Zona Rossa
di Alessandro Chiappanuvoli
Avete presente una di quelle serate in cui siete talmente fuori che il giorno dopo ricordate un decimo di quello che avete fatto? Quelle serate in cui vivete d’improvvisi flash che s’incastrano a fatica tra le immagini velocizzate della mente? Flash nei quali per un attimo appena recuperate coscienza di voi stessi e realizzate, cazzo realizzate che state vivendo uno dei momenti che vorreste ricordare per sempre nella vostra vita e gioite e i polmoni si riempiono di aria buona e vi sentite di esplodere, ma ce la fate a malapena ad accennare un sorriso ebete? So che avete presente di quali sere sto parlando. Per me ieri sera è condensato nell’immagine delle mie mani che si strusciano tra loro nel mezzo dei suoi seni.
Ero stata attratta da lei fin dai tempi in cui ancora cercavo di piacere agli uomini. Tempi scomodi, frustranti. Ero attratta ma mi limitavo ad osservarla, a fantasticare di poterla conoscere. I desideri non erano del tutto chiari. Poi passarono gli anni. Vennero quelli dell’università assieme a quelli della consapevolezza. Poi venne il terremoto. E venne anche il ritorno all’Aquila. Oggi, vivo in una città distrutta, una sorta di open space che comunque pare non essere in grado di contenere tanta energia e tanta rabbia. Oggi, ci si arrangia a sopravvivere contentandosi di avere ancora un’esistenza, nonostante il mostro che ci ha morso da sottoterra ed il male, forse peggiore, che ci è venuto in soccorso.
Ma non è di questo che voglio parlarvi.
La sera scorsa sono stata in piazza Regina Margherita. Lì, in quegli unici 20 metri quadrati di centro che hanno resistito. Ho fatto l’aperitivo lungo con gli amici. Sono arrivata alle 19.15 più o meno. Ho atteso la chiusura del Boss, che poi ci mette sempre una vita a cacciar fuori tutti. Poi mi sono spostata in piazzetta e cocktail a ripetizione al Malacoda. Quindi, “tazza della staffa” allo Zenzero, locale troppo chic, infatti non ci vado spesso, e ultima consumazione che rigorosamente non arriva mai. Ieri, però, le cose dovevano andare per forza così. Almeno mi piace pensarlo. La musica assordante. Il sudore. Gli sguardi. Lo stupore e l’emozione che ne è seguita. Il tocco delle sue dita attorno alle mie e il suo biglietto di carta abbandonato nella mano.
Ciao. Non mi aspettavo di rivederti in giro.
Ed io non mi sarei mai aspettata questo bigliettino!
Non ci credo. Ma se avevo una cotta per te dalle Superiori!
L’avessi capito prima!.. Sei sola? Ti vanno 2 chiacchiere?
Stasera sono con degli amici… Sola con degli amici : ) E cosa stiamo aspettando?
E mentre stavo scrivendo “Sto solo aspettando di conoscere te…”, l’ho vista ammiccarmi ed uscire dal locale.
L’aria gelida mi ha tagliato le labbra. L’ho trovata che si abbottonava il doppio petto del cappotto nero. Doveva costare un sacco di soldi quel soprabito. Ecco perché non ci siamo mai incontrate in questi due anni aquilani, abbiamo frequentato locali differenti, altra gente, evidentemente veniamo anche da due classi sociali diverse. Poi il subbuglio delle deportazioni sulla costa e le abitazioni provvisorie costruite a casa del diavolo. Le singole vite che ricominciano.
I suoi capelli si poggiavano dolcemente sulle spalle. Ha acceso una sigaretta. Attraverso il fumo mi ha sorriso. Le parole di quei pezzetti di carta, che si sgualcivano in fondo alle tasche tra le mie mani sudate, presero vita, suono, speranza. Ricordo di aver notato i tanti bicchieri appoggiati dentro a uno dei vasi del locale. Ricordo di aver fissato per la prima volta i suoi occhi e di essere arrossita. Ricordo che mi sentivo calmissima, nonostante le sue risposte mi emozionassero ed ancor più le sue domande. Avevo paura di fare una pessima figura. Ero disinibita e, al contempo, nervosa. La sbronza. Qualcosa di buono, però, devo averlo pur detto se siamo restare a parlare per un bel po’ di tempo. Se gli amici, che a turno venivano a chiamarci, desistevano sempre. Se mi ha detto che era felice di avermi conosciuta, sfiorandosi appena il viso con le dita. Se senza esitazioni ha accettato il mio invito a fare due passi poco più in là, nella zona rossa.
