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Miti e incertezze del mito

di Daniele Ventre

15 gennaio 2012

1. Su alcune posizioni di metodo nell’analisi contemporanea del mito

Il problema del mito è un hic Rhodus hic salta per molta parte della cultura contemporanea.
È nel mito che per esempio Marcel Detienne finisce per scorgere una «specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nelle acque della mitologia», una sorta di schermo allegorico su cui proiettare «ogni realtà metafisica che si voglia» in modo da fare della mitologia stessa «la saggezza superiore di un continente fantasma» (1).


Un momento fondamentale della riflessione sul mito è ovviamente la distinzione, risalente a Kerènyi, fra mito genuino e mito tecnicizzato (2) , mito “genuino” essendo la dimensione antropologica spontanea del mito stesso in quanto sistema segnico fondante per una cultura, in opposizione alla cupa tecnica sociale di deliberata strumentalizzazione pragmatica del mito a fini politici, all’interno di una strategia di dominio. Derivato della teoria kerenyiana della tecnicizzazione del mito è il modello idealtipico della “macchina mitologica”, proprio del pensiero di Furio Jesi (3). Secondo quella che potremmo approsimativamente definire la linea di pensiero Kerènyi-Jesi, la tecnicizzazione del mito attuata dalle ideologie totalitarie novecentesche è un esempio tipico di dispiegamento di meccanismo segnico di narrazioni socialmente evocative vòlte a proiettare ideologicamente sulla storia un’aura onnipervasiva di miticità. Il fascino arcaico dell’aura del mito definirebbe allora una “religione della morte” dietro cui si cela una “religione del potere”, potere che impiega la stessa religione della morte per consacrare sé stesso, ponendosi così al riparo della più inamovibile delle legittimazioni. Sulla scorta della fondamentale distinzione kerenyiana, nel pensiero di Jesi il mito finisce per diventare uno “zero efficiente”, una segnicità vuota, o quantomeno svuotata, dotata però di pura forza pragmatica, ed efficace come strumento tecnico di dominio: di qui la necessità, sul piano del metodo e dell’interpretazione dei miti, essa stessa soggetta al mitologismo ideologizzato, di cancellare l’idea che il mito sia sostanzialmente qualcosa.
La posizione di Jesi è indubbiamente funzionale alla prospettiva dell’antropologo militante: essa si presenta come la base epistemologica della decostruzione di ogni futura pretesa di fondare sul mito una qualsiasi forma di legittimazione culturale del potere, della Gewalt. Tuttavia, come ogni orientamento che abbia dentro di sé un elemento di decostruzionismo, anche la cristallina visione jesiana può prestare il fianco a derive concettuali equivoche, nel momento in cui sussiste il rischio reale di sostituire a un’antropologia inquinata di mitologismo, un’antropologia della morte del mito, o peggio un’antropologia del nulla. Se un certo mitologismo sembra (ed è) la traduzione in chiave etnologica di uno storicismo simil-idealistico, la riduzione del mito a zero efficiente sembra almeno in parte venata di uno spirito di riduzionismo che rischia di deprivare di ogni legittimità e autonomia la stessa analisi del mito, e del materiale mitologico, come fenomeno storico-culturale. Di fatto, se il mitologismo sottende una sorta di implicita teologia, sul fronte opposto si rischia una teologia negazionistica di valore uguale e segno contrario. Il fenomeno in sé, nientificato, finirebbe lasciato in balia degli impressionismi e delle strumentalizzazioni; la stessa efficacia pragmatica della macchina del mito rischia di rimanere inesplicata: l’abitare la distanza, che dovrebbe essere la caratteristica del mitologo secondo Jesi, si traduce allora in una sostanziale perdita di contatto, la cosiddetta storia della storiografia riducendosi  in potenza a una semplice collazione (o peggio collezione) di dossografie difformi, sociologicamente ridotte, della mente primitiva, che in quanto primitiva si percepisce di fatto collocata in uno stato di intrinseca minorità.
Il tema del mito degradato e mutato in macchina sociale ha dietro di sé una lunga storia, fatta di inopinate svolte e curiose convergenze. A parte Kerènyi e la sua distinzione fra mito genuino e mito tecnicizzato, si potrebbe risalire quantomeno all’evoluzione stadiale del paideuma, elemento costitutivo della paideia di una civiltà, nei termini del pensiero enucleato da Leo Frobenius  (4), che peraltro, influenzato com’è da Spengler, sarebbe decisamente da collocarsi nel campo avverso rispetto a Jesi,  cioè nella corrente di quell’etnologia (di matrice storicistica) soffusa di aura ierologica che il pensiero jesiano stigmatizza. Com’è noto, nel panorama organicistico del Kulturkreis che Frobenius delinea, i paideumi attraversano una fase di Ergriffenheit, un momento aurorale creativo di concettualizzazione e metaforizzazione primaria a cui appartengono sia le prime forme d’arte sia la mitopoiesi “genuina”, per poi passare attraverso un periodo di Ausdruck, o fase di sviluppo e maturazione, a cui fa séguito l’Anwendung, stadio (decadente) di meccanicizzazione e tecnicizzazione, in cui gli stessi tratti identificativi del paideuma si degradano in funzione di uno strumentalismo deteriore. L’Anwendung frobeniana e la macchina mitologica di Jesi, figli di due differenti temperie storico-culturali e di due tradizioni di ricerca ben distinte, trovano in certo modo insospettabili consonanze nei risultati d’inquadramento dei problemi, ferma comunque restando la radicale diversità dell’Einblick di partenza. Il possibile nesso concettuale fra la dinamica dell’Anwendung (tecnicizzazione-strumentalizzazione) e il paradigma della macchina mitologica asservita alla Gewalt è abbastanza evidente in sé: la conclusione, che a taluno parrà forse curiosa, se non addirittura forzata, è che in sostanza il concetto frobeniano di un contesto culturale deteriorato dal dominio di un tecnicismo finalizzato al controllo ingloba e implica di fatto come caso particolare la speculazione jesiana relativa al degrado del mito in un’atmosfera storica alterata e miticizzata, funzionale a un qualsiasi ideologismo asservitore.
Il problema è in sostanza più ampio e profondo: come ho cercato finora di argomentare, qualora ci si attenga unilateralmente all’idolum tribus dell’analisi della cultura di destra in Italia (con qualche apertura al contesto europeo), si rischierebbe di trasformare in norme generali dell’indagine sul mito quelle che sono soltanto categorie e ipotesi di lavoro attivate nel contesto di un’indagine storiografica particolare. Seguendo in vario modo la militanza ideologica (anche se per Jesi sarebbe più corretto dire ideale) c’è il serio rischio di un inquinamento politico del dibattito antropologico. Un caso tipico degli effetti di questo inquinamento è stato per esempio il ricorrente tentativo di una parte significativa della cultura di sinistra di rovistare il pensiero di un Mircea Eliade alla ricerca di una sorta di cripto-apologia dell’olocausto, quasi che si debba schiacciare l’intera evoluzione del pensiero di Eliade stesso alla sua fase giovanile di vicinanza a Codreanu. Da questo punto di vista, una disamina obbiettiva e meno ingenerosa del problema Eliade viene ad esempio da Robert Ellwood, che senza agiografie, censure e ripuliture giustificatrici mette ben in evidenza come, al di là del vecchio errore di valutazione sul movimento guardista, la fascinazione dello studioso romeno per la dimensione primordiale del mito non sia affatto indizio di organico reazionarismo: Eliade non vede nella tradizione una forza vincolante e assoluta, o una verità da preservare, essendo egli conscio che le tradizioni stesse vivono storicamente nel mutamento e nell’occultamento, così che sul piano metodologico e lato sensu conoscitivo la questione non è pretendere di rinnovarle, quanto piuttosto scoprire dove si nascondono (5). Questa nota distintiva del pensiero eliadiano implica, ovviamente, una presa di distanza all’interno di una prospettiva storica: tratto che poi non è dissimillimo dalla presa di distanza Jesiana… A questo punto ciò che influisce sono i fattori disposizionali nei confronti dell’oggetto di indagine e le determinazioni storiche dell’osservatore. Il mito come problema resta sullo sfondo, come terzo incomodo di un dibattito nel quale tutti sono interessati ad altro. Ma qualcuno potrebbe dire: non è in definitiva questo il punto, nell’ambito delle cosiddette scienze umane (o Geisteswissenschaften -scienze dello spirito che rischiano ora di diventare scienze di fantasmi): il gioco delle precomprensioni e dei pregiudizi dell’interprete? Senza dubbio: però nel contesto dell’ermeneutica (quella di Gadamer, non quella di Vattimo, naturalmente) l’alterità dell’oggetto (del testo) continua a sussistere e a imporre una trasformazione critica di tutti i pregiudizi e di tutte le precomprensioni. Non si tratta tanto di tornare al vituperato pregiudizio essenzialistico, quanto di riscoprire un minimo di pregiudiziale di realismo. Sostanzialmente, la devianza interpretativa o la strumentalizzazione sono possibilità storiche che non autorizzano l’azzeramento dell’oggetto-mito, pena l’azzeramento critico e dunque l’inefficacia della stessa posizione “militante”. Ciò vuol dire che non esistono zeri efficienti, com’è vero che operari ed esse sono in un qualche modo sempre legati, quale che sia, nella struttura logica del giudizio, la loro collocazione rispetto al sequitur: ponendosi al di fuori di questa prospettiva, allora sì l’azione e la presenza storica del mito, mutate in un effettivo non sequitur, restano (detiennianamente) un mistero della fede (poco importa il segno e l’orientamento della fede in questione) e ogni analisi o disamina che ne deriveranno saranno destinate ad acquisire lo statuto di razionalizzazioni incoerenti del gradimento politico o di deviazioni definitorie di contenuti forclusi. Ammesso che il mito sia cosa da cui liberarsi, come da una nevrosi o da una coazione a ripetere, l’uomo occidentale rischia comunque, in tal modo, di continuare a farsi agire dal mito, con buona pace del politically (e anthropologically) correct.

