La censura, la sofferenza, lo scandalo
Appunti su Una separazione e Sul concetto di Volto nel figlio di Dio
Lei non ce la fa più. Vorrebbe andar via, costruire un futuro migliore, soprattutto per sua figlia. Lui ha un padre demente che non vuole abbandonare. Lei, per disperazione e per ricatto, torna a casa dei suoi genitori. Lui resta con la bambina undicenne e il padre che non può essere lasciato solo un attimo. Trova una badante giovane, molto devota e legata alla tradizione. Quando il vecchio si piscia addosso, la donna che è andata a servizio a insaputa del marito, fa ciò che occorre, ma vorrebbe già mollare l’incarico. Lui quasi la costringe a rimanere sino a quando non trova un ricambio. Da qui si dipana un dramma che segue il disgregarsi di due famiglie.
Il padre e il figlio si trovano in un interno tutto bianco: il letto e i divani dal design pulito, l’accappatoio dell’anziano, la camicia che il figlio porta sotto il vestito formale. Il padre non riesce più a deambulare senza sostegno e a controllare le funzioni corporali. Subisce attacchi di dissenteria sempre peggiori, piange senza riuscire a trattenere neanche le lacrime, il figlio lo lava e lo cambia tre volte, il vecchio si imbratta tutto, entrambi piangono. Solo allora il figlio si accorge dell’enorme volto di Cristo sul retro della scena, vi si appoggia contro, la fronte che tocca la bocca del Redentore. Poi il volto si deforma, finisce anche lui completamente imbrattato, si squarcia, cade.
Uno è il riassunto di Sul concetto di Volto nel figlio di Dio, l’altro l’inizio di Una separazione, il film pluripremiato di Ashgar Farhadi. Ciò che li accomuna sono il tema o il motore del dramma – la sofferenza di una persona privata della propria integrità fisica o mentale che devasta anche coloro che vi stanno accanto – e il rischio di censura. Per evitarla, il regista iraniano doveva far passare che quanto stava inscenando non fosse che una storia privata, un dramma umano in cui finiscono inevitabilmente pure aspetti religiosi e sociali. Ne nasce un film assai stratificato, in cui trovano spazio anche la stritolante macchina giuridico-burocratica o il consulto telefonico con cui la badante in pena chiede all’imam quanto sia peccato lavare le parti intime di un estraneo. Il privato troppo umano per essere censurabile diventa trasparentemente pubblico, come spesso accade per l’arte creata sotto regime.
In Occidente dove anything goes, questa volta è capitato non solo che alcuni gruppi di milizia o di preghiera volessero fermare una messa in scena, ma che anche la Chiesa esprimesse la sua preoccupazione. È meramente fortuito e pretestuoso che tra le innumerevoli profanazioni proposte dal teatro contemporaneo, – per non dire dell’onnipresenza di un immaginario pornografico in tv, pubblicità e video musicali – la pietra dello scandalo sia stato uno spettacolo di una semplicità, persino povertà deliberata, dove ciò che aggredisce principalmente lo spettatore sono gli incontenibili, quanto realistici liquidi e liquami dalla vecchia carne? È solo colpa di quel Volto che consegna a chi lo guarda l’interpretazione se sia stato lordato sino a scomparire dall’umiliazione e dalla sofferenza o se invece se ne sia fatto carico?
Nel cosiddetto Occidente è diventato sempre più difficile rappresentare il dolore e il male: non quello abnorme dell’evento traumatico che anzi – come rileva Daniele Giglioli in Senza Trauma – funge da motore prediletto, quasi che visitare luoghi d’oscurità indicibile appaia una delle fonti di legittimità più affidabili per cimentarsi nel racconto; ma la sofferenza quotidiana vissuta nella solitudine di uno spazio privato e di un tempo ripetitivo che non passa. Non è che non esistano narrazioni che mettano al centro malattie e lutti: ma il punto è che quasi tutti ricorrono alla prima persona. Il dramma riguarda solo me o chi mi è prossimo, ne sono esclusi – come dice il titolo rivelatore del libro sulla morte della figlia con cui lo scrittore Philippe Forrest inaugura la scelta dell’autofinzione – Tutti i bambini tranne uno. Il privato, parimenti alle confessioni sbraitate dei reality, urla per essere ascoltato, ma deve o vuole restare singolare.
Lo spettacolo di Castellucci si celebra invece in presenza di qualcun altro. Il Volto per gli uni può farsi specchio della Pietà incarnata, per gli altri di un silenzio che equivale all’assenza, ma intanto sta al centro della scena. La rappresentazione della sofferenza fuori le mura della solitudine individuale ha bisogno di un terzo occhio che non sia soltanto “mio”, di una trascendenza fosse anche solo intesa come comunanza degli esseri umani. Ma tale trascendenza si fonda su una relazione diretta che ammette dubbi, pianti, grida di disperazione o di soccorso, non deleghe e mediazioni istituzionalizzate. L’ambivalenza in cui si trovano le istituzioni cui è affidata la cura dei corpi e delle anime, appare involontaria ma strutturale. Il contratto prevede che la gestione non solo pratica del dolore passi di mano e competenza: competenza che, in quanto specialistica, si pone come separata. Chi riceve aiuto, perde voce in cambio. La condizione del dolore vissuta come incommensurabile e segregata, nasce dalla collaborazione sua malgrado tra il modello del uomo veicolo di produttività ed efficienza e di chi si occupa dello smaltimento delle scorie. Questo nodo non può essere risolto cercando di estendere il potere mondano di qualsiasi religione. Una separazione mostra, al contrario, che più aumenta il controllo teocratico, più vi sfuggono le vicende umane dei fedeli come dei laici, producendo una solitudine speculare che sgretola e separa a sua volta.
Lo scandalo è l’impotenza di fronte al dolore. Nessuno può farci mai abbastanza, inclusa l’arte che è sempre un tentativo di mediazione, seppur la meno imbrigliabile: tranne non distogliere uno sguardo disposto a riconoscersi, come è avvenuto anche a Milano sotto gli occhi dipinti da Antonello da Messina e sotto i nostri occhi simmetrici e frontali.
pubblicato suL’Unità,3 febbraio 2012.
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Alla fine della polemica sulla messa in scena del concetto di Volto nel figlio di Dio di Castellucci, che poi è avvenuta regolarmente, come si poteva del resto immaginare, ho cercato delle recensioni sullo spettacolo, e non è stato facile trovarle, essendo quasi tutti i link della rete sulle proteste di alcuni gruppi di cattolici integralisti (oltre che di gruppi politici fascistizzanti come FN) e sulle risposte di Castellucci e del Parenti, con relativi commenti della Stampa.
Scarpa sul Primo amore non si sbilancia troppo nel dare un giudizio sullo spettacolo, parla di parti notevoli e di parti irritanti. Helena, nell’altro post ha detto di averlo visto, ma si è concentrata anche lei sul tema della polemica e non ha espresso un giudizio estetico. Le ho chiesto se le era piaciuto, se le era sembrato uno spettacolo teatrale di grande rilevanza, ma non ha risposto, di certo non ha letto la mia domanda, erano passati giorni dalla pubblicazione del pezzo.
Approfitto ora per richiederglielo: Helena, ti è piaciuto lo spettacolo di Castellucci? Lo consideri notevole?
Io non sono andato a vederlo per due motivi. Primo avevo già un fitto programma di impegni teatrali, da Timi a Germano, proprio al Parenti, a Ronconi (La modestia: non mi è piaciuto per niente), a Gifuni, che ho visto ieri sempre al Parenti e che ho trovato notevolissimo, sia come regia sia come operazione testuale sia soprattutto come recitazione, davvero una performance strabiliante. Secondo: poiché non seguo le mode e non mi faccio attrarre da quel che occupa spazio nei giornali per polemiche o altro, verso Castellucci mi sono posto come verso chiunque altro: mi sono informato su di lui, ho letto recensioni, ho letto il tema dello spettacolo, ho letto anche particolareggiati riassunti, come appunto quello di Scarpa, e ne ho ricavato l’impressione di uno spettacolo teatrale corto e ripetitivo, povero come svolgimento, ricco di simbologie ad effetto che si sforzano di dare significati profondi con metafore che mi sono sembrate banali. Il fatto poi che Castellucci abbia speso fiumi di inchiostro per spiegare punto per punto la pretesa di spiritualità della sua opera (andando ben al di là della difesa dall’accusa di blasfemia), non mi è parso un buon segno, non mi piace che un artista faccia comunicati e numerose interviste per spiegare in modo dettagliato il significato da dare alla sua opera. Solidarietà per le intimidazioni avute, sia chiaro, ma non per questo sostegno al suo lavoro a priori. E poteva evitare anche di parlare di Fatwa e di negare che l’impressione che uno spettatore medio ha è che il volto di Gesù venga imbrattato di merda (impressione che hanno avuto Helena, gli ebrei della Cem e praticamente tutti quelli che hanno commentato lo spettacolo che ho letto), l’ha ammesso lui stesso dicendo è “colore” non “merda” vera e propria in una intervista e allora meglio non insistere nel dire agli altri che vedono cose che non si vogliono rappresentare.
Insomma, l’impressione è che sia stato più il dibattito sul cosa è stato rappresentato, con relativa discussione sul tema blasfemia/religiosità, che sul suo valore artistico. Tutto questo da un lato è stato alimentato dalla protesta di pseudo-cattolici e realfascisti, che hanno dato a questo spettacolo molta visibilità, ma di certo Castellucci come già detto, non ha reagito in modo sobrio, l’ha cavalcata quella protesta. Lo stesso Parenti dopo lo spettacolo organizzava dibattiti con artisti, intellettuali sullo stesso; tra essi c’era il teologo Vito Mancuso, di cui ho letto la recensione dello spettacolo, che mi ha colpito perché in vari punti ha confermato la mia impressione usando le stesse parole che a me erano venute in mente. Poi non è detto che io, a spettacolo visto, concordi con lui, però i dati raccolti ormai sono tanti. Una nota a margine: mi pare che quell’uomo Helena baci sulla bocca il ritratto di Gesù più che appoggiare la testa, e proprio su questa scena si sofferma Mancuso.