Ricordo la chiesa di Santa Maria Paganica e il suo tetto di plastica e di aver detto una cavolata. Lei che, accendendo una sigaretta, per poco non ha perso l’equilibrio. Ho pensato che non sembrava affatto brilla mentre mi parlava. Ricordo che dopo qualche metro ci siamo infilate in una viuzza. Abbiamo parlato di quanto era triste quello che ci circondava. Lei ce l’ha un po’ meno di me col Governo e l’amministrazione locale. La cosa non mi ha dato troppo fastidio. Sembrava avere le sue ragioni. Sembrava senza pregiudizio. Ricordo la luce completamente arancione e la sua pelle che mi attraeva. Quel portone antico aperto. I puntellamenti di legno muffo a sorreggere il soffitto. La paura. L’ansia. E quell’atrio che si apriva davanti a noi. Macerie ovunque, ancora. L’oscurità blu scuro. La sigaretta che nel tiro le ha illuminato gli occhi. Il pozzo dietro di lei. E il nostro primo bacio.
Ho cinto la sua vita con la mano. Il suo sapore si diluiva nella mia saliva. La tenerezza nel tepore dei respiri. Le carezze tra i miei capelli. La testa mi ondeggiava come cullata dal mare. Un’impercettibile senso di nausea mi ha ridestato. Ci siamo guardate negli occhi e ci siamo sciolte in un sorriso. E poi il desiderio. La gola. I baci violenti sul suo collo. La mia lingua che imparava il gusto della sua pelle. I suoi gemiti dentro le mie orecchie. Le sue gambe che hanno preso ad attorcigliarsi sulle mie. I bottoni dei cappotti saltati via come lapilli. Una mano a sorreggerle una coscia e l’altra ferma sulla camicia di seta a cercare il coraggio di salire o di scendere. Lei mi stringeva forte la testa. Le unghie infilate nella nuca. E il suo bacino che ha preso a strusciarsi sul mio, nylon contro jeans. La sua camicia che si è aperta lentamente mentre lei ha cominciato a ridiscendere la mia schiena. Mi ha sfiorato il sedere ed io mi sono immersa nei tuoi seni. Morsi e palpeggiamenti. I nostri corpi si univano in danza sopra il pozzo dei nostri desideri.
Ecco le mie mani che si agitavano sul tuo petto e poi la lampo dei miei pantaloni che scendeva. Era come se le sue mani mi avessero posseduto da sempre, decise e sapienti. Ho gemito. Lei mi ha baciato con forza. Mentre giocavo con la lingua sui suoi capezzoli, mi trascinava oltre la logica. Il respiro si è interrotto presto. Ho preso a singhiozzare quasi. L’unica salvezza è stata chiudere gli occhi e lasciarmi conquistare completamente da lei. Il mio cuore pompava a centomila battiti al minuto. Ha portato le dita alla bocca.
Ricordo che ho avuto paura di romperle le calze. La restituzione del dono, perché è così che si creano le alleanze. Lei che riusciva persino a pronunciare delle sillabe piene di vapore. E mi stropicciava le orecchie. Mi mordeva il mento. Mi soggiogava al suo volere. Ero lì solo per lei. L’eco dei nostri vagiti che riempiva di vita quelle mura morte. E poi ricordo l’odore dei suoi capelli e il mio mento che premeva sulla sua schiena. Si è contorta dentro le mie braccia. Ho sentito una carezza calda tra le dita. Non sono riuscita a formulare pensieri composti. Felice. Innamorata. Emozionata. Eccitata. Confusa. E il mio cellulare che non la smetteva di squillare, da terra dentro la borsa, quella canzone che quasi come un prodigio. Take me somewhere nice dei Mogwai. Portami in qualche luogo piacevole. E c’ero.
Avrei voluto fotografarla per non pensare di aver immaginato tutto il giorno dopo. Mi rifiutavo di rischiare di perdere quel ricordo. Totalmente rapita. Avevo già paura di perderla. Era il peso di quel desiderio che avevo finalmente esaudito. Cosa avremmo fatto poi? Il giorno dopo ci saremmo ignorate? Saremmo state cattive?
Ci siamo ricomposte in fretta e furia. Mi ha detto che la stavano di certo aspettando. Abbiamo sorriso e scherzato per un po’. La luce del cellulare per trovare l’uscita. Il puzzo delle travi di legno. La luce arancione intatta nella viuzza. Qualche metro più in là si è fermata. Mi ha baciato di nuovo cogliendomi di sorpresa. La mia bocca si è aperta in ritardo. La morsa delle sue labbra mi ha fatto correre un brivido lungo la schiena. Non avrei mai immaginato di sentirmi così a mio agio, istintivamente, con una ragazza dell’Aquila. L’adolescenza sofferta. La libertà ritrovata solo lontano da qui. Le difficoltà al ritorno. Il peso del silenzio. La minaccia della vergogna. Il senso di colpa nel vedere i sogni di mia madre infranti. Il nervosismo ed i segreti. Le bugie che riempiono il melodramma della mia esistenza. Sono crollate le mura e ancora sento che non c’è spazio per noi qui all’Aquila. La città di Sant’Agnese.
Sto ricomponendo i pezzi di carta che ci siamo scambiate ieri sera. È come ricomporre me stessa, in questa piccola provincia mai diventata città. Li leggo e li rileggo senza sosta. Per cercare di carpire un altro senso, magari più profondo, che però non c’è. So, però, che è tutta in questi piccoli brandelli di carta la speranza di una vita che vuole ricostruirsi. Una vita che vuole rinascere.