2. Possibili approcci alternativi – Il mito come carrefour paideutico primario

Le analisi che confinano la deriva tecnica del mito in una fase storica, intridendola in modo più o meno latente dei toni del giudizio di valore, contengono in sé i limiti che ogni giudizio di valore comporta: la preclusione all’accertamento e alla presa d’atto di ampi connotati del mito stesso nella sua effettualità. Jean-Pierre Vernant (6) definisce in prima battuta il mythos come il quadro di narrazioni in cui l’uomo greco era abituato sin dall’infanzia a pensare la realtà che lo circondava. Riancorarsi alla vecchia filologia classica e alla lingua d’origine del termine incriminato (sarà mia deformazione professionale), parrà a qualcuno un ritorno all’ovvio dell’ultra-liceo: resta forse in ogni caso il modo meno improprio di considerare la questione: spesso infatti il savant moderno e modernista, emancipatosi ad abitare la distanza, finisce per credersi antico, come i Greci davanti agli Egizi nel racconto del sacerdote di Sais -e credendosi antico, si finge ignaro abitatore del nuovo.
Sulla base dell’approccio di Vernant, si comprende fino a che punto il mito si presenti come discorso di riuso, Wiedergebrauchsrede (7): un discorso la cui efficacia non si esaurisce sul momento (non è discorso di consumo, Verbrauchsrede), ma è pragmaticamente disponibile a una molteplicità di ricollocazioni e ricontestualizzazioni. Questo avviene giocoforza: essendo il mito la prima applicazione del linguaggio all’arte di esprimere su larga scala la costruzione del mondo, è ovviamente legato al primordiale double bind della paradigmaticità e della sintagmaticità del linguaggio stesso (8). Conseguenza di questa elementare constatazione è che l’originaria teoria stadiale frobeniana andrà sostituita da una visione sincronica; il mito contiene in sé per sua costituzione intrinseca la funzione strutturante del paideuma: in esso la paradigmaticità aurorale, la problematicità dell’esperienza e la possibilità della tecnicizzazione sono perciò sempre attive, sia pur in diverse gradazioni. Si potrebbe obbiettare che finora il termine mito è stato impiegato senza ulteriori suddistinzioni concettuali. Di cosa parliamo? Del singolo mito (o di un gruppo di miti tematicamente connessi nella memoria di una cultura primitiva)? Del corpus dei miti di una cultura storicamente definita? O della mitopoiesi umana come presunta possibilità culturale sempre riattivabile? In realtà il termine mito sarà qui volutamente lasciato nel vago, a sottendere tutte e tre queste accezioni, e a fungere da iperonimo di sé stesso. La ragione è ovvia: in primo luogo, dovrebbe apparire abbastanza pacifico a chiunque che ogni singolo mito presuppone, nel suo sviluppo, il quadro degli altri miti della cultura in cui si inserisce: come una monade leibniziana, è unico e irripetibile e nello stesso tempo implica in nuce (come futurizioni antropologiche o come memorie più o meno latenti) interpretazioni e versioni vecchie e nuove, e contiene in modo più o meno nascosto i nessi che lo collegano agli altri miti e alle altre tradizioni immediatamente contigue e al quadro complessivo della civiltà di cui è espressione. A chi dovesse rimanere dubbioso,  basterà tener presente un dato di partenza essenziale: i personaggi “forti” del mito sono strettamente legati all’oralità primaria di cui il mito come tale (in quanto parola articolata oralmente -non a caso il greco mythos e l’inglese mouth sono linguisticamente apparentati (9) ) è in origine il tessuto cognitivo (10). Il mito (il singolo mito, il corpus di miti, la comunicazione mitopoietica) è perciò espressione diretta della psicodinamica delle società orali, non solo a livello comunicativo, ma a livello di pertinentizzazione del dato dell’esperienza. Ma oltre a essere espressione diretta di una psicodinamica primordiale, il mito come tale è altresì un embrione di testualità (e la metafora del racconto come textus, ovvero tessuto verbale, è ampiamente diffusa, come mostrano Calvert Watkins (11) e Anthony Thuck (12) ), ed è perciò legato alle elementari dinamiche dell’interpretazione testuale: ne risulta in specie la connessione spontanea fra la totalità minore del singolo mito e la totalità maggiore del complesso di miti a cui il singolo mito si lega. La riutilizzabilità del mito implica altresì che alcuni contenuti ne risultino, col tempo, opacizzati, mentre innovazioni del senso e del segno vi saranno inseriti senza alcun problema. In tal modo i miti, come discorsi di riuso, hanno presa diretta, sul piano psicologico, al di là del tempo in cui si sono strutturati. In principio nascono già come linguaggio tecnico: per esempio, tecnica di memorizzazione di cognizioni astronomiche o cosmogoniche (13), o di formule che accompagnano procedimenti terapici (14). Ciò che fanno è strutturare il mondo secondo metafore fondamentali, la cui origine è spesso perduta nelle brume della preistoria (15), e in ogni caso rimonta alla spontanea dinamica di metaforizzazione propria dell’uomo, cioè alla tendenza primitiva dell’uomo stesso a spiegarsi il mondo esterno, ostile e ignoto, ricorrendo a pacchetti metaforico-cognitivi legati ai domini concettuali corporei dell’esperienza sensorio-motoria, inseriti all’interno della curva buona e del destino comune di un riorientamento gestaltico dell’esperienza stessa (16). Similitudini e metafore antropomorfizzanti che spiegano il mondo (17) si strutturano spontaneamente in narrazioni all’interno di contesti esplicativi situazionali (18): altrettanto spontaneamente, prima che la Musa prenda in mano il calamo e la voce del cantore si trasformi nello stile del poeta (19), le grandi intuizioni sul mondo si esprimono in racconti, e le forze naturali sono percepite come presenze senzienti (20).