Prima di dire quel che penso del film Una separazione, che ho visto e che considero notevole, concludo quindi questo commento dando a chi vuole il link della recensione di Mancuso.
http://lettovisto.myblog.it/archive/2012/01/27/quell-addio-disperato-al-volto-di-gesu.html
Trovo quasi incredibile leggere un commento lungo quanto l’articolo, incentrato sulle motivazioni per cui l’autore NON è andato a vedere lo spettacolo, fondato su una lettura critica basata su qualche recensione e varie interviste.
Il problema rispetto allo spettacolo e alle minacce che tentavano di impedirne la rappresentazione era un problema politico, e così va trattato.
Sulla questione artistica ne parli chi lo ha visto, ne discuta chi lo ha visto anche lui, ne legga chi è interessato.
Ma sul resto, per carità, si taccia.
@ lorenzo galbiati:
Perplessità. Lei dice di avere rinunicato all’opera di Castellucci primo perché aveva “già un fitto programma di impegni teatrali, da Timi a Germano, proprio al Parenti, a Ronconi (…), a Gifuni”. E poi, aggiunge di “non seguire le mode”. Infine, di essersi documentato. Io naturalmente posso intendere queste parole come una forma di sprezzatura voluta, ma il sospetto mi resta: ma davvero lei sta equiparando, solo perchè si trovano nella stessa città e agiscono in luoghi vagamente simili denominati “teatri”, un Timi, un Germano, un Gifuni, e perfino un Ronconi, che è stato certamente un gigante della regia a livello europeo, ma da gran tempo produce solo spettacoli che sono pallide ombre del passato, con la Socìetas Raffaello Sanzio?
Ognuno va a vedere quello che vuole, ci mancherebbe, quello che contesto è proprio la formulazione del discorso: mettere anche solo nello stesso post quella che da trent’anni almeno è la più importante compagnia del teatro di ricerca del mondo, con Timi, Germano, e Gifuni (e pure con Ronconi), mi sembra o un formidabile errore di prospettiva, o una volontaria mistificazione. Sul fatto poi di criticare un lavoro senza averlo visto, sottoscrivo il commento precedente di paolo.
Lorenzo, mi pare un po’ strana la tua domanda. Io ho deciso di scrivere di questo spettacolo – e non a caldo – perché sono convinta della sua rilevanza artistica. Tra l’altro, sono andata a vederlo proprio perché mi interessa quel che affronta e come lo affronta. A prescindere delle polemiche e della questione politica.
Lo spettacolo che ho visto ha una sua coerenza proprio perché è un allestimento così “povero”. Questo, in estrema sintesi, a proposito del giudizio estetico.
Mi chiedi – e secondo me è un’altra questione ancora – se mi è piaciuto? Ti dico: mi ci sono riconosciuta, mi sono venute le lacrime. Io quella cosa l’ho vissuta, Lorenzo, e l’aspetto più devastante non è la merda, ma il genitore che non capisce più quel che gli accade, che non si riconosce più, che si vergogna di se stesso e si vergogna immensamente di fronte a suo figlio.
Ribadisco che non ci ho visto nulla di blasfemo o dissacrante. Ma proprio zero. Nulla di erotico se “erotico” sta per “sessuale” e non “mistico”. Dove “mistico” indica l’anelito ad essere compenetrati dal divino, cosa che spesso si esprime attraverso metafore e immagini “erotiche”.
Tu hai mai letto Santa Teresa, San Giovanni della Croce, Santa Caterina? E Giobbe, coperto di merda, ti pare scandaloso?
Può darsi che io non capisca una certa sensibilità, perché conosco il linguaggio dell’arte e del teatro, nonché di un certo pensiero religioso, ma non sono stata educata dentro a nessuna prassi religiosa che ti dice: “noooh! Questo non si può fare! Non si può mettere in relazione la merda di un vecchio con l’immagine di Cristo!” Nessuna, nemmeno quella ebraica.
Però ho sentito amici che sono cattolici praticanti che hanno reagito allo stesso modo allo spettacolo, dopo averlo visto a Milano. Che anzi ci hanno visto letteralmente uno spettacolo profondamente cristiano. E non ti parlo di persone compiaciute di essere anticonformiste o roba del genere (tanto per capirsi).
In fine, ti chiedo – e vi chiedo- se vi interessa entrare nel merito di questa riflessione.
Mi chiedo: ma non vi è noto che quel che passa in convento dello showbiz sono cose tipo questa qua sotto. Dove sì, c’è stata la “Catholic League” americana (che, al solito, è di destra) ad aver protestato per blasfemia. Ma il video è stato trasmesso mondialmente a tutte le ore del giorno, è visibile su You Tube in particolare e internet in generale senza alcun filtro per i minori, essendo quello di una superhit della super-mega-star degli ultimi anni?
http://www.youtube.com/watch?v=niqrrmev4mA&ob=av2n
Non è un discorso benaltrista. Quel che domina in questo video e sostanzialmente anche in quelli dove non c’è il ricorso shock a simboli religiosi (che quindi non fanno strillare le associazioni religiose), è un’estetica della perversione, della morte, della violenza, del sesso come uso e abuso di partner interscambiabili.
Castellucci ha solo la sfiga di essere un artista riconosciuto da quattro gatti che si appassionano a quella cosa assai blasé che si chiama teatro di ricerca? E’ più facile piazzarsi intorno a un teatro che cercare di hackerare la rete o chiedere l’oscuramente di un video di una cantante con la forza di una multinazionale? Senz’altro.
Visto che lo spettacolo è andato in scena per anni senza che nulla accadesse, pare abbastanza evidente che la pietra dello scandalo fosse più o meno pretestuosa.
Ma anche gli accadimenti casuali possono avere qualcosa di sintomatico.
Io trovo sintomatico (e allucinante) che la percezione di “normalità” e accettabilità dell’immaginario porno, persino nella sua versione sado-maso post-umano cool, sia maggiore che quella di poter mettere in relazione la merda di noi poveri umani con il volto di Dio.
Helena, fatti due uova al tegamino, no?
Helena, condivido totalmente la tua riflessione (il film di Ashgar Farhadi non l’ho ancora visto, ma mi interessa molto), e se sono intervenuto a margine non era perché non volessi toccarne il cuore, tutt’altro. Mi pareva però che, per un eventuale lettore non tanto del post quanto della discussione nei commenti, fosse quanto mai depistante vedere trattata la storia e il linguaggio della Socìetas e di Castellucci al pari di teatranti qualsiasi. Depistante, non irrispettoso, perché qui non è in questione la scappellata d’omaggio a un qualche barone. Il punto è che se vai a teatro a vedere la Socìetas e non ne sai niente, o peggio se leggi solo qualche recensione e giudichi da quello (e per giunta ti insospettisci a trovare dichiarazioni di poetica, come se Castellucci e i suoi non fossero sempre stati prodighi di teorie e teorizzazioni quanto mai complesse e articolate), ecco, sei proprio fuori contesto. La potenza dei simboli e insieme l’iconoclastia della Raffaello Sanzio, il loro costante porsi al di là di tutto ciò che è canonico e “normale”, anche entro il linguaggio del teatro di ricerca, non possono essere ricondotti a un “mi piace/non mi piace”, a un “allestimento povero/allestimento ricco”, a un “blasfemo/ortodosso”. Il loro è un pensiero che si fa linguaggio teatrale sempre arditamente innovativo, e a volte lascia sgomenti, spesso disturba, talvolta rimane opaco, ma è un pensiero tra i più sofisticati prodotti dall’arte mondiale degli ultimi decenni, e mi pare di un triste provincialismo che, mentre tutto il mondo li acclama e li rispetta, noi qui manco sappiamo chi sono, e li trattiamo come giovani provocatori improvvisati dell’ultim’ora…
Riprendo due cose scritte da Helena, con cui condivido pienamente:
“Lo scandalo è l’impotenza di fronte al dolore”.
e
“Ribadisco che non ci ho visto nulla di blasfemo o dissacrante. Ma proprio zero. Nulla di erotico se “erotico” sta per “sessuale” e non “mistico”. Dove “mistico” indica l’anelito ad essere compenetrati dal divino, cosa che spesso si esprime attraverso metafore e immagini “erotiche”.
Tu hai mai letto Santa Teresa, San Giovanni della Croce, Santa Caterina? E Giobbe, coperto di merda, ti pare scandaloso?”
Beatrice di Nazareth baciava/beveva le ferite del corpo di Cristo, più erotica di così…
Purtroppo non posso vedere per motivi di lontananza lo spettacolo di Castellucci, ma tutto il dibattito solleva in me con più forza sempre la solita domanda: ma di cosa parlano i sedicenti cristiani (cattolici se si vuole restringere), quando parlano di cristianesimo?
Questa è una religione che si fonda su tre momenti legati al corpo e al dolore che si porta sempre dietro –
l’incarnazione, la passione, la resurrezione. Dove la passione è senz’altro il momento su cui ha più senso, al di là di attese di salvezza, interrogarsi, su quei “chiodi”, che ci tengono tutti ad uno stato precario.
Tirare in ballo come fa Mancuso in modo cialtronesco, ma in questo paese i cialtroni piacciono sempre in tutte le salse, la possibile rappresentazione scenica di tesi negazioniste, etc. per chiedersi quanto sia permesso all’arte di dissacrare, è imbarazzante per non dire proprio, proprio vergognoso.
