Note per una comunità letteraria

Quella volta che sono andato in gita a casa di Andrea Zanzotto
di
Mauro Gasparini 1

Ho incontrato Andrea Zanzotto due volte. La seconda, nel ’98, era un’occasione istituzionale, ma la prima… la prima, un decina di anni avanti, è stata per tutti gli anni che la separano da oggi uno dei quegli episodi che non smettono di lavorarti dentro perché agiscono in due sensi: da una parte umanizzano coloro che potresti idealizzare e dall’altra ti fanno sentire che non ce la puoi fare neanche ad arrivare al primo gradino di quella scala che porta a essere totalmente dentro alle cose della propria arte. Altro che “son qua sul primo scalin” del Barba Zucon.
Quel giorno di aprile, grazie a una persona a cui devo molto, ho avuto la possibilità di accompagnare in giro per il Veneto un altro poeta: Tonino Guerra (Gianni! Eh quello, anche se spero che questo e il prossimo secolo lo ricorderanno per le sceneggiature di Antonioni e Anghelopulos, oltre che per la sua produzione poetica). Con Guerra siamo prima andati a Ponte di Piave, a salutare dalla macchina Goffredo Parise, lì nel giardino di casa sua dove riposa sotto la stele di Brancusi; poi a Pieve di Soligo, ospiti non annunciati di Andrea Zanzotto.

Ero allora un ragazzotto molto stupido, cosa che il tempo ha provveduto a emendare nella prima metà, e fino al momento di mettere un piede in casa del poeta non riuscivo a rendermi conto completamente dell’unicità della situazione che mi si stava presentando. Ma è bastato poco: la parete di fronte alla porta d’ingresso era occupata da un solo piccolo acquerello su cartoncino nero nel quale l’autore aveva aggiunto una dedica per Zanzotto, definendolo suo erede. Firmato Eugenio Montale.
Credo che da quel momento mi abbiano spostato per casa con uno di quei sottovasi con le rotelle, perché non ho ricordo di avere camminato.
Zanzotto era in veste da camera, di quelle corte, beige, e stava lavorando alla revisione di una poesia con il suo giovane assistente. Poi boh, un fiume di ricordi e di aneddoti che i due poeti si rimpallavano con una memoria disarmante, comune non solo perché entrambi sodali di Fellini, ma anche per avere partecipato alla vita culturale dell’Europa dal dopoguerra in poi, insieme a una girandola di nomi che credevo di conoscere solo io per averli frequentati nelle mie antologie scolastiche. E quando pareva che quel flusso di giganti e di idee stesse per esaurirsi, ecco che uno sguardo al giardino (mi pareva fosse banalmente trascurato da almeno una stagione, ma definito dal padrone di casa “il mio giardino alla russa”), chiamò in causa il rapporto tra arte, cultura di una nazione in relazione al paesaggio. «Dobbiamo imparare a paesaggire» sosteneva Zanzotto.
Dopo un paio d’ore ce ne siamo andati, soddisfatti e (parlo per me) anche storditi.
Negli anni successivi ho avuto spesso l’impressione di essere ancora sulla porta di casa Zanzotto, lo stordimento era anche nativo, temo, ma più l’aneddotica mi si è smarrita nella memoria, più mi si è fatta chiara la statura dell’uomo e del poeta: mitezza, lavoro impietoso sulla parola, coraggio delle proprie idee, la vita setacciata dal suo sguardo chiaro, bevuta con l’avidità dell’assetato che non intende avvelenarla dalla finzione del bilancio.
Come questa nota.

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NOTE
  1. a Mauro in ricordo del suo indimenticabile sorriso effeffe

5 Commenti

  1. mi sono ostinato e lo farò ancora, ad insegnare questo nostro grande, nonostante come tanti altri non sia contemplato negli obsoleti e squallidi programmi scolastici ministeriali. Grazie per la memoria condivisa.

  2. Francesco, grazie per il ricordo di Mauro, persona leale e amabile. Che rabbia, che i sogni finiscano così.
    Flaviano

  3. Sono d’accordo con Fabio. Però sono un po’ più pessimista in merito. Zanzotto è veramente “difficile” per i nostri studenti. Persino più di Gadda… Due scrittori che risultano, in pratica, inaccessibili. O forse sono io che non li so fare accostare nel modo giusto. Sono graditi consigli… :-)

  4. è la poesia, io credo, ad introdurre fino in fondo nella verità del mondo. Tanto da sentirsi spaesati. Ma è solo realtà. Molto bello.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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