3. Miti e archetipi.

Pacchetti di metafore legati alla naturale dimensione di embodiment, di incorporazione, della mente umana, snodi concettuali trasformati in personaggi tipici, che si atteggiano in enunciati situazionali e sono drammatizzati all’interno di narrazioni tramandate mediante performances verbomotorie più o meno complesse, più o meno ritualizzate, più o meno pubbliche (dalla fiaba accanto alla culla fino al sacerdote delle Muse con il suo mirabile ramo di lauro): se questa descrizione del mito è almeno in parte sensata, la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo (21) trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici). Non è poi casuale che presso i Greci, all’altro capo della transizione dall’oralità alla scrittura, nella filosofia di Platone, sia sempre il mythos, stavolta nel ruolo di complemento del logos, a costituirsi come anticamera cognitiva dell’attingimento del piano trascendente delle idee, cioè di quegli archetipi epistemici attorno a cui si consuma la lotta con l’angelo del pensiero occidentale, quasi che nella sua organizzazione della natura e della società l’uomo continui a centrare le sue scelte attorno a un ruolo di interprete di archetipi, attore protagonista del dramma in cui si traduce quella fame di forme che Ernst Bloch riconosceva come tendenza latente nella materia e nella natura. Da questo punto di vista la distinzione tradizionale (kerenyiana) fra mito (origine) e mitologia (racconti dell’origine) passa in secondo piano, o meglio, la mito-logia si ridefinisce come espressione esteriore, tramandata, del mito, che non cessa, in quanto origine, di agire in qualche modo all’interno dei materiali mitologici che ne sono l’espressione particolare: piuttosto si trasforma ed evolve, occultandosi (eliadianamente) come tradizione, o riproponendosi, a fronte della trasformazione psicodinamica e cognitiva che nella storia delle culture si attua a ogni transizione mediatica, dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura del copista alla stampa, dalla stampa all’interattività multimediale dell’èra dell’informazione. Il problema non è allora disinnescare il mito nullificandolo epistemologicamente: semmai sarebbe necessario escogitare gli strumenti atti a disarmare la Gewalt (totalitaria o pubblicitaria (22) ), ritogliendole un patrimonio di cui si è indebitamente appropriata: un patrimonio che ha svilito, degradandolo a discorso di consumo (ovviamente deprivato dell’originaria forma poetica) ad uso delle masse da narcotizzare per il mercato o per la guerra.

4. Conclusioni e implicazioni.

Tornando al primum movens di questo lungo articolo, che volge alla sua conclusione, il mito come snodo o carrefour paideutico (e paideumico) primario ha in sé un aspetto non tanto reazionario, quanto omeostatico, come la cultura orale che lo esprime e lo tramanda in forma di racconto della nonna o di poema epico (23). Il suo ruolo di spina dorsale della continuità culturale come espressione di un equilibrio fra l’uomo, la società, la natura e le circostanze storiche, fa del mito stesso l’area dal socioletto più conservativo (e non a caso la comparazione linguistica può essere agevolmente seguita dalla comparazione mitografica e antropologica). Questo spiega ovviamente come mai, per riprendere tematiche e indagini jesiane, nella prima fase dell’età industriale, gli studiosi del mito che hanno ceduto al fascino degli archetipi (e quegli esoteristi che ne sono stati in qualche modo il ramo degradato o deviante) siano apparsi fin troppo vulnerabili rispetto all’influsso e alla seduzione delle correnti più reazionarie della politica europea, che sfociarono nei distruttivi irrazionalismi scatenatisi nelle due guerre mondiali. Lo stesso uso del mito da parte della propaganda autoritaria e totalitaria si spiega a partire dalla dimensione comunicativa del contesto in cui si verifica. Nella deriva socio-economica e culturale che segnò la storia d’Europa nella cosiddetta età dei cataclismi, l’avvento delle prime tecnologie di diffusione mediatica (la radio e il cinema in specie), determinarono una sorta di regressione psicodinamica del rapporto fra masse e potere ad una forma di oralità di riflusso, che favorì spontaneamente atti comunicativi fondati sulla forza pragmatica pura e semplice, e sulle metafore primordiali impacchettate nei miti, che possono agire, banalizzati, come slogans preconfezionati. A non altra logica rispondono i miti norreni e latini riesumati dal nazifascismo in chiave razzistica -ma lo stesso discorso potremmo applicarlo, nell’Italia di oggi, ai miti celtico-padani della Lega xenofoba, o perfino alla “rievangelizzazione” televisivamente ammannita all’italiota intellettualmente indifeso. Su scala globale, sono i dischi volanti di Jung e il tema della palingenesi adombrato nell’attesa pseudo-millenaristica del 2012 a ricoprire questo medesimo ruolo -cambiano i materiali mitologici particolari, che comunque, sradicati dal terreno del mito, fanno alle menti lo stesso effetto  che fanno ai corpi le bibite gassate e le merendine industriali. La situazione ovviamente non cambia molto, se i materiali mitologici degradati non provengono da Ilio, ma piuttosto da Palenque o dalla fantascienza degradata dei B-movies. E tuttavia bisogna ribadirlo: ad agire non è il mito in sé, ma la sua nientificazione e triturazione già operata dalla Gewalt ben prima dell’avvento dell’antropologo decostruttore, a cui il vero problema, nonostante il profondo acume e il nobile impegno, rischia di sfuggire. E il problema resterà insoluto fin quando il mito (e non i materiali mitologici transitori) non sarà riconsegnato alla creazione estetica disinteressata intesa come ricomposizione u-topica (à la Bloch) di un mondo scomposto e dis-estetico, alla poesia, alle vie dei canti che in origine, nel tempo del sogno, percorreva.