A me sembra piuttosto che il problema sia sempre attorno al corpo, l’unica cosa che abbiamo di concreto. Va benissimo quando lo si può trattare come un oggetto, come qualcosa d’altro, ricoprire di illusioni, dileggiare come se un corpo alla fine davvero differisse da quello che gli sta accanto, e via. Malissimo quando questo si svela per quello che è, un continuo tradirci, venir meno. E’ interessante sempre notare come ci sono “luoghi” interi della storia europea, poco visitati, guardati con condiscendenza e un sorrisino nervoso tutt’al più. “Luoghi” dove i cadaveri dei condannati a morte potevano essere squartati e lasciati esposti per giorni, ma al tempo stesso al morto si apriva un cammino rapido di redenzione ultraterrena, dove alle accusate/i di stregoneria venivano infilati pali su per lo sfintere, tagliati i capezzoli, luoghi dove poi si andavano a rivendere corde di impiccati e polvere di teschi umani, buoni contro ogni malattia, dove bambine trascurate si inventavano storie sul diavolo davanti a giudici luterani e poi mangiavano pane condito con i loro propri escrementi. Realtà, non finzione romanzesca. E c’è sempre il corpo di mezzo, annientarlo, negarlo, fare come se non ci fosse. Paradossale che la forza del cristianesimo, un corpo umiliato e martoriato, si rovesci sempre in ciò che il controllo religioso e le menti “a modino”, considerano la pietra dello scandalo. O forse no. La misura del nostro dolore è il corpo e viceversa. Stiamo forse disimparando perfino i linguaggi, per dirlo, tentare di arginarlo, come piccoli Davide, per un attimo solo vincenti su Golia.
Non capisco quale sia il problema. Da Madonna appesa alla croce a Lady Gaga che canta Judas abbiamo sempre avuto delle reazioni contrastanti. Castellucci non avrebbe potuto essere esente da tutto questo. In fondo ha messo in scena una gigantografia del volto di Cristo di Antonello da Messina.
Fuori dal teatro, la messa celebrata in un furgone col la fotocopia A4 in bianco e nero dello stesso volto di Cristo di Antonello da Messina e’ stata parte della rappresentazione. Sublime il tappeto rosso posato sulla terra nuda mentre quattro castrati pregavano.
E poi le badanti non puliscono i culi ai vecchi. Quale riduzione. Fanno un lavoro molto piu’ complesso.
Non ho visto lo spettacolo e questo è il primo articolo che leggo sulla polemica che lo accompagna. Ma in merito ho un preconcetto antico e diffuso che espongo.
Forse ciò che fa tanta paura è solo sempre la stessa cosa: la miseria della condizione umana trascina con se miseramente ogni idea metafisica e mistica, la scopre inerme come il corpo, la svela un prodotto del creato, un derivato.
E’ crisi diffusa e generalizzata.
E nell’occidente il dolore è difficile da rappresentare perché se si pensa alla sofferenza ed alla caducità non si ha fede nei consumi.
Questo ha sempre spaventato chi gestisce la fede: che la condizione umana riveli definitivamente a se stessa, che sia per presunzione o per disperazione, di poter fare a meno di lei.
Helena, grazie della risposta.
Tu dici che ti sembra strana la mia domanda, ma io come prima cosa se si parla di uno spettacolo teatrale chiedo se è bello, se è piaciuto, se ne vale la pena, chiedo insomma il suo valore artistico. Questo non è sempre proporzionale alla sua rilevanza nella storia della forma di arte a cui appartiene o alla sua eco nella cultura di un paese: spesso opere che hanno rappresentato un momento importante nell’evoluzione di un qualche tipo di arte o anche solo che hanno avuto una certa eco nella cultura erano innovative se non solo trasgressive ma di scarso valore.
Leggendo su questo spettacolo qui su NI e altrove è stato assai difficile capire cosa ne pensassero i commentatori del suo valore artistico, si è parlato molto di più delle polemiche, della sua presunta blasfemia o religiosità, della puzza presente in scena e tra il pubblico, dell’immagine di Gesù che si spezza e che viene deturpata da non si sa bene cosa ecc.
Mai nessuno che ha ricondotto il suo parere sull’opera al suo valore, alla sua bellezza. Come se far vedere un anziano incontinente che scacazza sul palco (facendo pure sentire al pubblico la puzza), con dietro l’immagine di Gesù e con un figlio che passa il tempo a pulirlo sia, di per sé, già un fatto artistico rilevante e di grande valore. Non è così, tutto questo può essere rappresentato in modo notevole o ridicolo – con tutte le sfumature che stanno in mezzo. E io a questo sono primariamente interessato.
Per quanto riguarda la sensibilità religiosa, io credo c’entri poco l’educazione, credo sia questione di sensibilità tout court. Inoltre non c’è una sola sensibilità religiosa. La sensibilità religiosa di un padre Balducci, o di un David Maria Turoldo, era lontana anni luce da quella di un don Giussani.
Forse, per i primi questo spettacolo sarebbe stato religioso, e per l’ultimo blasfemo.
Io credo che anche le opere esplicitamente anticristiane (o antiebraiche, o antislamiche ecc.) e blasfeme possano essere rappresentate in luoghi non statali. Certo, poi ci sarebbe da considerare nel farlo, a livello pragmatico, il momento politico e storico, l’opportunità, le conseguenze sociali ecc.
Sarei curioso di sapere come reagirebbero per es. i vari esponenti della comunità ebraica a uno spettacolo con una scena in cui un rabbino defeca, o dia l’impressione di farlo, sulla Torah (o magari su una mappa di Israele) – ho fatto volutamente un es. diverso da quello fatto da Mancuso a proposito della Shoah, che non considero una analogia appropriata. Io penso che, indipendentemente dal contesto, molti non esiterebbero un istante a parlare di antisemitismo, e lo stesso, se non di più, farebbero molti cristiani progressisti, o finti cristiani ex fascisti, per non dire degli atei devoti, che so, il Foglio di Ferrara (che con Agnoli ha attaccatto Castellucci alla grande). O mi vuoi dire che tutti direbbero che una simile scena non ha motivo di non essere rappresentata e che dimostra sensibilità religiosa ebraica?
Conseguenze ancora peggiori avrebbe un imam che defeca sul Corano, qui sarebbero molti di meno i cristiani, veri o finti, e gli atei devoti, che si opporrebbero con forza, in compenso gli islamici tutti (o quasi) reagirebbero in modo molto energico, altro che quelli di Militia Christi, e probabilmente avremmo pure minacce di terrorismo dall’estero.
Comunque, in teoria io non metterei limitazioni, al massimo il vietato ai minori, cosa che peraltro metterei molto più spesso a spettacoli (penso ai film) con scene di violenza.
Sono quindi ben poco interessato alla questione: è cristiano questo spettacolo o è anticristiano? O è addirittura blasfemo?
Ma se devo rispondere, mi sembra ineccepibile quanto sottolinea Mancuso: per il cristiano Gesù è il Cristo, è cioè Dio incarnato, che muore per la salvezza, integrale, spirituale e fisica delle persone, e questo fa la differenza. Il Vangelo, l’etica, i precetti vengono dopo, sono meno importanti come sacralità rispetto alla Torah, al Corano, con relativi etica, precetti e insieme di norme, per ebrei e islamici. Si può avere un’etica cristiana e credere in Dio, ma non per questo essere cristiani. Anni fa Adriana Zarri, una teologa femminista dissidente anche più di Mancuso, sul Manifesto scrisse che essere cristiani è appunto credere che Gesù è il Dio incarnato, non basta credere nel suo insegnamento, e fu tempestata da lettere critiche e di insulti, tanto che dovette difenderla la Rossanda. E, per ricitare Mancuso, Gesù è la salvezza, anche dalle quotidiane sofferenze umane, è anzi la risposta a queste, cosa che secondo lui lo spettacolo nega.
Detto questo, si può anche pensare che la fede è anche dubbio, e che quindi quest’opera evidenzi più il dubbio presente in una ricerca religiosa, che è la ricerca di una risposta all’esistenza con tutte le sue sofferenze, e allora la si può considerare un’opera religiosa, pensando soprattutto alla scritta Tu sei (non sei) il mio pastore. A me, che non solo sono aperto alla dimensione spirituale, ma coltivo la religiosità, intesa come ricerca di una risposta al mistero dell’esistenza, però non attrae granché il percorso scenico che Castellucci ha rappresentato con la pretesa di essere segno di sensibilità/fede cristiana.
Paolo e L. Weber
Non so voi come facciate le vostre scelte, ma io per quel che posso mi informo secondo alcuni canali di fiducia sul tema e sulla considerazione che hanno certe opere e poi decido di andare a vederle oppure no in base all’interesse che ha destato in me il tema (lo spettacolo di Castellucci non me l’ha destato) e in base alla positività delle recensioni, contingenze del caso permettendo.
Tutto qui – e mi sembra di dire una banalità. Al massimo posso aggiungere che se più volte un regista o un attore-autore che fa un monologo mi è piaciuto posso avere per lui un occhio di riguardo.
Weber, il suo sospetto è infondato, quel che mi attribuisce è un suo pensiero, io non sto equiparando nessuno. E tuttavia preciso che è estraneo alla mia mentalità il pensare secondo “autorità” ossia il considerare a priori uno spettacolo della compagnia Sanzio più meritevole di esser visto rispetto a uno di Timi o di Gifuni.
