Le notti sembravano di luna

di Gianni Biondillo

Laura Bosio, Le notti sembravano di luna, Longanesi, 214 pag.

La storia di Le notti sembravano di luna, in fondo, è presto detta: Caterina è una bambina di dieci anni in una eterna Italia di provincia in prossimità del boom economico del dopoguerra. Di tutti i sogni di bambina possibili il suo è quello meno femminile, in un paese che sta scoprendo l’emancipazione portata dall’industria ma che è ancora, culturalmente, contadino nel profondo: Caterina vuole correre in bicicletta, fare agonismo, vuole conoscere e affiancare i campioni del Giro d’Italia.

Leggiamo di continuo storie così. E di continuo ci affascinano, perché ogni volta sono identiche e differenti. Perché ogni volta ci viene riproposta la condizione umana, che è sempre identica e differente. Ogni volta ripercorriamo le stesse ansie e le riscopriamo di nuovo. C’è una età, quella dove il mondo fantastico dell’infanzia e quello inquieto dell’adolescenza si incontrano. Una terra di mezzo, dove cambia la voce, il corpo, la mente. Dove l’universo mitico e liquido della fanciullezza si raggruma, si solidifica in una identità più certa, marcata, dove si segna il carattere delle persone. Che diventano individui. Solidi e al contempo univoci, perciò malinconici.

Laura Bosio ci racconta tutto ciò. Ci racconta le piccole fabbriche di un nord ovest operoso, le moderne case di periferia, templi della nuova ricchezza, gli orti, il lungofiume, la cittadina ostile come un castello medievale, abitata da adulti irrisolti e da ragazzini che scoprono i primi, titubanti, turbamenti erotici. Tutto questo ce lo racconta visto dal sellino della bicicletta di Caterina. Non in velocità, ma con leggerezza, con equilibrio. La scrittura è limpida, anche se screziata da interferenze raffinate (chi dialoga con chi? Chi narra, per davvero, questo romanzo?) e l’affetto che l’autrice ha profuso tratteggiando i suoi personaggi è palpabile. Regalandoci, infatti, profili umani, sconfitti e fragili – come il padre di Caterina – difficili da dimenticare.

[pubblicato su Cooperazione n. 47 del 22 novembre 2011]

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14 Commenti

  1. «Leggiamo di continuo storie così. E di continuo ci affascinano, perché ogni volta sono identiche e differenti». Io mi sarei fermato dopo il primo punto.

  2. Vanno di moda le storie di fabbrica, ce lo dicono gli ultimi Premi Strega.
    Peccato che ce ne saranno sempre meno. I narratori del futuro dovranno dirci come sopravvivere senza un lavoro, senza una pensione, senza un futuro.

  3. una narrazione a geometrie variabili(o meglio senza punti di riferimento precisi per quanto concerne l’identità del narratore)varrebbe già il prezzo del biglietto,se confermata

  4. Mi piace come getti subito la spugna. Ancora una volta è per quello che scrivi come scrivi e leggi i libri che leggi.

  5. Ho aspettato un po’ a intervenire perché speravo non fosse finita… Mi sono molto divertito, un bravo e un grazie a entrambi, GB e ZS. Efficace soprattutto la concisione espressiva. Nel dettaglio: la bellissima cattiveria composta e affilata di ZS e la durezza laconica e infrangibile di GB. Meglio di una poesia. Solo, e purtroppo per ZS, il teatrino ha un suo buon sapore di dialogo biondillano… biondillone?… Gianni, come si dice? – Di nuovo bravi.
    PS: per Gianni: nessuna insinuazione, oc.

  6. Dai, non autocommiserarti così. In fondo hai tante qualità. Col nome che hai basta metterti fra le mani un paio di forbici, una spazzola e un phon per sentirti dire: «Come li facciamo?».

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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