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1.    Cfr. Marcel Detienne, L’invention de la mythologie, 1981, ed. ital. L’invenzione della mitologia, a cura di Flavio Cuniberto, Torino 2000 (2), pp. 158 ss.
2.    Cfr. Karl Kerènyi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Scritti Italiani (1955-1972), Napoli, 1993, pp. 113-126.
3.    Nell’ampia produzione di Furio Jesi (sul quale si può trovare, riprodotto in NI, l’articolo di recensione di Cultura di destra, ad opera di Alessandro Bertante https://www.nazioneindiana.com/2011/06/10/altroche-fascio-littorio/), un classico case study a tal proposito è ad es. rappresentato da L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo, postfazione di David Bidussa, Brescia 1992, riedito da Bollati Boringhieri nel 2007. Accurati materiali online di riferimento per la figura e la produzione di Jesi possono essere rinvenuti qui : http://yuma.netribe.it/banfi/allegati/2009_XIX_CONV_MANERA_ENRICO.pdf; e qui http://www.rigabooks.it/index.php?idlanguage=1&zone=8
4.    Cfr. Leo Frobenius, Paideuma, Monaco, 1921
5.    Robert Ellwood, The Politics of Myth: A Study of C. G. Jung, Mircea Eliade, and Joseph Campbell, Univ. of New York Press, Albany, 1999, p. 119
6.    Mito e       Religione in Grecia Antica, Roma, 2003, p. 4 ss.
7.    Il concetto di discorso di riuso è ben definito da Heinrich Lausberg, Dichtung und Retorik, in Der Deutschunterricht, Stuttgart, 1967, p. 47 ss. La citazione è fin troppo banale: viene qui richiamata solo per evitare l’accusa di arbitrarietà assertiva
8.    Rinunciare a ogni interpretazione troppo recisa dell’opposizione lotmaniana fra momenti sintagmatici e paradigmatici delle culture umane viene ora altrettanto spontaneo
9.    A questo punto si sconsiglia la visione dell’articolo ai seguaci impressionabili di Giovanni Semerano e Martin Bernal, o ai fan di Raoul Schrott
10.    Altro riferimento ovvio: Walter J. Ong, [Orality and Literacy, The Technologizing of the Word, London-New York, 1982], ed. ital. Oralità e scrittura – Le tecnologie della parola, Bologna, 1986 p. 102
11.    How to Kill a Dragon, Aspects of Indo-Europaean poetry, Oxford, 1995, p. 14.
12.    In Singing the Rug: Patterned Textiles and the Origin of Indo-Europaean Metrical Poetry, in American Journal of Archaeology, 2006, pp. 539-550. Per inciso, mi limito alle culture indoeuropee perché non abbastanza dotto in ambito semitistico: tuttavia la convergenza fra le dee tessitrici cantatrici elleniche e quelle delle civiltà della mezzaluna fertile, per concomitante influsso di queste sulla Grecia e per evoluzione interna indipendente delle due diverse aree di civiltà, dovrebbe essere abbastanza ominosa, in merito alla diffusione universale di questo topos in una pluralità di culture eterogenee per lingua e origini.
13.    cfr. Giorgio de Santillana-Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto, ed ital. Milano, 2003.
14.    Filastrocche come Phol ende Uodan.
15.    Come nel caso dell’associazione fra la fertilità e la giovenca, il cui cranio è probabilmente simulacro dell’anatomia degli organi interni dell’apparato riproduttore femminile, scoperta dall’uomo ai tempi dei riti neolitici di scarnificazione dei defunti, secondo la tesi riproposta da Marija Gimbutas (Il linguaggio della dea, con pref. di John Campbell, nuova ed ital. Venezia, 2008, p. 265) sulla scorta degli studi di Dorothy Cameron (Simbols of Birth and Death in the Neolithic Era, 1981, p. 4 s.).
16.    Cfr. George Lakoff, The Contemporary Theory of Metaphor in Metaphor and Thought, a cura di A. Orthony, Cambridge, 1993, pp. 202-251; inoltre lo studio a cui si ispira il titolo di questo paragrafo dell’artcolo: Vito Evola, La metafora come carrefour cognitivo, in Vie della metafora: linguistica, filosofia, psicologia. Sulmona, 2008, a cura di Claudia Casadio, pp. 55-80.
17.    Sulla similitudine come strumento cognitivo non c’è che da ricordare Walther Kranz,  Gleichnis und Vergleich in der fruegriechishen Philosophie, in Hermes 73 (1938), 99-122, che anticipa in parte, per la valenza cognitiva della similitudine, le teorie di Lakoff e Koevecses.
18.    Ong, op. cit., p. 79 s.
19.    L’ennesimo ovvio riferimento va a Eric Havelock, [The Muse Learns to Write, London  1986], La musa impara a scrivere, ed. ital. Bari, 2006.
20.    Per capire fino a che punto ciò sia vero, basterà ricordare quello che Vernant scrive nella sua introduzione a L’uomo greco (ed. ital. Bari, 1991), pp. 4 s.: “Come potremmo noi oggi vedere la luna con gli occhi di un greco? L’ ho potuto sperimentare io stesso, al tempo della mia giovinezza, durante il mio primo viaggio in Grecia. Navigavo di notte, di isola in isola; disteso sul ponte, guardavo il cielo sopra di me, dove la luna brillava, luminoso volto notturno che spandeva un suo chiaro riflesso, immobile e danzante sull’oscurità del mare. Io ne ero incantato, affascinato da quel dolce e strano chiarore che bagnava i flutti addormentati; ero commosso come da una presenza femminile, vicina e lontana insieme, familiare eppure inaccessibile, il cui splendore fosse giunto a visitare l’oscurità della notte. E’ Selene mi dicevo, notturna misteriosa e lucente; è Selene che io vedo. Quando, molti anni dopo, vidi sullo schermo del mio televisore le immagini del primo astronauta lunare, che saltellava pesantemente, col suo scafandro di cosmonauta, nello spazio squallido di una desolata periferia, all’impressione di sacrilegio che provai si unì il sentimento doloroso di una lacerazione che non avrebbe potuto essere sanata: il mio nipotino, che come tutti ha contemplato quelle immagini, non sarà più capace di vedere la luna come a me è accaduto: con gli occhi di un greco. La parola Selene è divenuta ormai un riferimento puramente erudito: la luna quale appare oggi in cielo non risponde più a quel nome”. Il passo di Vernant spiega anche l’effetto della “morte” della possibilità della mitopoiesi, o meglio, il suo slittamento, se teniamo presente l’osservazione di De Santillana-Dechend sulla fantascienza come mito (cfr. Il mulino di Amleto, cit. p. 76).
21.    Su cui cfr. Fritz Graf, Il mito in Grecia, ed. ital. Bari, 1997, pp. 28 ss.
22.    La differenza fra i mussoliniani “colli fatali di Roma” e il Giove  comico dei “Quattro salti in padella” è “solo” nella finalità, non nel modo, non nel metodo. Peraltro, queste cose le facevano già gli antichi: nil sub sole novum.
23.    Ong, op. cit., p. 76

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71 Commenti

  1. L’articolo è importante per i temi che tocca, e sarebbe anche teoreticamente esaustivo se non presentasse una vistosa lacuna.
    Come si fa a parlare del mito e della sua eventuale degradazione senza confrontarsi col Vico? Il filosofo napoletano ha capito per primo (ben prima di linguisti come Lakoff), che la struttura archetipica delle metafore primordiali è legata alla condizione incarnata dell’uomo, e ha visto come all’ingenuità della mitopoiesi segue un’epoca di elaborazione fantastica e idealistica e poi una dominata dalla ragione critica (o pensiero riflessivo) che rende possibile la nascita di una coscienza storica e filosofica. E’ qui che si aprono le possibilità di una regressione indotta attraverso la “tecnicizzazione” del mito, utilizzato politicamente come strumento di propaganda.

  2. articolo da stampare e da studiare.
    Vorrei chiedere a Ventre s eper caso conosce i lavori del messicano Roger bartra sul mito e le sue critiche alle posizioni strutturaliste.
    E se si cosa ne pensa
    grazie

  3. Grande Daniele! Domanda: per quanto tempo ancora credi che dovremo leggere frasi del tipo “la struttura archetipica delle metafore primordiali è legata alla condizione incarnata dell’uomo”? Un abbraccio da franco

  4. “la struttura archetipica delle metafore primordiali è legata alla condizione incarnata dell’uomo”
    è una perifrasi del ben più involuto (sintatticamente) periodo di Ventre:
    “la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici)”
    ma ovviamente i chierici livorosi non guardano mai a ciò che è scritto, bensi a chi lo ha scritto. Altrimenti come potrebbero continuare imperterriti a sacrificare dialogo e conoscenza sull’altare dell’ideologia?

  5. In risposta a un commento di Valter Binaghi che rilevava la mancanza di riferimenti alla filosofia del Vico nel mio articolo.

    Perché non ho citato Vico?

    Il Vico costituisce un’area fondamentale del meta-testo dell’articolo. Un certo approccio alla “tecnicizzazione del mito” e la stessa definizione di mito tengono ovviamente conto della definizione vichiana (favole come verità “vere e severe”) e della stigmatizzazione vichiana della “boria dei dotti”.

    Perché non citare Vico, allora? Citare l’ipogramma mi sembrava un po’ profanatorio. Sul piano della gestione documentaria (parlare di apparato delle note è grossa per quest’articolo) è un procedimento poco ortodosso. Probabilmente ho sbagliato, ma sul momento mi è parso meglio così. Anche perché un certo orientamento scientizzante ha bisogno di snodi concettuali che precisino il ragionamento. Le trame delle argomentazioni vichiane hanno troppo dell’evocativo e del mistico per certi palati odierni, specie i palati di quelli che riducono il mito a materiali mitologici (ebbene sì, una certa presa di posizione, benché venga da una parte che dovrebbe essere la mia, non la digerisco più di tanto, anche se può venir buona all’uso, settorialmente).