Come nel caso della Classifica di Pordenone, anche tutte le discussioni sullo spettacolo della Societas sono un interessante reperto sociologico; e lo specchio fedele dell’ignoranza diffusa su cosa sia «teatro». La stragrande maggioranza degli intervenuti – qui e altrove – affronta lo spettacolo dal punto di vista dei «contenuti»; paradossale, trattandosi di una compagnia che ha sempre lavorato, e programmaticamente, sulla negazione della rappresentazione, della vicenda, del senso … Eppure, chiunque apra un manuale di semiotica teatrale, chiunque lo faccia anche distrattamente, non ci metterebbe molto a scoprire che il teatro è qualcosa di ben più complesso che una tesi fisolofica o un messaggio. Lorenzo Galbiati non ha dunque torto quando rileva la mancanza di un giudizio sullo spettacolo in quanto «spettacolo». Certo, lo stesso Galbiati ha un’idea un po’ strana di cosa sia teatro, o almeno così intuisco io dal suo non fare distinzione tra «Timi, Germano e Gifuni» (e «Ronconi») e la Societas: non bisognerebbe mai fare confusione tra il pressapochismo estetico dei primi (e il carrozzone statale del Luca Nazionale) e l’essenza teatrale dei secondi. Detto più chiaramente: i «Timi, Germano, Gifuni» NON SONO TEATRO (e Ronconi è Ricco Museo), mentre i secondi lo sono, e di grande livello. La Societas non è certo, come scrive Weber, «la più importante compagnia di ricerca del mondo» (un po’ di sobrietà non guasterebbe; e poi è di gran lunga più importante, tanto per fare un esempio, il lavoro del Theatre du Radeau di Tanguy), però, insomma, non è neppure da confondere con quanto il mercato – assistito, drogato, falsato – ci fa passare sotto il naso. Siamo spettatori distratti … Da cosa siamo distratti? Ecco, diamo a Cesare quel che è di Cesare: «23 pugnalate!»; e a Dio? A Dio lo spettacolo della Societas, così … così cristiano … Ebbene sì, ha ragione Helena: lo spettacolo è «profondamente cristiano» … Ma non è una novità … La Societas ha sempre esibito una buona dose di «misticismo simbolico», fin dagli esordi: la loro «iconoclastia», basata su un «gesto» teatrale programmaticamente «riconsacrante e vero» e non «dissacrante e ironico» (lo teorizzano in «Epopea della polvere», Ubulibri). Drammaturgicamente lo spettacolo è debole, fin’anche banale, a tratti irritante per quei concetti esibiti con faciloneria; a Helena direi che la «semplicità» (Brecht) e la «povertà» (Grotowski), in teatro, sono altro dalla banalità … Però ha delle scene efficaci, teatralmente *molto* efficaci … Se Mancuso ha ragione nel rilevarne alcuni limiti estetici (testo ripetitivo e povero, assenza di dinamismo, assenza della dimensione trasfigurante – badate: tutto vero!), ha invece torto quando dice dell’assenza di poesia. Nello spettacolo della Societas di poesia ce n’è parecchia; il problema, semmai, è quale tipo di poesia veicola … Una poesia conciliata, direi io … Ma è un problema che esula da questo commento … Chiudo con un fastidio da “addetto ai lavori” … Mi infastidisce, e non poco, la gara a scrivere di questo spettacolo da parte di persone che mai hanno scritto di teatro. Parrebbe che in Italia non si producano spettacoli interessanti e che abbia senso parlare di teatro solo quando l’evento diventa mediatico … Siamo davvero così distratti? Tra l’altro, anche affrontando il tutto da un punto di vista esclusivamente «politico», lo spettacolo della Societas è poco significativo: non crea senso comune, si spegne subito, finito il can-can giornalistico ritorna nel suo ambito ristretto … Perché nessuno si occupa delle ricadute, in termini di humus culturale o di malattia della percezione, di spettacoli più significativi, sia in senso negativo (Saviano e il banal-teatral-giornalismo) che positivo (Remondi&Caporossi, Frattaroli, etc.)? Ma questo mio è solo uno sfogo … So bene che la «notizia» vale di più di ogni «spettacolo» …
NeGa
Helena, tu mostri il clip di Gaga e commenti:
Secondo me non è proprio, o almeno non è solo, così. C’è anche il fatto che Castellucci è “cultura”, e Gaga è solo “pop”. L’istituzione ecclesiastica non ha problemi col pop perché – suppongo – non ne sa niente e lo considera cosa effimera. Mi ricordo, pochi anni fa, una breve conversazione che ebbi con l’allora (non l’attuale) presidente del Ponficio consiglio della cultura: la sua competenza letteraria si fermava a Bernanos. Chissà se aveva mai sentito nominare Luise Verononica Ciccone, in arte Madonna.
Quanto ai gruppi estremistici, mi pare che facciano dell’ignoranza un vanto.
In verità Giulio, negli anni Ottanta, quando il fenomeno Madonna approdò in Europa ci furono molte reazioni di religiosi e laici cattolici che si dichiararono offesi dal nome che si era scelto.
Ancora più sdegno creò la O’ Connor che stracciò davanti alla telecamera l’immagine di Papa Wojtyla.
Per i presunti satanisti c’era quel pazzo ma simpatico esorcista di Balducci, che catalogava ogni verso pro-diavolo di gruppi heavy metal e poi di gruppi rock di ogni tipo, è arrivato a veder del satanismo anche in Springsteen.
Credo che la musica pop sia tenuta meno sotto controllo di cinema e teatro, da parte della Chiesa cattolica, ma se si toccano le immagini di Gesù o del Papa, infierendovi, scatta la presa di posizione.
Questo vale poco con preti e suore, evidentemente. Però Helena non so se potrò mai perdonarti per avermi fatto vedere un video così brutto di una canzone così brutta ;-) – io che peraltro, e non scherzo, ho scoperto solo qualche mese fa chi fosse Lady GaGa – si scrive così? C’entra Radio Gaga dei Queen?
Pare che si sia ispirata proprio a quel brano…
Ma poErini. Gaga e Madonna sono Cultura! Veicolano con le loro canzonette messsaggi importanti. Spesso positivi. A me fanno cagare entrambe.
Degli spettacoli ‘profondamente cristiani’ mi interessa assai poco. E la cacca in scena (metafora geniale e nuovissima!) quasi mi eccita.
Io mi figuro quattro sciurette spellacchiate coi piumini di oca color rame lasciare il teatro con la puzza di merda sotto al naso, interrogarsi sul senso della vita in una sorta di dramma piSSicoborghese alla Giuliano Ferrara. Lo spettacolo si rivolgeva a loro, no? Ad ognuno il suo pubblico allora.
L’importante e’ che lo spettacolo sia stato celebrato ed abbia anche provocato quelle che un tempo erano le troie in pelliccia, no? Tutto bene dunque.
Ma poi, le badanti immigrate che puliscono il culo ai vecchi, magari all’insaputa dei loro maritini. Non se ne puo’ piu’ di tutta questa visione provinciale e meschina. Aria fresca.
consiglierei la lettura di questo per fare alcune precisazioni rilevanti.
http://www.altrevelocita.it/teatridoggi_sezione-98.html
Parto da AMA (spiace, caro, niente sunnyside-up: avevo già cenato) perché mi pare dica una cosa di buon senso.
Dice: ma che vi scaldate tanto, non vi siete accorti ancora che se qualcuno usa i simboli religiosi in un contesto spettacolare diciamo poco ortodosso, non importa dove e come, qualche prete e qualche fedele si incazzano?
Indubbiamente.
Però a me interessa meno, in questo contesto, l’involontario contro-spettacolo fuori le mura del teatro, le vecchiette col rosario scarrozzate in pullman dal Veneto sotto la guida del prelato lefebriano e negazionista, ma dal cognome superebraico, e affiancate – povere donne – dai leghisti, fascisti e miliziani di Cristo, contrastati dalle falangi di forze dell’ordine, fuori e dentro, mischiate in borghese al beau monde della cultura meneghina: roba che come materia da spettacolo, romanzo o film fa impallidire la messa in scena della Societas.
E mi interessa non moltissimo, benché sia politicamente la cosa più importante, che forse tutto lo scandalo, con la sua capacità di produrre risposte da parte della curia milanese e della Santa Sede, sia stato – a partire dalla Francia – un’occasione perché i lefebriani, riaccolti nel seno vaticano, cercassero di marcare un po’ il loro terreno.
Mi colpisce invece quel che vedo accadere in teste come quelle di Lorenzo o di Vito Mancuso. Perché Mancuso è così certo della sua lettura, quando altri cattolici hanno interpretato il Volto che si imbratta come Volto che molto cristianamente e cristicamente si assume fino a coincidervi la sofferenza umana? Cosa che non è l’interpretazione unica, perché, ripeto, lo spettacolo intende proprio mettere in scena uno specchio della fede o dell’assenza o perdita della fede in chi si confronta con la sofferenza.
Credo che uno degli elementi possa essere una scarsa dimestichezza con il linguaggio dell’arte o del teatro moderno. Mancuso era lì perché c’era stato lo scandalo, sennò se ne sarebbe rimasto a casa a leggere o semmai sarebbe andato a vedere Gifuni o Ronconi. Ma per capire e giudicare criticamente la poesia, la musica, l’arte, un po’ di strumenti specifici di conoscenza sarebbe opportuno averli, cosa che pare abbastanza lampante per l’arte moderna e contemporanea, ma in realtà non vale solo per quella.
Ma credo che il problema maggiore sia il peso politico sempre maggiore che sta assumendo il conflitto tra libertà artistica/d’espressione e sensibilità religiosa.
Ora, nel caso che esaminiamo, le vecchiette venete potevano dormire sonni tranquilli e Lorenzo e Vito non avrebbero dovuto lacerarsi tra due valori opposti, perché se nessuno avesse montato la panna, lo spettacolo poteva continuare a essere frequentato da un pubblico consapevole di ciò che andava a vedere, con la possibilità, ovviamente, di trovarlo una schifezza.
