoti si chiamassero genitori. A casa mia ognuno faceva e aveva sempre fatto quello che voleva, e non c’era una vera distinzione di ruoli e di generazioni. Se c’erano delle direttive erano introiettate e scaturivano dall’intimo, non potevano certo essere imposte con le parole, o peggio ancora con le minacce e i castighi. A casa mia ognuno cercava di sfangarla come meglio poteva, come succede su tutte le navi che affondano. Forse ai tempi di mia sorella e di mio fratello era stato diverso, ma adesso restavano solo ruderi con travi annerite dal fuoco, talvolta indicanti il cielo, e resti di quotidianità devastate, cumuli di macerie presso i quali i passanti preferivano non attardarsi. A casa delle mia prima fidanzata ufficiale invece tutto era ordinato e regolamentato, lo si capiva dalla piastrelle specchianti del pavimento e dal bouquet sfaccettato di prodotti per le pulizie. Tutti gli oggetti erano nel contempo pretenziosi e pedissequi, scarni e paludati, rivelavano una schizofrenica coerenza d’insieme. A vegliare su questo museo della normalità c’era sua madre, che pur non essendo affatto anziana aveva delle pantofole e un’andatura un po’ curva: era una CASALINGA. Io non sospettavo che esistesse un’attività del genere, e che lasciasse quelle stigmate di detenzione a perpetuità. Questo individuo grassottello e sconfitto a priori dalla vita metteva pur sempre il becco dappertutto. Ma il vero despota rientrava il pomeriggio, sotto forma di un signoretto tutto nervi e muscoli, scavato e diritto, un inquieto Pasolini in versione impiegatizia, che si faceva chiamare babbo. Questi genitori sessuofobi mi hanno accolto come un pugno nell’occhio, come un cucchiaino di sale nel caffè, un ciuffo di capelli nella minestra: un castigo divino. La guerra che mi approntarono era totale e sporca, si avvaleva di appoggi e informatori, anche proprio nel concentrazionario ambiente scolastico. Ma nel frattempo la vita continuava, e anzi spesso era proprio in battaglia che imparavo nuove cose. Imparavo le rifrattometrie dei rapporti intimi, i misteri dei sentimenti. La mia fidanzata aveva alcune amiche, con le quali feci i primi passi sul viale ombroso dei tradimenti. Prima di me aveva avuto un pretendente più grande, un bellimbusto che la scorrazzava con una Lancia Fulvia Coupé. A me intrigava questo spasimante sconfitto e ormai sepolto nel ludibrio, questo amante cinese che invece di essere comunista rivoluzionario si pavoneggiava in Lancia Fulvia Coupé. Io avevo un proletario Guzzi Dingo ereditato da mio fratello, una pedissequa motoretta che scimmiottava senza complessi una moto grande. Sul sellino del Guzzi Dingo si schiacciava naturalmente anche lei, alla maniera delle famiglie dei paesi poveri. Come tutte le grandi potenze colonialiste i genitori della mia prima fidanzata ufficiale accusavano gravissime perdite da parte di noi guerriglieri, e più si accanivano più la resistenza si rafforzava: prima o poi  sarebbero stati costretti a capitolare. Cosa che poi è puntualmente successa. Il nuovo stato autonomo, seppure giovanissimo, e impreparato a autogovernarsi, aveva trionfato. Imparavo altre cose ancora, altre le disimparavo. Forse la cosa più difficile era quella, disimparare. A meno che non anticipi un po’ troppo: tutto ciò in effetti è venuto dopo. E naturalmente anche lei imparava, su un percorso che solo in apparenza correva parallelo al mio, come si sarebbe capito poi. Studiavamo in città distanti una dall’altra, e appunto sperimentando da soli, ma eravamo pur sempre molto uniti. Durante un lunghissimo anno da sola nella Cina comunista smise di piangere. Eravamo ancora assieme, e lei non piangeva più: io accettavo senza fare domande quel mistero cinese della radicale scomparsa dei pianti. Forse gli occhi le facevano ancora male, ma non scendevano più lacrime. Del resto il professore comunista dissenziente era ormai solo un aneddoto della preistoria, veniva citato come caso limite, come emblema del nodo irrisolto della paternità. Il mondo cambiava, si insolentiva, e io non ero soddisfatto, non mi ci vedevo nella stoffa dell’adulto, men che meno in quella del fondatore di qualcosa. In realtà senza rendermene conto sprofondavo. Ma a far bene attenzione anche i suoi vestiti mutavano, si facevano più spessi, più marroni: mi piacevano meno. Non parlava del suo desiderio di un figlio, ma la sua inquietudine era quella di una gatta che cerca un posticino appartato per partorire. Poi però, o forse proprio per questo, perché i suoi vestiti mutavano, e si facevano più spessi e più marroni, e lei desiderava un figlio, anche quel nostro fiero staterello saltò in aria. Subito dopo un viaggio molto intenso in un Marocco innevato e silenzioso: il funerale del nostro amore. O forse invece quella costruzione di fuscelli e vento è crollata solo perché prima o poi nella vita tutto si corrompe, tutto finisce.

(l’immagine: L. Soutter, “Seuls”, 1937-1942, 30×39 cm)

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11 Commenti

  1. ma sto leggendo un capitolo nascosto da Salinger nel giovane Holden? un regalo di spirito adolescenziale che mi ha catturato e rinfrescato. grazie grazie grazie

  2. La corruzione che passa attraverso l’estinzione delle lacrime: dal pianto istintivo, a quello dialettico, a quello (il più bello) impenetrabile, fino all’aridezza! Viaggio nel deserto della vita?

      • Secca? Dacché il mondo insolentiva e si corrompeva, diventava serio e insensibile, senza risa né pianti. Secco, dunque? O umido, di quel figlio desiderato (e giunto, poi?), un figlio forse che avrebbe dato nuovo slancio alla ruota, secca, della vita? Per poi arrugginirsi ancora, forse!

  3. vi ringrazio dei complimenti!
    (anche se ho l’impressione che le cose buone vengano fuori per così dire da sole)

  4. sartori, dopo tutti questi complimenti, peraltro nocivissimi, posso fare lo sborone e dichiarare pubblicamente che stasera ti avrò a cena e mi godrò una lettura ad alta voce dell’autismo suppostato*?

    *postato sopra

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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