    Certo il mio periodo (“la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici)”) suona involuto. In realtà è solo inclusivo. A me non serviva asserire piattamente una connessione fra archetipi e incorporazione. Mi serviva enucleare tutti i passaggi di questa connessione intima, illustrando la trasformazione dei comportamenti coattivi di specie in epistemi. Il periodo non è involuto, ma solo articolato in tutti i necessari passaggi logico-evolutivi.

    Affermare in sé che la struttura archetipica è legata alla condizione incarnata dell’uomo non sarebbe un male. Il male nasce in chi poi deforma il concetto a uno scopo ben definito, distorcendo il senso di “incarnarsi” e il senso di “archetipo”.

  6. Mi associo agli apprezzamenti per questo intervento. Proprio per questo l’autore mi perdonerà se avanzo alcune perplessità sulle conclusioni del suo intervento. Se non sbaglio viene affermato che il mito cesserà di essere repertorio di un discorso del potere solo quando verrà ripreso nella sua pienezza da un’arte utopica. Ma il cammino della nostra società ci ha proposto piuttosto un’estetizzazione diffusa che forse potrebbe essere perfino considerata, per usare il termine di Daniele Ventre, una nientificazione dell’arte. L’artista degno del compito titanico che l’autore gli assegna vive oggi nella separazione, nella marginalità, ben lontano da quella totalità nella rappresentazione sociale, che gli spetterebbe per ottemperare a un simile compito. Forse sarà banale e un po’ triste, ma l’unico antidoto, almeno presso coloro che sono le prime vittime di questo uso dei materiali mitologici da parte del potere, è il discorso politico che poi significa riproporre la questione della politicizzazione delle masse. Certo questa politicizzazione è stata considerata, con qualche parziale ragione, responsabile degli orrori novecenteschi, ma senza di essa il campo è aperto per quell’uso tecnicistico del mito così ben descritto in questo intervento.

  7. Veramente la politicizzazione delle masse passa per un uso tecnicistico dei materiali mitologici svincolati dalla radice del mito. L’estetizzazione, che parte da certe operazioni letterarie primonovecentesche e sfocia nel degrado di certa pubblicità e paraletteratura, non è l’estetica. La marginalità spesso è il luogo in cui ciò che rimane di una civiltà in fase di naufragio infine si salva.

    • Ringrazio Daniele Ventre per la sua risposta: la sua equiparazione della base utopica della politicizzazione con la manipolazione tecnicistica del mito è per me esaustiva. Quanto alla sua concezione dell’estetizzazione come a un fenomeno circoscritto a un po’ di pubblicità, spero assolutamente che lui abbia ragion e io torto

  8. Daniele, come avrà capito il mio non era un appunto al suo stile ma all’intervento del signor Buffoni, che non perde occasione per escludere dal dibattito chi non gli piace (ma forse ha più competenze di lui a disquisire intorno al mito).
    Poi glissiamo pure su Vico, anche se non mi piace molto la sostanza della sua giustificazione, perchè dice in pratica che l’enfasi del Vico non va molto di moda tra gli accademici progressisti. Peccato che nessuno dopo Vico, Hegel e Comte ha provato a sviluppare una fenomenologia del significato all’interno della quale trovino collocazione sia il mito che la sua degradazione.
    E a proposito di questa, non c’è solo il mito tecnicizzato ad uso propagandistico. Sarebbe interessante confrontarsi con il fatto che la maggior parte della mitologia classica ci giunge al di fuori di un vero contesto rituale, per lo più attraverso le affabulazioni dei poeti. Quanto valore può avere l’Olimpo rissoso e chiacchierone di Omero per uno storico delle religioni?
    E il paradiso del caffé Lavazza, con Bonolis e l’altro idiota che sorseggiano caffé con san pietro. Se un alieno trovasse fra duemila anni queste clip come unica testimonianza della religione europea, che ricostruzione ne farebbe?

  9. Trovo strabiliante l’architettura di sensi che si vuole “rigorosamente” comprimibili in una singola frase: ho l’impressione di trovarmi davanti ad un extra-terrestre proveniente da una civiltà superiore. Pur avendone letta parecchia di antropologia, e di filosofia varia, in questo testo la mia mente annaspa inutilmente ed inesorabilmente affonda, come in sabbie mobili.

  10. In risposta a un commento di Valter Binaghi, in cui si rilevava che il mio mancato riferimento espresso al Vico fosse condizionato dalla moda dei “pensatori progressisti”. Binaghi rilevava inoltre l’irrilevanza di Omero per la storia della religione dei Greci. L’intenzione di Binaghi non mi sembrava in principio malevola. La storia dimostra che avevo torto (citation needed).

    @ Valter Binaghi. Il fatto che il Vico non vada di moda tra gli accademici progressisti spesso è vero. Peggio per gli accademici progressisti. Il regresso che hanno avallato si vede. Ma non è per questo suo non essere di moda presso certuni, che non ho ripreso il Vico.

    Il paradiso del Lavazza e i farfugliamenti di Ratzinger sono sempre materiali mitologici avulsi dall’origine. Si è peraltro tradotta la bibbia nelle lingue moderne. Si dovrebbe tradurre in cognitività moderna. Per esempio “In principio Dio creò il cielo e la terra” diventerebbe: “l’ordine fondamentale della natura nel suo dipanarsi nello spazio e nel tempo è fonte di ogni manifestazione che l’uomo riconosce come numinosa perché al di sopra del suo controllo”.

    Il problema delle teorie stadiali, comunque, è che gli stadii non esistono. Esiste solo uno sviluppo in cui l’archetipo mitico esprime di volta in volta la sua disponibilità al riuso, tenendo conto che il mito nasce come linguaggio tecnico di un certo tipo e finisce per diventare altro. Non c’è mito tecnicizzato come tale, ma ci sono diversi tipi di riuso. Incidentalmente, tenga conto che l’atteggiamento di chi (come Franco Buffoni, e in gran parte come il sottoscritto e come molti altri che conosco e non compaiono tutti qui) ha il dente avvelenato su certe cose, nasce dall’oggettivo avvelenamento storico-culturale che certa gente pone in essere, o discriminando, o colludendo, o appropriandosi di ciò che non è loro, salvo protestare circa presunte lesioni di libertà quando qualcuno finalmente li mette al loro posto. Non me ne voglia, ma questi sono dati oggettivi, al di là delle tensioni all’interno delle sedi di discussione del blog o della rete o dell’italica respublica litterarum.

    L’olimpo rissoso e chiacchierone di un Omero per lo storico delle religioni ha grande valore: basta chiamarsi Vernant e non Festugière, e considerare che le liti fra gli dèi configurano lacerazioni cosmiche estremamente serie, atteggiate a gioco, essendo il lusus, in una certa visione del mondo, l’espressione stessa della leggerezza con cui si cerca di rispondere all’indifferenza leggera dell’ananke.

    Faccio un esempio concreto: Iliade, battaglia degli dèi, XXI libro (anche se il titolo “battaglia degli dèi” nella tradizione è impropriamente attribuito al libro precedente):

    1) Xanto si solleva contro Achille inondando la piana di Troia e chiamando al soccorso Simoenta e gli altri fiumi. Tenendo conto di tutti i simboli nascosti nell’episodio, è evocata la dimensione ctonia e abissale delle acque del profondo (stigie) in cui Achille è stato calato -nota: l’Iliade mette in secondo piano l’invulnerabilità condizionata di Achille, la sconfessa, ma evidentemente non la ignora, ne fornisce il rovesciamento parodico. Come non lo dirò qui. Ne parla Linda Napolitano in un suo articolo.