Io penso che sia giusto difendere, in linea di principio, la libertà di scrivere Versetti Satanici, fare spettacoli col Volto imbrattato, presentare rabbini che si puliscono il culo con la torah.
Penso che questa libertà diventi discutibile solo laddove davvero può assumere la forma della non-scelta, ossia della violenza.
Questo però non vale solo per quel che può offendere o turbare i cristiani ebrei musulmani, ma anche le donne, i gay, i bambini, i neri, la comunità armena, quella turca, quella cinese, gli ex combattenti della Resistenza, i famigliari delle vittime del terrorismo ecc. Dato che il quadro complessivo è molto più vasto, urge una dose di estremo discernimento se non si vuole finire di avvallare un modello di società fatto di gruppi che centrano la loro identità sull’autodifesa, cosa che tra l’altro ha effetti ambivalenti sulle istanze più propriamente antidiscriminatorie, perché offusca la loro portata universale.
Conosco i miei polli, per cui aggiungo a scanso di equivoci: i cristiani, in Occidente, non subiscono discriminazioni sistematiche, per cui anche Lady Gaga e tutto il rock satanico sono bruscolini in confronto all’entertaiment fatto di facezie omofobe, razziste o antislamiche o esibizioni di donne-oggetto che dalla tv italiana inondando chiunque la accenda senza immense precautele.
Il problema è: l’offesa presunta è espressione di una cultura dominante discriminatoria o no? Uno spettacolo negazionista lo è, una piece con rabbino defecante bisogna vedere. Nel caso che lo sia, hanno ragione gli ebrei, (i musulmani, le donne, i gay) ecc a incazzarsi.
Il che non toglie che, come ho sentito dire a Stefano Levi della Torre, essere vittime spesso aiuta nel vittimismo (è un problema nostro – di ebrei, gay, donne, neri ecc)ed è un esercizio in cui si stanno spesso specializzando diversi portavoce.
Invece il vittisimo di una religione che l’ha fatta da padrone per secoli e gode ancora di ogni tutela e di enormi privilegi, ossia la regressione anche del cattolicesimo a dispostivo prevalentemente politico- identititario difensivo, temo che sia un problema principale per chi fa parte dei fedeli.
L’ottimo intervento di Helena mi ha messo di buon umore. Oggi Sausage and Mushroom Risotto per me ed il mio moroso.
Confermo che quello di Castellucci era un approccio profondamente cristiano. Non sulle mie corde proprio per questo. Altro che volto imbrattato e cacca! Vai a spiegarlo a quelli che fuori dal teatro ci hanno restituito uno spettacolo molto piu’ interessante. Ed attuale.
Helena,
mi stupisce che stavolta perdi la misura nel valutare quel che ho scritto.
Forse Mancuso ha deciso di andare a vedere lo spettacolo per lo scandalo suscitato, o forse su invito del Parenti dato che era tra gli ospiti che ne avrebbero discusso alla fine, ma in ogni caso non capisco cosa c’entri io con lui nel tuo ragionamento: lacerarmi? non dormire sonni tranquilli? per un tema, come la “trama” dello spettacolo, che ho precisato aver suscitato poco interesse per me?
Se rileggi bene quel che ho scritto, ti accorgi che io sono stato colpito solo da una cosa: che Mancuso ha criticato lo spettacolo dal pdv estetico usando termini che erano esattamente quelli che mi erano venuti in mente a me leggendone. Per il resto, ho soltanto aggiunto che mi sembra ineccepibile quel che lui intende per sensibilità cristiana, non ho detto che la sua interpretazione dello spettacolo sia l’unica possibile, anzi, ho aggiunto una interpretazione alternativa, piuttosto facile da elaborare, che poi si riallaccia a quel che ha spiegato Castellucci nella sua lettera (il dubbio e la fede espressi nella frase Tu sei (non sei) il mio pastore).
NeGa e Helena
Dato che ho fatto l’errore di entrare nel personale dicendo le mie scelte teatrali, sarà il caso di precisare ulteriormente sperando che poi nessuno si permetta di nuovo di svalutare i poveri Timi, Ronconi, Germano e Gifuni (li hai visti?) senza averli visti, a meno che questo elementare concetto debba valere solo con Castellucci.
Io sono un insegnante precario con molti interessi che è più appassionato di cinema che di teatro. Ogni anno vado a teatro con Invito a teatro (8 spettacoli per 68 euro ma forse quest’anno è aumentato) e quando trovo spettacoli di mio interesse dopo mie ricerche o su consigli di amici, compatibilmente con impegni e e finanze.
Quindi quest’anno avevo già prenotato 4 spettacoli su 4 weekend: Timi (Favola al Parenti con Invito a teatro su consiglio di amici, io manco conoscevo Timi, e comunque devo dire che il testo surreale è poca cosa ma la sua recitazione istrionica è notevole), Germano, Gifuni, l’ingegner Gadda va alla guerra, regia di G. Bertolucci, e secondo me quello è teatro coi fiocchi, ma io non sono un esperto un critico, è solo la mia opinione (che cmq coincide con il premio Ubu). Voi l’avete visto?
Poi sono andato a vedere La modestia di Ronconi visto che l’autore del testo è un giovane molto considerato, visto il tema, e visto che mi interessava rivedere Ronconi dopo credo 15 anni, e non mi è piaciuto quasi per niente il testo e la recitazione degli attori. Ora, in tutto questo è uscita la polemica per Castellucci che mi ha posto sul piatto il suo tema, il suo testo “scandaloso” o presunto tale.
Ora, ammesso che ci fossero ancora biglietti e che io avessi soldi e voglia in questa mia già fitta programmazione di teatri di vederne un altro, io ho soltanto detto che la polemica in sé, con tutti a dire andata a vederlo prima di giudicare, di per sé non ha fatto scattare in me la voglia di andare a vederlo (quello che ho “chiamato seguire le mode”) perché il tema della rappresentazione, il come l’ha sviluppata non mi ha suscitato interesse né me lo hanno suscitato le quasi introvabile recensioni allo spettacolo, sembrava si dovesse andare a vederlo perché era Castellucci e a maggior ragione perché aveva fatto scandalo.
Mi auguro che mi leggiate senza pregiudizi, perché è senza pregiudizi che dico che qui su NI, così come ovunque, si è parlato dello spettacolo per difenderlo dalle contestazioni senza spiegare bene chi le faceva e per quali contenuti presenti – e lo stesso Castellucci, a essere obiettivo, è stato contraddittorio nello spiegare cosa lo spettacolo rappresentasse in alcuni punti – e inoltre senza sentire il bisogno di dare un proprio parere critico sullo spettacolo, come se – questa è l’impressione di un lettore – il valore dello spettacolo fosse deciso a priori: da qui la mia iniziale domanda a Helena.
PS Quindi ringrazio NeGa per la sua abbozzata recensione dello spettacolo, e gli chiedo: se solo il Sanzio e poche altre compagnie “sono teatro”, il resto cioè quasi tutto quello che va in scena, come lo chiamiamo?
spettacolo
(vedi link sopra)
Azzurra, ti chiedo allora se sai indicarmi qualche “teatro” in scena a Milano (in teatri, in sotterranei, in posti vacanti e poco garantiti, ovunque) da oggi a giugno, così magari sarà la volta buona che vado a vedere un teatro e non uno spettacolo.
beh c’è stato fino al 26 il Woyzeck per ombre proprio di morganti al Crt se non sbaglio, per documentarsi c’è una bella recenzione di palazzi http://www.myword.it/teatro/reviews/5485
(per fare un esempio non frequento milano e non ho chiari i suoi cartelloni, ma qualcosa ci sarà pure, non disperiamo)
@ Galbiati. Sono assolutamente d’accordo con lei nel non fare distinzioni in merito a cosa sia ‘teatro’ fra gli artisti da lei citati, e in generale fra tutti gli artisti. Il Teatro è sostanzialmente un edificio, in cui si rappresenta uno spettacolo dal vivo. Per estensione, sono poi definiti in particolare Teatro qui generi di spettacolo dal vivo che stanno a cavallo fra la prosa pura e semplice e il teatro visivo o fisico (per usare una espressione anglosassone), senza dimenticare la narrazione e affini. Poiché questi generi sono spesso fuoriusciti dall’edificio che dà loro il nome, il Teatro indica una serie di esperienza di spettacolo dal vivo molto varia.
(Del resto, se vado a teatro a vedere un balletto, vedo della danza: ma Pina Bausch, per esempio: è Danza? Teatro? Teatro-danza?
La mia risposta preferita è: chi se ne frega? È Pina Bausch)
NeGa credo ponesse una questione di valore (cosa è Teatro e cosa non lo è), che posta in questo modo è sempre molto opinabile.
Quello che io intenedevo
@ Galbiati. Sono assolutamente d’accordo con lei nel non fare distinzioni in merito a cosa sia ‘teatro’ fra gli artisti da lei citati, e in generale fra tutti gli artisti. Il Teatro è sostanzialmente un edificio, in cui si rappresenta uno spettacolo dal vivo. Per estensione, sono poi definiti in particolare Teatro qui generi di spettacolo dal vivo che stanno a cavallo fra la prosa pura e semplice e il teatro visivo o fisico (per usare una espressione anglosassone), senza dimenticare la narrazione e affini. Poiché questi generi sono spesso fuoriusciti dall’edificio che dà loro il nome, il Teatro indica una serie di esperienza di spettacolo dal vivo molto varia.
(Del resto, se vado a teatro a vedere un balletto, vedo della danza: ma Pina Bausch, per esempio: è Danza? Teatro? Teatro-danza?
La mia risposta preferita è: chi se ne frega? È Pina Bausch)
NeGa credo ponesse una questione di valore (cosa è Teatro e cosa non lo è), che posta in questo modo è sempre molto opinabile.
