Nuovi autismi 13 – Baudelaire e le patologie della terra
di Giacomo Sartori
Io per mestiere studio la terra. La terra sono le zolle lasciate dagli aratri e i campi desolati l’inverno, la mota sotto le scarpe da lavoro, le pianure, le colline, i vigneti in pendenza, i fianchi delle montagne, i boschi, le torbiere d’altitudine, gli orti e i giardini: tutto quello che non è stato irrimediabilmente cancellato o abraso dall’uomo. È la terra che fa crescere le piante che mangiamo (noi mangiamo piante, o animali che hanno mangiato piante) o anche solo osserviamo per riposarci il cervello, è la terra che digerisce i residui della vita e li rutta nell’aria. Io nel mio piccolo mi occupo di questo. E quindi anche quando non lavoro appena arrivo in un posto per prima cosa guardo la terra, o insomma cerco di immaginarmi com’è, è inevitabile. Deformazione professionale. Cerco di capire se è leggera o densa, scura o slavata, l’odore che potrebbe avere, cosa potrebbe crescerci. Provo a capire se è malata, perché di questi tempi la terra ha tante magagne. Le terra è spesso sfiancata, o anemica, o intossicata, infettata. Certe malattie sono leggere, come banali raffreddori, altre sono gravissime, qualche volta addirittura mortali. La terra può morire. Anche nelle grandi città c’è terra, e spesso non se la passa molto bene, al pari degli abitanti, che soffrono di affezioni respiratorie e di altre patologie banali ma anche surretiziamente letali. Spesso nelle grandi città la terra è un mescolume disparato, proprio come i passanti, che sono di tutti i colori e hanno tutte le fisionomie. Se la terra sta molto male provo pena, come succede con tutti i malati gravi. Vorrei poter fare qualcosa per lei, ma naturalmente non posso niente, e anzi in una certa misura mi sento – so di esserlo, anche se certo indirettamente – responsabile. Mi immagino potenziali soluzioni, ben sapendo che sono solo mie fantasie individuali, arbitrarie e ininfluenti. Qualche volta la prendo in mano e la tocco, ma spesso mi basta guardarla. Trovo incredibile che nessuno guardi più la terra. È una cosa che mi ferisce nell’intimo, in particolare quando viaggio in treno. La terra è lì, bella e lustra, o anche cupa e taciturna, o solenne, o sfrontata, spesso enigmatica, e nessuno la degna di uno sguardo. Qualche volta vorrei invitare i miei vicini a guardare dal finestrino, invece di teledigitare parole vuote, invece di fissare autisticamente uno schermo. Guardate come è bella la terra, guardate come è essenziale, vorrei dire. Ma non dico niente, perché la considero una guerra persa, o forse anche per la mia notoria pavidità. Spesso arrivo in un posto e la terra non c’è più: tutti fanno come se niente fosse, o anzi decantano le attrattive balneari o architettoniche, e invece la terra proprio non c’è, è scomparsa nel nulla. Lo provano le rocce battute dal vento e dal sole, i fianchi brulli delle montagne su cui si riflette la luce metallica della luna. La terra non c’è più, e io provo un senso di sconfortante tristezza. Ho l’impressione di essere venuto a trovare un ricoverato che nel frattempo è deceduto: sono arrivato tardi, rimane solo il letto vuoto: un letto pulito pronto a ricevere un altro malato. Un paziente che tarderà qualche migliaio di anni. Ma più spesso, lo sappiamo tutti, la terra è stata semplicemente seppellita dal cemento e dall’asfalto. Siamo diventati specialisti nel seppellire la terra: per paura di essere sotterrati a nostra volta, per prendere le distanze dal nostro ineluttabile imputridimento, per non pensarci, seppelliamo la terra. La terra è esplosione di vita (in un granellino ci sono più esseri viventi che uomini nel mondo), mentre nel cemento e nell’asfalto non c’è vita. Il cemento e l’asfalto sono il contrario della vita: non morte – la morte è pur sempre vita – ma assenza di vita. Io sono dalla parte della vita, anche se so che la vita è lotta inesorabile, è anche morte. Ma intendiamoci, sono un figlio dell’asfalto, so che forse dovrei essere riconoscente al cemento e all’asfalto. So che l’asfalto mi ha salvato: senza asfalto sarei già morto. Vorrei essere interamente dalla parte della terra, ma non ci riesco: mi preme la mia piccola e insignificante esistenza che abita il cemento e corre sull’asfalto. E anzi amo i riflessi liquidi dell’afa sulle strade, amo gli aloni di idrocarburi nelle pozzanghere, amo le geometrie del calcestruzzo metropolitano, amo le tenute sintetiche di certe passanti, e amo perfino alcune esalazioni pestilenziali della distruzione umana. Il mio senso estetico e i miei attaccamenti se ne fanno insomma un baffo dei moniti del mio emisfero cerebrale sinistro e delle mie intuizioni profonde. Quindi non mi faccio illusioni, sono cosciente che siamo su una brutta china. I nostri antenati si sono occupati della terra. E anzi proprio dove era più scarsa e stentata la hanno vegliata con più cura: sui versanti scoscesi hanno eretto muri a secco per contenerla, per farla sentire a suo agio. Come si appronta una cuccia per un animale che ci preme, come si rimboccano le lenzuola a un bambino. Certo l’hanno utilizzata e sfruttata, però anche nutrita e assistita. Ora le terrazze crollano e franano: la terra scompare, la vegetazione spontanea riprende possesso del pietrame che rimane. I nostri predecessori erano più saggi, o forse solo non avevano tra le mani gli attuali strumenti di sterminio: escavatori che con una cucchiaiata devastano il lavorio di millenni, autobetoniere dal ventre gravido, impaziente di partorire sterili creazioni, asfaltatrici come dee onnipotenti capaci di coprire con un velo nero le miserie umane. I nostri antenati non avevano questa nostra furia materialista, le loro superstizioni e credenze erano pur sempre un argine. Di fronte a questa hybris provo sconcerto e disagio. Ma non so con precisione perché ho questo legame con la terra. Certo anche perché da bambino, proprio quando cominciavo a essere un po’ autonomo, mia madre decise di andare a vivere nella casa padronale di mia nonna, in campagna. Per loro era un posto come un altro dove abitare. Per me invece era la terra bruna dei vigneti affacciati alla valle per i quali bighellonavo, l’odore di urina e di umido della terra battuta nel raggio di libertà dei cani alla catena, i pollai nei quali entravo, l’amaro dei roghi dei tralci di potatura, le mani grandi e dure come vecchi pneumatici dei contadini, i ragazzini della mia età che non parlavano la mia stessa lingua. Quindi venuto il momento mi è venuto naturale di andare verso le materie che mi sembravano più vicine a quel mondo arcano in via di estinzione, e poi per le solite apparenti casualità della vita sono finito a occuparmi proprio di terra. Ma ci sono certo anche altre ragioni più criptiche e forse ben più influenti che mi sfuggono, come sempre succede.
(l’immagine: J. Dubuffet, “Jeux et travaux”, 1953, litografia, 65,5 x 50 cm)
Bel pezzo, davvero. Il titolo, lui solo, è brutto, brutto perché inutile, perché descrittivo anzitempo con evocazione di nume tutelare secondo me di troppo. Baudelaire del male della terra non avrebbe detto la compassione, ma il turbamento, il morboso della attrazione, che non si sarebbe risolta tra una ambivalenza terra e asfalto e cemento ma con una resa sensuale nel rigetto.
Il masochismo estetico qui non c’è. Qui c’è come un desiderio di balsamo curativo.
Un saluto,
Antonio Coda
Il bosco.
Verticali possenti creature
pali viventi
braccia che trattengono
il terreno e un enorme
ebbro soffitto verde
in confidenza con il vento,
con il cielo:
che non ci riguarda,
abitato dal cinguettio
senza scimmie
d’ontologie segrete,
esseri che volano
in confidenza con il vento
con il cielo
sopra le nostre aristocratiche
coscienze di sé
che non fanno le uova
fanno gli aerei
che infilzano le nuvole
e si specchiano nelle olle,
dagli oblo gli adolescenti
vedono le nuvole,
prevedono aquile
che svendono i loro segreti,
sogni senza bisogni,
senza scoiattoli,
sarà forse vietato
con lo scooter
entrare nelle nuvole,
entrare in confidenza
con l’ebbro
soffitto verde del bosco
minacciato dai pavimenti
di assessori velenosi
con accendini diserbanti.