    2) Hera solleva Efesto (il fuoco) contro l’acqua abissale che travalica i suoi limiti: il conflitto umano ha corrispettivi immediati in un conflitto cosmico;

    3) dopo che le forze elementari (acqua e fuoco) si sono sedate, cominciano altri duelli: Ares è atterrato da Atena, che abbatte pure Afrodite, con parallelismo strutturale rispetto al V libro, dove accade lo stesso per interposta lancia d’eroe; in ogni caso, la distruzione fine a sé stessa è arginata dall’emissione personificata della razionalità olimpica. Poseidone provoca Apollo alla lotta per gioco, ma i due la chiudono rientrando nei rispettivi ambiti di pertinenza: sono il dio degli Achei e il dio dei Troiani. Nell’età arcaica greca i due dèi, zio e nipote, si fronteggiavano sul golfo di Corinto, fra Egio in Acaia e Delfi in Focide; nell’età micenea gli Achei inclinavano più verso Poseidone Enesidaon che verso Zeus, e Apaliunas-Apollo era il dio degli anatolici. Il conflitto resta irrisolto, narrativamente non è ancora chiuso: è un conflitto fra amici-nemici (fra ex-amici divenuti nemici). Poi la rapida sequenza Artemide-Hera, Hermes-Letò chiude il sipario, davanti a uno Zeus che non sorride malignamente, come ha detto qualcuno, ma assume semplicemente l’espressione serena propria del dio cosmico supremo “conscio di piani infiniti”, davanti al quale gli opposti, nella loro lotta permanente, trovano compensazione, nella vittoria di prospettiva delle grandi dee madri filo-achee.

    Sembra a prima vista un’interpretazione allegorica stoicheggiante. In realtà è quello che il poema, nel passo specifico, comunica. Tenendo conto che i miti eroici hanno sempre la nota a margine cosmogonica, per ovvie ragioni, qui si dice che alla fine il conflitto cosmico e il suo esito, nel lusus degli dèi indifferenti, prefigura l’esito del conflitto umano, con tutte le tragedie degli uomini sofferenti: Omero ci insegna la lezione vera e severa di un cosmo abitato da plurivoche forze sovratemporali, che sono alla base delle tragedie umane, e incidentalmente ne sono toccati (e nel caso in cui i figli semidivini muoiano, ne sono contaminati, con tutto il gravame di dolore eterno che ne consegue). Credo che ci sia materiale, per lo storico delle religioni. Spesso i cristiani, convinti di essere le uniche persone serie nel panorama delle ierofanie perché hanno relegato nel male (non per consiglio di Atena, bruciata spesso sul rogo con la strega-lilith sua demonizzazione) l’amica del sorriso (Philommeidès), lo dimenticano, anche quando sono studiosi del calibro del summentovato Festugière. Spesso inoltre i cristiani hanno il pessimo atteggiamento di superiorità di chi crede che il nomoteta cosmico incarnato risolva tutto, a petto delle vecchie religioni “pagane” (quando parlo della maggior parte dei cristiani, mi riferisco a tipologie generiche di ideologi, filosofi e scrittori, non a persone concrete hic et nunc: nessuno si senta incluso, o offeso). Incidentalmente, si potrebbe notare che un certo modo di scherzare con Dio era poi anche dei cristiani del medioevo, ma qui non mi dilungo, perché ho già affastellato troppi omerismi e paraomerismi.

    In ogni caso, l’ho scritto che anche gli antichi tecnicizzavano il mito, ove d’uopo (anche perché, ribadisco, il mito nasce tecnica e linguaggio tecnico).

    @ elio_c

    Mi rendo conto che alle volte complico il tutto. Non ho ancora trovato un modo efficace e lineare di esprimere l’intimo legame di realtà che sono per me compresse in nodi e sviluppi evolutivi fondamentalmente unitari. Di qui, purtroppo, l’impressione generale che dà talvolta quello che scrivo. E che a cose fatte spesso sconforta anche me.

    • Devo dire che in seguito ho letto altri tuoi testi ed è andata molto meglio, penso quindi che in questo articolo sia l’angolo visuale (diciamo così) a risultare troppo ampio per le mie capacità di accomodamento – leggendolo ho pensato che fossero questioni adatte a Binaghi, che infatti è intervenuto :-)
      Ciao

  11. Diciamo pure che paradossalmente, in un discorso del genere sul mito, Vico non è citato (e non è citabile) perché a maneggiarlo, causa la natura magmatica del suo pensiero, si rischia di incenerire o quantomeno far traballare le più brillanti architetture concettuali. Perché Vico – per come scrive, per quello che dice, per quanto di “evocativo” e di “mistico” (?) racchiude ogni sua degnità, discorso o etimologia – invoglia piuttosto a continuare sulla sua strada, che a ricavare utili sunti, cataloghi o canoni dalle sue opere. Vico “crea miti per spiegare i miti”, diceva Labriola, e questo basterebbe a far capire perché è amato (e citato con affetto) più dai poeti che dai tecnici della filosofia, del linguaggio, della letteratura, etc.

  12. Enrico@ Quello che scrive è molto vero. Nel Vico c’è un’archiettura barocca e una dimensione immaginistica, nel senso che certe illustrazioni sono a loro volta a valenza metaforica, per cui si possono comprendere solo se le si indossa, lasciandosi iniziare alla loro forza allusiva, resta il fatto che il ritmo ternario di una fenomenologia del significato è ben visibile anche se sotto le insegne di Dei Eroi e Uomini. Non è necessario che sia totalmente esplicitata, ma il Vico sapeva bene che la sua era una teoria della mente.

    Daniele@ Grazie per l’abbondante esemplificazione, molto bella nel mostrare il potenziale allegorico di Omero. Questo è il modo con cui non solo uno stoico ma anche noi possiamo leggerlo, ma non credo che questa fosse la lettura prevalente in un contemporaneo di Omero. Conosciamo grazie all’opera di mitolgi come Kereny (ma più ancora, a mio avviso di quell’unico filosofo del mito che fu Walter Otto), la plastica sobrietà dei mitologemi originari, e c’è più di un motivo per pensare che l’amplificazione poetica non s’identifica necessariamente con l’intensità spirituale con cui il mitologema era vissuto in un contesto arcaico. Quel che sappiamo della Grecia omerica e post-omerica ci fa pensare a una società in pieno fermento illuministico e quindi l’affabulazione omerica credo sia più interessante per lo storico del costume che per il mitologo.
    Magari la parola stadio non le piace, a me non piace la parola “riuso”. Le madri poppute del paleolitico, l'”uso” che fanno i misteri di Eleusini del mitologema di Demetra, e la “dea bianca” di Robert Graves non sono solo usi diversi. Appartengono a tre livelli diversi dello sviluppo mentale, ma non è detto che l’ultimo sia il più fedele alla direzione del simbolo. E questo è un altro paio di maniche, che ci porterebbe su un terreno più vicino a quello religioso. Sulle sue considerazioni in materia non ho capito granchè: mi chiamo Valter Binaghi e sono responsabile solo di quello che dico o scrivo in prima persona. Poi lascerei perdere le professioni di fede, se no il suo amico Buffoni si altera

  13. In risposta a un commento di Binaghi sulle professioni di fede e la loro opportunità.

    Guardi non è questione di professioni di fede, solo di osservazioni storiche (tanto per dirne una, io non credo nel problema di conciliare scienza e fede, quanto piuttosto nell’inconciliabilità del pensiero critico con la struttura di potere che fa della fede uno strumento, quale che sia la fede).