Quello che io intendevo, rispetto al suo commento, era che non fosse così pregnante indicare come lei – e in effetti quasi tutti – sceglie di vedere uno spettacolo. E che questa incursione personale contenesse in fondo una posizione critica, negativa – che sarebbe sacrosanta, se lei avesse visto il lavoro.
Invece, se il lavoro non le è interessato, e quindi non lo ha visto, è lecito: ma perché commentare?
Insomma, come per la questione su cosa sia teatro e no: chissenefrega?
Non me ne voglia.
( e, per inciso, io amo e apprezzo molto Ronconi, Timi e la Societas, sono critico a volte con questo o quel lavoro, ma se ne ho voglia vedo anche un musical senza alcuna preclusione ideologica)
Paolo
Paolo, potevo evitare la mia “incursione personale”, che però per la fretta ho scritto e lasciato – come sa, ci vuol tempo per essere sintetici.
Ho semplicemente detto la verità, cmq, quel che ho letto e visto online sullo spettacolo di Castellucci ha prodotto in me un’impressione, come è normale che sia, e tale impressione non era attraente perché mi sembrava il tutto fosse, come scene e testo, povero statico ripetitivo. Leggendo esattamente questo nell’articolo di Mancuso, sono rimasto colpito; tenga anche presente che mentre iniziavo a leggerlo avevo il pregiudizio che a Mancuso quel teatro fosse piaciuto, dato che era stato uno degli ospiti del Parenti al dibattito del dopo spettacolo. Poi magari, fossi andato a vedere lo spettacolo, avrei dato un giudizio tutto all’opposto di quello di MANCUSO. Dimenticavo: dovrei dire teatro, in questo caso…
Honi soit… semplificando: ma non sarà che la Chiesa, come la società in tutta la bruttura della rimozione, idiosincrasia della cultura e obbligo di una nuova etica e scuola del semplicismo, stia cercando di allontanare da sé con tutte le sue forze la fatica, la bruttura, gli aspera (finendo col cedere anche gli astra, ma era il minimo che si meritavano…), tutto quanto sembra insomma finito e dimenticato con le immagini di Woytila che arranca nel suo ultimo tratto di uomo molto debole, molto reale e dunque aderente all’immagine del calvario? Che abbiano il terrore di far vedere la vecchia scuola della santità e fretta di rinnovare con lustrini per aggiornare la facciata al pubblico nuovo pagante? Solo un terrore, e non sacro, scusate il facile gioco di parole.
Per questo io penso, e so di avere molti limiti, che si lasci più spazio alle proteste degli intehralisti e al sentimento comune non informato, e si tengano da una parte le riflessioni serie e distaccate. Per le ragioni che ho accennato sopra, ma anche per la poco care e molto vecchia legge del volgo da tenersi ignorante.
@ Lorenzo (e Paolo)
strano che tu non applichi al teatro lo stesso schema di ragionamento che usi per altre questioni … Così come l’ambito politico o letterario, il teatro non è solo ciò che si vede, anzi: spesso è ciò che non emerge, che sta ai margini, che è, in qualche modo, escluso dal giro-che-conta … E questo perché la nostra società è fatta nel modo che tu stesso hai dimostrato più volte di conoscere: c’è chi appare spesso e c’è chi soppravvive a stento … Chiediti: chi appare è davvero meglio di chi riesce ad esporsi magari solo 3 volte all’anno? Se ho inteso bene, stai a Milano … Cerca Danio Manfredini … Non ha l’opportunità di fare molti spettacoli, ma ti garantisco che quando lo vedrai una sola volta noterai, non potrai non notare, la differenza tra lui e Timi, Gifuni etc.. Azzurra D’Agostino ha proposto uno scritto di Claudio Morganti … Prova a guardare un suo spettacolo e poi ne riparliamo … Vedi, la distinzione tra «teatro» e «spettacolo» non è un capriccio elitario: è il frutto di mezzo secolo di ricerca teatrale. Quella divaricazione comincia con Artaud, passa da Grotowski e approda a Carmelo Bene … E’ stata l’istanza del miglior teatro del secondo dopoguerra … Sì, oggi è minoritaria e perdente, così come è minoritaria e messa molto male l’idea di superare il capitalismo o di ottenere una Palestina libera … Quando affermo che quello di Timi, Gifuni etc. *non è teatro* lo faccio sulla base di qualcosa che non è solo un’opinione personale; lo faccio sulla base di un’idea critica precisa, che è fatta di eventi e di studi, di esperienze concrete di palcoscenico e di precisazioni teoriche … Mi limito a un’unica sollecitazione: la recitazione di Timi, Gifuni etc. è di tipo cinematografico e non teatrale (uso del corpo-voce in mera traduzione di copione, senza «eccesso» o «spreco») … Certo che può piacere, e chi lo nega? Lo Stabile per il quale lavoro ha appena prodotto uno Shakespeare con i comici di Zelig e la musica del duo Spinetti/ Magoni: perfetto, divertente, teatralmente un gioiellino … Ma è intrattenimento; è, per l’appunto, «spettacolo» … Credimi, quella distinzione è criticamente fondata … Tra l’altro, a fare il pignolo, il fatto che il Premio Ubu conferisca status di «teatro» a Timi, Gifuni etc., non depone a loro favore, giacché lo stesso Ubu ha conferito premio e status anche allo spettacolo (squallido, teatralmente parlando) di Saviano e – niente-meno-che! – ad Alessandro Gasmann e, nell’ultima edizione, a quell’immensa cagata di (qui mi taccio per non farmi altri nemici) … Se ricordo bene, hai espresso riserve sulla Classifica Dedalus; prova a studiarti il funzionamento del Premio Ubu, poi, anche di ciò, ne riparliamo … In ogni caso, ti consiglio di andare a vedere la Societas: questo ultimo non mi ha convinto per motivi esteci e politici, ma hanno prodotto delle vere e proprie opere d’arte (Buchettino, Celine, Giulio Cesare, etc.) …
NeGa
PS: il teatro non è «un edificio», bensì una RELAZIONE …
Ti quoterei appieno. Ma alla fin fine chi se ne fotte!
Al Cinema le cose non vanno meglio. Shame di Steve McQueen non credo sia stato neanche preso in considerazione dai babbioni dell’Academy Awards, tutti intenti a difendere le loro posizioni acquisite.
Hai visto We Need to Talk About Kevin? BOOM!
Che facciamo, ci mettiamo un plug in culo, gli occhialoni Nerd e con una matitina rossa facciamo le crocette? Questo credo sia cinema, quest’altro invece mero intrattenimento?
Nega, non credo sia questione di diverso schema mentale, credo
– di conoscere poco il teatro rispetto ad altre arti
– che il teatro sia per tutti una forma di arte più difficile da avvicinare rispetto a cinema, letteratura, musica: pochi ne parlano, pochi sono i “teatri” (e molti gli “spettacoli”) che vanno in scena, più difficile è la fruizione domestica. Per es. mi pare che la Sanzio non andasse in scena a Milano dal 2001, e ora se dovessi aspettare Manfredini quanto aspetterei? Per un frequentatore ancora poco “istruito” come me intanto, in attesa che arrivino i teatri, va bene anche farsi una cultura con i classici e con teatri (o spettacoli, come vuoi) fatti su testi di una certa levatura da attori sopra la media, come considero per es. Gifuni ne L’ingegner Gadda va alla guerra, che se non è teatro non chiamerei comunque intrattenimento. Cercherei insomma di non essere rigido nella tua schematizzazione, di cogliere le sfumature nel mezzo, che sono poi quelle presenti tra categorie applicabili a tutte le arti, credo, ossia classico/sperimentale, commerciale/d’autore, o prodotto commerciale/opera d’arte.
Poi ci vogliono gli agganci, persone che diano dritte, meglio se addetti ai lavori, e ti ringrazio per le tue. L’anno scorso per es. ho scoperto I cenci, messo in scena qui a Milano da una compagnia di dilettanti, grazie ad un’amica, e mi è piaciuto più di qualunque altro visto con Invito a teatro, per dire.
http://www.babiloniateatri.it/?page_id=266
grazie per avermi chiarito che l’arte moderna in fin dei conti non è solo merda d’artista riciclata(cosa che mi sono permesso di credere,in particolare sullo spettacolo in questione leggendo all’acqua di rose quasi tutte le recensioni,fino alla tua sintesi appassionata)
http://notbrain.com/media/archive/musicbackup/iTunes/iTunes%20Music/Peter%20Gabriel/Passion_%20Music%20For%20The%20Last%20Temptation%20Of%20Christ/02%20Gethsemane.mp3
Certe cattive recensioni creano sempre danni fastidiosissimi. Per fortuna, in questo caso la polemica preventiva è servita da disinnesco, e il teatro F. Parenti si è riempito. Quasi quasi bisognerebbe ringraziare l’arcivescovo di Milano Angelo Scola e il suo richiamo, da me inizialmente giudicato inopportuno, al teatro.
Le gerarchie ecclesiastiche e i loro recensori, dovrebbero sincronizzarsi meglio per ottenere l’effetto voluto.
@ NeGa. Non ho nessun problema rispetto alla sua idea di Teatro. Purché sia chiaro che lei esprime opinioni personali, che sono sacrosante. Il problema è che nell’esprimerle, lei dà l’idea di ritenere che queste non siano opinioni personali, ma di avere invece chiara -lei e pochi eletti, la cerchia di chi è d’accordo con lei- la vera e autentica natura del teatro. Frutto della sua opinione personale, ma corroborata da una “idea critica precisa, che è fatta di eventi e di studi, di esperienze concrete di palcoscenico e di precisazioni teoriche” che lei vede meglio di altri. Segno che se uno, sulla base di precisazioni teoriche e idee critiche, ama Gifuni, evidentemente ha capito male..