In questa carta c’è la svolta del nostro domani.
Ma dove siamo? e che cosa c’entra mai L’Aquila con tutto questo? Narrativa italiana contemporanea? Omosessualità? Mah.Scusate, ma stavolta non vi seguo.
idem
Carineria supergigantesca.
l’Aquila centra evidentemente perché erano li, sembra un racconto dal vero, un semplice racconto dal vero. A me è piaciuto.
@pes: la ricostruzione anche e soprattutto sociale che dobbiamo fare qui all’Aquila.
@Enrico: ?
@Ares: grazie.
un racconto d’anime di voluttuario sano, abitare l’antiquario prezioso ferito.
Abitare (come ladri in casa propria) l’antiquario prezioso ferito.
Non discuto l’abitare, la ricostruzione e tutto il resto. Discuto l’immaginario sull’omosessualità (femminile?) e certe espressioni, francamente impensabili.
Se vogliamo discuterne dovresti essere più esplicito.
Ho immaginato “l’immaginario omosessuale femminile”, ma non l’ho immaginato come un topos già dato, l’ho immaginato come un immaginario vicino a me, traendo inoltre ispirazione da persone reali. Quelle espressioni impensabili sono mie, sono pensabili per me. Avrei dovuto immaginare ed esprimere qualcosa di riconoscibile? Un topos appunto? Uno stereotipo omosessuale?
Ho solo immaginato di essere lì. E di essere donna. Di essere me stesso.
Parliamone.
a me pare che l’omosessualita femminile è lasciata a discrezione quella maschile è percepita come un indiscrezione culturale, i ricchi possono permettersi le indiscrezioni, un povero scemo è scemo un ricco scemo è ricco.
“a me pare che l’omosessualita femminile è lasciata a discrezione quella maschile è percepita come un indiscrezione culturale”
Enrico non ho capito cosa vuoi dire. In che senso indiscrezione culturale? La questione, specie quando si parla di differente approccio culturale all’omosessualità quando e maschile e quando è femminile, m’interessa assai.
grazie,
Mirfet
forse per la femmina il maschio “pensa” che l’amore fra loro sia un allenamento mentale per l’accettazione fisica e psicologica che devono necessariamente al maschio, il pianeta Terra funziona cosi e non è colpa del maschio, comunque nella diversita pro e contro per entrambi.
Io per tutto il racconto ho pensato ad una mia amica che si chiama Carla, donna dalle grandi passioni amorose, è per questo che il racconto mi è piaciuto ed è per questo che l’ho definito un racconto “semplice”… ma assolutamente verosimile e per niente impensabile..
..si forse impensabile in un altro stato emotivo, ma quando si è innamorati, o si è in quella fase intermedia dell’innamoramento, tutto è mitico come in un cartoons sentimentale di buona qualità.
Cultura cioè usi e costumi, codici e convemzioni che rendono possibile e governabile il\un sistema sociale, smantellare le inibizioni può essere pericoloso, la liberta è un lusso, i cervelli sono palinsestati, configurati in :Vitto Alloggio e Affetto oppure(forza contrattuale) Belli Ricchi e intelligenti.
………..
L’individuo entra a far parte della società assumendo un ruolo. Naturalmente, può rifiutarlo, non riconoscerlo, ma allora si espone al rischio di divenire asociale, un deviante. La società allora lo emargina e alla fine lo ostracizza. Chi rifiuta un ruolo,ogni ruolo, per liberarsi dalle maglie della società, non può contare su molte opzioni. L’artista e il criminale si pongono al di fuori dei ruoli della normalità quotidiana, ma ben presto hanno a che fare in prima persona con i rigori del controllo sociale.(Franco Ferrarotti)
La mia protagonista affronta il sistema sociale, un sistema particolare, post sismico, dove ogni valore è rimesso in discussione. In più ha imparato ad accettare se stessa, da prima lontano dall’Aquila. Quella sera semplicemente e inconsciamente perde i freni, dice “e sti cazzi, la vita è una, basta paure”. Una frase che ci siamo detti in tanti dopo quella notte. Come me per la scrittura, c’è voluto il terremoto per spronarmi definitivamente.
Di stereotipi di omosessualità maschile o femminile non credo di averne parlato. Se c’è del maschile, è il mio io che emerge.
il tuo racconto m’è parso bellissimo altri 99 così e pareggi i conti con Guy de Maupassant.
ho letto nel suo blog questo racconto e l’ho trovato di una schiettezza e reale realtà che mi ha fatto sperare che in molti leggendolo sentissero quello che io avevo sentito.
tocca un argomento che ancora per molti, leggendo i commenti è o tabù o quasi scontato con l’immaginario già prestabilito.
credo che l’aquila centri e non per quello che racconta così visibile, ma per quello che contiene fra le righe.