    Quanto al problema del riuso, lo so che il termine è brutto, ma è un termine tecnico. Si riferisce a ogni tipo di discorso che non si consuma nel comunicare immediato ma rimane come possesso per il sempre. Quanto alla parola stadio, non è che non mi piaccia: semplicemente, le teorie stadiali hanno il difetto di assolutizzare determinate componenti di un fenomeno culturale associandole senz’altro ad epoche definite. Il caso di Vico è un altro: nel vichismo, le tre fasi in realtà si presentano come momenti filo-ontogenetici; la possibilità del ricorso storico non nasce infatti in Vico come circolarità storicistica, ma è piuttosto l’emersione in fasi diverse di momenti della cognitività sociale che sono più o meno compresenti (quanto meno nella fase di sviluppo). Questo è l’altro motivo per cui non ho citato apertamente Vico. Di fatto ho assunto una implicita posizione neo-vichiana (se così si può dire) contro le formole ideali transitorie della (post-)modernità.

  14. “Com’è noto, nel panorama organicistico del Kulturkreis che Frobenius delinea, i paideumi attraversano una fase di Ergriffenheit…”
    Com’è noto?
    Vado pazzo per quest’uomo! ;-)

    Scherzi a parte, molto interessante.

  15. In risposta a un commento di Binaghi, che forte dell’onniscienza di Dio, ha affermato di sapere che cosa penso. L’ha affermato tagliando a suo uso e consumo una mia affermazione precedente, nella maniera che segue:

    (commento di Valter Binaghi):

    “non è questione di professioni di fede …tanto per dirne una, io non credo”
    Un ossimoro, non le pare?”

    Di qui la mia replica

    @ Valter Binaghi

    Un errore comune di quelli con cui ho a che vedere è la tendenza ad attribuirmi un pensiero che collimava con le loro attese ideologiche, piuttosto che con i fatti.

    Un altro errore comune è pensare che esista un solo tipo di fede.

    Un errore diffusissimo (perseverare autem diabolicum) è tagliare una frase dove non è opportuno.

    “io non credo nel problema di conciliare scienza e fede, quanto piuttosto nell’inconciliabilità del pensiero critico con la struttura di potere che fa della fede uno strumento, quale che sia la fede”

  16. Un altro errore è pensare che il tuo interlocutore abbia a che fare con “strutture di potere che fanno della fede uno strumento” e parare attacchi da quella parte, quando invece si rivolgeva a te e considerava il tuo scritto da un punto di vista squisitamente teoeretico. Ma è vero che non hai cominciato tu: c’è l’amico Buffoni che ha provveduto, con lo zelo del militonto di cui NI non riuscirà mai a liberarsi.
    Ad maiora.

  17. In risposta a Valter Binaghi (ma quant’è importante costui!), essendosi lui sentito in dovere di riconoscersi nei miei generici appunti contro le posizioni reazionarie della gerarchia cattolica.

    Infatti io avrei anche precisato: quando parlo della maggior parte dei cristiani, mi riferisco a tipologie generiche di ideologi, filosofi e scrittori, non a persone concrete hic et nunc: nessuno si senta incluso, o offeso. Dunque non c’era nessuna intenzione di includere o offendere. Vedi, non è mia intenzione suscitare un vespaio o urtare la tua sensibilità, ma è un dato di fatto che:

    1) certe prese di posizione passate e presenti della chiesa (e le conseguenti azioni) hanno fatto del male al cattolicesimo e ai cattolici più delle persecuzioni tardoantiche;

    2) tali azioni non erano errori sporadici come nel blando perdonismo woitilano, ma erano frutto di organiche costruzioni ideologiche attorno al cristianesimo: una bestemmia argomentata;

    3) persone che si sentono a vario titolo discriminate a causa delle prese di posizione del cosiddetto cristianesimo cosiddetto cattolico (in realtà della gerarchia), non possono non prendere posizione “contro”: è una banale question di amor proprio -sia detto fra noi: che Cristo sia la legittimazione di perdonismi di facile conio o di autolesionismi metodologici è un’illusione fomentata ad arte;

    4) persone come te che, essendo sentitamente cristiane all’interno dell’institutio dottrinale (termine avalutativo), si sentono anche in dovere di assumere il ruolo di defensores fidei a oltranza, rischiano di non fare le dovute suddistinzioni -se qualcuno è storicamente costretto a buttare il bambino con l’acqua sporca, qualcun altro si assume una posizione a cui non è storicamente tenuto: sorbirsi l’acqua sporca perdendo di vista il bambino, in nome di un astratto possibilismo sugli inevitabili portati dell’umana fallibilità.

    Conseguenza di questi quattro punti è che quanti in questa sciagurata contrada italiota sono sentitamente cristiani e cattolici dovrebbero smetterla di appiattirsi perinde ac cadavera su posizioni gerarchiche, accettando tutto un sistema discriminatorio che viene da pulpiti ben lordi. Non ci si deve poi meravigliare se si ingenerano conflittualità. Conflittualità inutili. Anche perché la civiltà non è negoziabile e le posizioni gerarchiche si sono messe da tempo fuori della civiltà, trascinando con sé tutto un Paese, il tutto in nome di un cristianesimo ridotto a materiale mitologico pragmaticamente orientato.

    Incidentalmente, noterei che la boutade citatoria viene da te. Io ti avevo risposto su un piano strettamente concettuale. Non vedo perché, o per quale equivoco comunicativo, nel mio inciso sul conflitto fra scienza e fede tu ti sia sentito chiamato in causa in modo così diretto da spingerti a un affondo motteggiatorio decisamente infelice.

    • scusate, son di passaggio, ma posso dire W Ventre, condivido quanto bene dice Ventre? L’ho detto.

  18. Su cosa intendo per essere cattolico ho appena scritto un libro con Giulio Mozzi e non mi va di riassumere. Dico solo che l’orizzonte dottrinale inteso come fedeltà al messaggio evangelico è una cosa, l’appiattimento su culture borghesi che del cattolicesimo hanno fatto un supporto ideologico è un’altra.
    Poi, cosa sia più infelice, qui e altrove, giudicherà chi legge.
    Io di parlare di mito, narrazione e teologia qui non ho più voglia.
    Il testo di partenza può essere accattivante, ma è il posto che proprio non funziona: prima o poi esce sempre il Minculpop.

  19. In risposta a Valter Binaghi, il quale ricordava, in tema di questione religiosa come urgenza di contrasto, il suo Dieci buoni motivi per essere cattolici (Laurana, Milano, 2011), scritto con Giulio Mozzi (e l’urgenza e il contrasto si sono visti fin troppo).

    Infatti non ho chiesto a nessuno cosa voglia dire essere cattolico, né di rendere conto della sua personale via alla cattolicità, perché non ne ho il diritto. Pretendo soltanto che chi si professa cattolico non se ne esca con implicite ironie sussiegose da verità e salvezza in tasca pronta per il (ri-)uso, del tipo: ““non è questione di professioni di fede …tanto per dirne una, io non credo” Un ossimoro, non le pare?”

    E’ così difficile ammettere che questa è una grezza dettata da vecchie ruggini emerse da una blanda allusione? Ed è così difficile capire che il rifiuto del cattolicesimo proprio di alcuni non è minculpop, ma stanchezza verso un muro di gomma culturale melenso, ipocrita e sclerotizzato, i cui fumi finiscono per contaminare anche i migliori fra quelli che del cattolicesimo si fanno portavoce?

    Adesso, per scoprire personalmente le carte (perché sono veramente stanco della piega inopinata che la discussione sta prendendo), a me non interessa più il declinarsi dell’apologetica in forme più o meno raffinate, né più dovrà interessarmi fintantoché la chiesa del papa che entrò in parlamento per enunciare il suo diktat sulla libertà di istruzione non pagherà fino all’ultimo centesimo le tasse che sono dovute alla nazione, visto che nella scuola laica e pluralista in disarmo in cui lavoro è diventato utopico anche fare sei (dico sei) fotocopie per un compito in classe di fine quadrimestre.