Nel difendere queste opinioni scende però in inesattezze. Per esempio, cita il premio Ubu come qualcosa di quasi squalificante, una sorta di cappello del potere teatrale sugli artisti che fanno solo ‘spettacolo’. Peccato che poi tutti gli artisti che fanno ‘teatro’ da lei citati lo hanno vinto pure loro, ottenendo consacrazione e visibilità (non vado a ricontrollare, ma credo la Societàs due – per Genesi e per la direzione di Castellucci della Biennale di Venezia -, Manfredini sicuramente per ‘al presente’, ma credo anche per cinema Cielo – ecc. ecc.)
Cita la recitazione di Timi e Gifuni come ‘cinematografica’, ma a parte che sono molto diversi, Timi è nato e cresciuto come attore di teatro e ben pochi in teatro recitano con così ampia consapevolezza della sua convenzione.
In generale sono d’accordo con lei, nello stigmatizzare certe operazioni troppo commerciali di certi teatri – che però sono anche nel loro diritto, diciamolo. Io non vado a vederli, ma altri, sì e non credo faccia bene al teatro continuare con questa spocchia intellettuale con cui si attaccano i gusti altrui. Anche perché lei sembra quasi porre sullo stesso piano uno Shakespeare coi comici di Zelig con Gifuni… e via, su!
Detto poi che l’orrore dello shakespeare coi comici (se era orrore, non l’ho visto), al massimo sarà in chi se lo è immaginato. Perché non è che essere un comico di Zelig sia peccato contro l’arte da lavare nel disprezzo!
Avendo avuto l’onore di conoscere Manfredini, penso che mai e poi mai si sognerebbe di disprezzare un comico di Zelig in quanto lui fa il vero teatro, e quelli no. Ed è anche per questo che è un artista grande. L’ho anzi visto lavorare nei suoi laboratori su pezzi di Cabaret che un allievo aveva pronti, e lavorarli come tali, non come ‘spettacolo’ senza dignità.
Invece, queste distinzioni animate dal sacro fuoco, questa idea di un vero teatro che sta ai margini, senza che il mondo cattivo se ne accorga, assomiglia a quelle centinaia di lamentele che arrivano ogni giorno da artisti scadenti, che giustamente non hanno alcuno spazio, ma che continuano a non capire come mai il loro talento (!) non sia mai preso in considerazione da nessuno.
Forse il loro teatro è troppo Teatro.
Forse è meglio di loro perfino lo Shakespeare di Zelig.
(ps. capisco bene cosa intende quando dice che il teatro è relazione, ma è una frase che buttata così, in questo contesto, non significa niente. Volendo, anche provarci con una ragazza è RELAZIONE. E’ dunque anche Teatro?)
Per prima cosa, sarebbe opportuno leggere bene cosa scrive il suo interlocutore … Non ho “stigmatizzato” né parlato male dello Shakespeare con i comici di Zelig (né ho da nessuna parte “disprezzato” costoro), tutt’altro; ho scritto che trattasi di spettacolo «perfetto, divertente, teatralmente un gioiellino», pur rientrando esso nell’ambito dell’«intrattenimento» … Ora, possiamo smenarla quanto vogliamo, ma tra uno spettacolo che smuove le corde più basse della percezione, per altro senza permettere allo spettatore di portarsi a casa nient’altro che il godimento immediato, e uno spettacolo che smuove in profondità l’animo di chi partecipa all’evento, c’è differenza, una enorme differenza … La differenza che passa, per l’appunto, tra la categoria dell’intrattenimento e quella dell’arte … (tra «spettacolo» e «teatro», per tornare a bomba) … Rilevare questa differenza non vuol dire disprezzare alcunché …
Certo che la mia opinione è «personale»! E come potrebbe essere diversamente? Però, insomma, anche qui non prendiamoci in giro: la mia idea è soltanto mia? Si guardi in giro …
L’ultimo capoverso, quello sul “fuoco sacro”, è del tutto irricevibile e fuori luogo. Niente di quanto ho scritto lo rende sensato (tra l’altro, lavoro per uno Stabile, non proprio per una compagnia “marginale”).
Su Timi, Gifuni etc. non ho difficoltà, qual ora me ne fosse data l’occasione, di dimostrare, esempi audio e video alla mano, che trattasi di recitazione basata su un «uso del corpo-voce in mera traduzione di copione, senza “eccesso” o “spreco”» … Io la chiamo “cinematografica”, ma possiamo accordarci tranquillamente per un altro termine …
Ultimo poi chiudo: non confonda la difesa di una idea poetica (lo ripeto: che non è solo mia) con la spocchia; impari piuttosto a leggere …
PS: chiunque ha masticato decentemente cose di teatro, sa bene che la frase sul teatro come relazione e non come edificio è di tal Grotowski (relazione tra scena e platea, of course) …
Letta la sua risposta, di cui la ringrazio, sottoscrivo ulteriormente il mio intervento. Visto che per rispondere a queste precisazioni (a parte l’invito a imparare a leggere, in cui non mi addentro) dovrei semplicemente postarlo di nuovo, penso che ci sia sufficiente chiarezza sulle rispettive posizioni perché chi sia interessato a leggerle si faccia la sua opinione.
Scusate l’assenza dovuta a vari motivi.
Bene, c’è stata soprattutto una discussione sul teatro. Da parte mia posso dire che preferisco seguire quasi esclusivamente quello di ricerca, senza per questo sentirmela di dire che, per esempio, quello di Gifuni sia teatro borghese un po’ rimesso a nuovo(in un’accezione del tutto spregiativa, almeno). Ho semplicemente pochissimo tempo da dedicare alle uscite e quel tempo voglio impiegarlo in qualcosa che possa aprirmi la testa sulle possibilità dell’espressione artistica, anche se non mi corrisponde o non mi convince. Stessa cosa per il cinema.
Nel merito dello spettacolo della Societas: capisco che possa sembrare troppo conciliatorio. Del resto questo sta anche nelle premesse estetiche del loro lavoro come ricorda Nevio, la ricerca di “riconsacrare”. Brecht dunque pare per forza di cose assai lontanuccio. Non condivido invece la valutazione sulla povertà=banalità. E’ vero che tutto è costruito su elementi assai elementari, pressoché luoghi comuni del quotidiano o della cultura religiosa. Dall’interno bianco borghese con tv, al linguaggio del figlio, al pannello finale con i versi del salmo nella lingua in cui sono più idiomatici.
Non c’è vera azione drammaturgica, solo ripetizione. Che tutto questo sia frutto di scelte precise credo sia evidente a chi conosce il lavoro del gruppo, capace di costruzioni infintamente più complesse e ricche di spunti culturali ricercati.
Ho trovato significativo che per affrontare questo tema, avessero scelto una simile riduzione a rischio palese di banalità.
Non voglio tirare in ballo la povera Arendt, perché la banalità del male di Eichmann non c’entra un tubo con questa qui che si nasconde potenzialmente in ogni casa senza nessun responsabile dal volto umano. Poi uno, certo, può ritenere che tale messa in scena di una banalità non produce a sua volta che banalità.
Forse è una mia impressione, ma mi pare di cogliere, da posizioni e con motivazioni molto diverse, una sorta di sottointeso “ma vabbé, preti incazzati a parte, che bisogno c’era di mettere in scena quella roba lì?”
Che palle ste badanti (da dove ti sono saltate fuori, AMA, scusa?), che noia chiedersi se qualcuno là fuori si accorge della nostra sofferenza, impostazione che non conduce a nessuno scarto critico, che perdita di tempo guardarsi un vecchio che si smerda sotto l’immagine di Cristo.
D’accordo, liberissimi.
Ma permettetemi di essere libera di subodorarvi anche il riflesso, direi più comune per gli appartenenti al genere maschile, dell’idea che questa vicenda non ti riguarda finché non ti tocca in prima persona (speriamo di esser morti prima) o che, se riguarda chi ti è vicino, possa essere delegato alla madre o alla badante (che, sì, fa un lavoro assai più difficile del tirar su merda, ma anche quella è un bel momento).
Insomma, continuo a credere che Castellucci e co. abbiano davvero beccato un punto piuttosto critico, portando in scena un padre e un figlio forse non solo per coerenza evangelica. Un figlio con la cravatta, ma totalmente inadeguato a affrontare il disfacimento paterno, in cui è preferibile non doversi ripecchiare.
L’ultimo commento di Helena mi sembra molto bello per la sua sensibilità, la stessa presente nella seconda parte del suo articolo, quella che avrebbe dovuto, credo, nei suoi propositi, far scattare nei commenti la riflessione sulla rappresentazione della sofferenza, cosa che non è avvenuta direi soprattutto a causa del mio primo egoistico commento, che ha portato la discussione sul valore dell’arte dell’ultimo Castellucci e su cosa sia il teatro.
A mia parziale discolpa però (lo so, me la canto e me la suono da solo) c’è il fatto che volendo impostare il discorso sulla discussione del valore artistico di un’opera, si evitano le questioni riguardanti lo scandalo e la censura (presenti nel titolo dell’articolo e un po’ fuorvianti secondo me con le intenzioni del pezzo) e anche quelle riguardanti la sua presunta o reale religiosità o antireligiosità (che secondo me sono del tutto soggettive) e si entra dritti nel tema di cui tratta, perché per parlare e valutare del/il come lo tratta escono i nostri pensieri e sistemi di valori in proposito.
In questo senso posso aver dato la sensazione che Helena coglie un po’ in tutti i commentatori, quella di voler evitare il confronto personale, carnale con la sofferenza fisica, una sensazione un po’ razzista, dato che Helena la associa al nostro essere maschi – ma Helena ha già spiegato nel penultimo commento che non si può discriminare chi ha un potere egemonico (Chiesa cattolica e società maschilista, entrambi associati all’Occidente) e quindi presumo che le categorie discriminate oltre a dover essere più protette possono prendersi delle libertà in più rispetto alle altre.
Ora, per non deviare di nuovo il tema, dico subito che non voglio trattare qui quest’ultimo argomento ripreso da un ragionamento di Helena, che cmq mi interessa moltissimo perché contenente le questioni relative ai vari tipi di intolleranze, discriminazioni e protezioni di cui gode ogni tipo di appartenenza nonché il chiedersi quale sia l’incidenza delle religioni istituzionali e la cultura egemonica nella nostra società. Non ora, non qui. E nessuna provocazione per il termine “razzista” addebitato all’impressione di Helena, diciamo che è un “razzismo” che accolgo con piacere perché credo sia corroborato dai fatti: noi maschi abbiamo meno confidenza con il pulire merda.
Ora, però dico la mia: più che “che bisogno c’era di mettere in scena quella roba lì?” cioè un figlio che pulisce la merda del padre, per me vale che bisogno c’era di metterlo in scena in quel modo iperrealistico e con uno sfondo religioso. Le risposte paiono essere:
– iperrealistico proprio perché il tema nella nostra società è rimosso
– religioso per precise intenzioni di Castellucci, che Helena riassume così: “La rappresentazione della sofferenza fuori le mura della solitudine individuale ha bisogno di un terzo occhio che non sia soltanto “mio”, di una trascendenza fosse anche solo intesa come comunanza degli esseri umani. Ma tale trascendenza si fonda su una relazione diretta che ammette dubbi, pianti, grida di disperazione o di soccorso, non deleghe e mediazioni istituzionalizzate.”
Ora, a me sono proprio queste due scelte, l’iperrealismo e la connessione a una trascendenza che non mi hanno interessato. Quel che ci ha visto Helena nella seconda, ossia le righe citate sopra, è però molto poetico e di poesia parla anche NeGa in proposito allo spettacolo. Quindi questo depone a favore dell’opera e la mia reazione istintiva (il considerare banale e per me fin troppo approfondita l’associazione sofferenza volte di Gesù) potrebbe essere sbagliata. Per quanto riguarda il rapporto con la sofferenza, credo di non rientrare nel caso di maschile tipicizzato da Helena, e non solo per aver fatto per un anno, durante il servizio civile, anche il lavoro di pulire da merda e piscia degli handicappati (termine che preferisco a “disabili” quando una persona ha un handicap totale, fisico e mentale che identifica tutto il suo essere). Il punto quindi per me è come trattare la sofferenza e il dolore. E se ho tempo concludo il mio contributo alla discussione parlando di quel che ho visto, su questo tema, in Una separazione.
Lorenzo, un po’ grossolanamente. Può esserci intolleranza reattiva antimaschile, anticlericale ecc. Ma non esistono dei contesti rappresentativi della vita sociale dove un cattolico o un uomo eterosessuale è discriminato, mi pare.
Non lo dico per polemica, ma per chiarire.
Poi ho detto che la paura di confrontarsi con la sofferenza più elementare mi pare più grande negli uomini, ma non investe solo loro.
C’è una grande differenza se ti occupi di estranei o dei tuoi genitori. Perché quelli ti smuovono tutt’altri strati, hanno scritto la tua storia, nel bene o nel male.
Concordo su tutto. Avrei dovuto mettere la faccina sorridente quando scrivevo “razzismo”.
Pulire il culo ai propri padri senza tante moine, magari dando una sistemata anche ai loro cateteri, rifuggendo la crisi mistica. O prendere una badante. Una infermiera. Pragmatica. Attenta all’improbabile inatteso schizzo. Affrontare comunque la cosa con un certo equilibrio. Come facciamo tutti, senza indugiare su compiacimenti estetici. Ma se proprio merda deve essere, che sia quella di Steve McQueen in Hunger.
Noi occidentali soffriamo tantassimo. Abusiamo di droghe e di psicofarmaci, dati alla mano. Siamo fragili. Basta un nonnulla per farci avere un attacco d’ansia. Ma non siamo ancora al delirio dello Scambio simbolico e la morte di Baudrillard. Siamo di sicuro molto ma molto annoiati di fronte alla banalita’ di certe rappresentazioni. E prima di farci smuovere il culo dalla poltrona ce ne vuole.
mi è tornata in mente una battuta di luttazzi(forse)che recitava più o meno così:”prossimamente Sharon uscirà dal coma.Col carro armato”.E poi quell’altra che io ricordavo sul jazz anche se in realtà è attribuita a Murakami(1Q84)”se non lo capisci senza che te lo spieghi, non lo capiresti anche se te lo spiegassi.”A proposito di sensibilità dico
http://195.122.253.112/public/mp3/Queen/Queen%20'Seven%20Seas%20Of%20Rhye‘.mp3
Vorrei dire due parole sul film Una separazione, secondo me molto bello e significativo nel panorama iraniano, un film che dice molto anche a noi occidentali e che accomunerei a un altro film notevole, il coreano Poetry (uscito l’anno scorso), per la tematica della donna che va a curare un uomo anziano (in quel caso anche con implicazioni sessuali).
Una separazione critica sia la cultura religiosa sia la cultura borghese, moderna, diciamo laica, per quel che di laico ci può essere in Iran.
La famiglia laica presenta una donna che vuol emigrare poco sensibile alle esigenze del padre del marito, e che rinuncia alla figlia senza troppi problemi. Una donna cui interessa raggiungere i suoi obiettivi, una vita comoda, senza troppo pensare alla verità nel caso giudiziario che investe il marito. Il marito, dal canto suo, pur perorando una causa giusta, in cui vuole scoprire la verità, mente su una questione marginale ma che lo manderebbe in prigione e una volta scoperto dalla figlia, lascia a lei la crudele libertà di decidere se lui deve dire o meno la verità davanti al magistrato. La figlia undicenne (che forse ha commesso un furto in casa) si trova infine lei stessa a dover dire se il padre ha mentito o meno, ricoprendo così il ruolo di una ragazza troppo presto cresciuta, se non emancipata, a cui la situazione e la laicità aperta dei genitori impongono di prendersi responsabilità non sue.
La famiglia religiosa propone un marito violento e ottuso, un personaggio veramente irritante, e una donna petulante e che è la causa di tutto il conflitto con le sue negligenze verso l’anziano che deve curare e con la sua richiesta di risarcimento per un fatto non comprovato: tale sarebbe il comportamento di una persona sinceramente religiosa. A rendere il tutto più antipatico sono i continui richiami della donna ad Allah, che ogni volta sarebbe testimone di quel che ha fatto e di quel che sarebbe successo (ovviamente a sua discolpa), anche se lei stessa non ha capito bene cosa è successo – solo alla fine la donna si riscatta e dimostra un sano attaccamento alla verità. Sempre a lei spetta la scena, riportata da Helena e da tutti i critici, nonché da i trailers, in cui chiede al telefono se lo stato permette a una donna-badante di pulire un uomo che si lorda dei propri liquidi, scena che, per la serietà con cui viene fatta una richiesta che noi occidentali stimiamo ridicola, provoca al pubblico in sala un accenno di riso involontario. A me per la verità non ha provocato questa reazione, ero anzi piuttosto immerso nella serietà della richiesta. Molto più fastidio mi ha dato la scena in cui il marito chiede a lei di commettere peccato, mentendo, cercando di persuaderla dicendole che si sarebbe preso su di sé, di fronte ad Allah, la colpa di quel peccato. Ipocrisia allo stato puro, espressa in una forma che pare consentita dalla religione stessa: questa mi sembra la critica più forte alla religione, più ancora che allo stato teocratico, che il film esplicita.
La critica mi sembra dunque estesa a ogni livello rappresentato: coppia laica, coppia religiosa, stato, religione, in un continuo vortice di caduta e riscatto che evita di far passare il discorso come assoluto.
Quando una civiltà diventa vecchia c’è di tutto. Fanatici che non hanno la minima cognizione di civile convivenza e autori che non hanno ancora compreso che la cura di un mondo esteticamente decomposto non è amplificare la decomposizione estetica a dismisura. L’articolo in sé è bellissimo. Ma gli uni e gli altri non mi piacciono di principio.
Capisco il punto e penso di condividere abbastanza, per quel che mi riguarda. Infatti una cosa che mi sarebbe piaciuta approfondire è come mai il film iraniano sia un’opera infinitamente più complessa dello spettacolo italiano-occidentale. Dal punto di vista della costruzione narrativa, dei piani di lettura che si sovrappongono, non certo quello della produzione. In questo, per dire, si distingue molto dal cinema volutamente lento e povero (banché “bello”) di Kiarostami. Ha, giusto per capirci, la complessità di un romanzo del primo Novecento, dove oltre alla capacità di rappresentare la società attraverso una storia privata, un dramma borghese, entra pure una riflessione sulle menzogne, gli equivoci, i silenzi, insomma i problemi di comunicazione che rendono ancora più soli i singoli con i loro fardelli.
Mentre il dramma messo in scena ha questa elementarità di cui si diceva. In realtà, pur con la merda di cui si è discusso tanto, ho visto uno sforzo di non assecondare un’estetica della decomposizione. Nei limiti del possibile, quando si mette in scena la disperazione e l’umiliazione, sembra esserci stata una ricera di misuratezza, di non-spettacolarizzazione nient’affatto scontata.
Per me la domanda è piuttosto: dobbiamo davvero tornare a un grado quasi zero di linguaggio per affrontare certi nodi?
Non amplifichiamo la tragedia, non è dignitoso, e lasciamo tutto nella sfera privata.. la vergogna è insopportabile, sono daccordo.