    Fino a quando questo stato di cose continuerà, ogni forma di dialogo paritario sarà intrinsecamente destituita di legittimità dalle evidenti asimmetrie sociali al cui mantenimento il cosiddetto cristianesimo cattolico continua pervicacissimamente a contribuire, in nome della sua idiosincratica allergia alla neutralità religiosa che qualunque Stato laico e civile dovrebbe assumere.

    Minculpop? Da questo punto di vista il Minculpop è nulla: io non sono più disposto a tollerare in merito sfumature o distinguo di alcun tipo che possano anche solo lontanamente mostrarsi inclini a giustificare o “comprendere” la sordida Anwendung della povertà evangelica trasformata in opulento parassitarismo sociale.

  20. A Valter Binaghi, il quale mi rammentava di salutargli la Dea Ragione (è un po’ che non andava a farle visita, e temeva giustamente che Athena se ne fosse risentita):

    Grazie. Ti saluto la Dea Ragione. Si lagna del fatto che alcuni frequentano la sua parrocchia meno di quanto dovrebbero.

    Nel frattempo, tuttavia, le contestazioni oggettive restano ostinatamente prive di risposta -e tali sono destinate a restare.

  21. Ma solo perchè le hai fatte alla persona sbagliata.
    Prova con Bagnasco o Ratzinger.
    Io non c’entro, ma eri troppo preso dal tuo catechismo ultralaico per accorgertene.
    Addio per sempre.

  22. A mio parere, riproporre oggi la dialettica cattolici/atei, o credenti/noncredenti, o peggio clericali/anticlericali è veramente obsoleto – e lo scrivo qui su NI dal 2005.

    A farlo sono solitamente – mi concentro suolo sulla contesa cattolici/atei – i cattolici reazionari, integralisti o comunque di destra, che per la verità sono sempre di più, essendoci sempre meno spazio nella Chiesa per forme di dissenso o per posizioni progressiste, e gli atei militanti.

    In questo caso, mi pare che a riproporre la solita stantia battaglia sia stato Valter Binaghi, rispondendo a una provocazione di Buffoni, a conferma di quanto dicevo.

    A Ventre dico che proporre come temi su cui misurare le posizioni di un cattolico quello delle scuole paritarie e dell’ICI, rischia di essere semplificatorio e fuorviante. Se infatti poniamo la questione in termini oggettivi non è la Chiesa a beneficiare di privilegi particolari, essendo esenti dall’ICI tutte le strutture di organizzazioni no profit e tutti i luoghi di culto, e i contributi dello stato alle scuole paritarie, ossia ex-private, vanno a tutte le scuole di tale genere, non solo a quelle cattoliche, e non mi pare che quelle islamiche, ebree, laiche vi rinuncino, o chiedano il cambiamento della legge.

    Mi sembra meglio, a chi vuol dichiararsi cattolico per porre una barriera tra noi e voi, cosa che di cattolico (universale) non dovrebbe avere granché, chiedere cosa fa quando la Chiesa chiede ai parlamentari di non legiferare con i DICO, come ha fatto la CEI anni fa per iscritto, o quando lo chiede verbalmente per leggi come quelle sull’interruzione delle cure mediche (o altri esempi del genere). I cattolici cioè, o meglio le persone che si dichiarano così nelle discussioni, e per lo più in modo da dividere in fazioni i dialoganti, devono essere messi alla prova su questo, secondo me, ossia su cosa fanno loro all’interno della Chiesa e della società quando la gerarchia cattolica tenta di imporre a tutti i cittadini leggi secondo la propria etica che non permettono ad altri di agire secondo la propria.

  23. Eccolo qua l’altro chierichetto.
    “mi pare che a riproporre la solita stantia battaglia sia stato Valter Binaghi, rispondendo a una provocazione di Buffoni”
    Quindi chi provoca, Binaghi o Buffoni?
    Ero intervenuto in merito all’articolo, parlando di una filosofia del mito e citando il Vico e siamo finiti sui PACS e i DICO.
    Ma che ne sai tu della mia posizione su queste cose, e soprattutto, che c’entra con tutto questo?
    Questo blog è veramente un sepolcro imbiancato.
    Di fuori (ogni tanto) qualche bel testo sbarluccicante, poi entri ed è il solito disco rotto. Mi spiace per il mio amico Biondillo, che ogni volta che ci vediamo prova a convincermi che questo è un luogo di democratico confronto, dove la curiosità intellettuale è il valore più alto. Ma de che?
    Il giapponese sull’isola faceva pena, ma quello almeno lo faceva gratis.
    Qui c’è gente che su questa roba si è inventata un mestiere e una carriera. Siete peggio che morti.
    Mummie.

  24. Valter Binaghi aveva scritto, indirizzandosi precipuamente a Lorenzo Galbiati:

    Eccolo qua l’altro chierichetto.
    “mi pare che a riproporre la solita stantia battaglia sia stato Valter Binaghi, rispondendo a una provocazione di Buffoni”
    Quindi chi provoca, Binaghi o Buffoni?
    Ero intervenuto in merito all’articolo, parlando di una filosofia del mito e citando il Vico e siamo finiti sui PACS e i DICO.
    Ma che ne sai tu della mia posizione su queste cose, e soprattutto, che c’entra con tutto questo?
    Questo blog è veramente un sepolcro imbiancato.
    Di fuori (ogni tanto) qualche bel testo sbarluccicante, poi entri ed è il solito disco rotto. Mi spiace per il mio amico Biondillo, che ogni volta che ci vediamo prova a convincermi che questo è un luogo di democratico confronto, dove la curiosità intellettuale è il valore più alto. Ma de che?
    Il giapponese sull’isola faceva pena, ma quello almeno lo faceva gratis.
    Qui c’è gente che su questa roba si è inventata un mestiere e una carriera. Siete peggio che morti.
    Mummie.

    Segue la mia replica:

    @ Binaghi

    Ora basta.

    Sulla stolidità di certi confronti atei/credenti ci siamo già rotti le ossa. Oltretutto sono solo testimonianza di insularismo culturale. Peraltro, noi siamo la nazione europea con la peggior situazione, quanto al regresso dello Stato laico.

    Forse, caro Valter Binaghi, non ti sèi accorto che parlavo appunto di Ratzinger e Bagnasco, e ti sèi sentito chiamato in causa, rispondendo nel modo che mi ha indotto a seccarmi di presentare i toni sfumati del mio modo di vedere, su cui non ho avuto la fortuna e l’occasione di scrivere un libro, almeno finora. Né so se ne avrò mai voglia.

    Gli scribi e i farisei valli a cercare altrove.

    @ Lorenzo Galbiati

    No profit? Sei sicuro che scuole private, alberghi e contratti di finita locazione sotto Natale siano no profit. Ho i miei dubbi.

    Comunque, io sono stufo della balcanizzazione ideologica vuota e autoriferita che ogni volta finisce per assumere il dibattito.

    Soprattutto, sono stufo marcio del fatto che i monocolori di turno debbano forzatamente identificare con etichette facili e stolidamente classificatorie, fondate su una tassonomia binaria tanto povera quanto becera (io credo, tu non credi; io ateo, tu stupido) ogni forma di pensiero argomentato che non collimi con la propria parrocchia.

    Svecchiatevi le meningi. Non è più tempo di Coppi e Bartali, di dogmatismi e principi d’autorità, di prese di posizione di un certo tipo… E se la provocazione c’è stata, di tono abbastanza neutro in sé, il provocato c’è caduto in pieno, nel modo peggiore.

    Segue la contro-replica di Galbiati, oggetto principale del rabbuffo di Binaghi.

  25. Valter,
    i Dico e il resto non c’entrano niente con il tema del post, ovviamente. Ma tu e Ventre siete già andati largamente fuori tema, e se lo fa l’autore del post è lecito seguirlo.
    Io non so cosa pensi tu su nulla, è vero, ma leggo quasi sempre da te commenti aggressivi (con persone qui su NI e con la cultura della sinistra in generale) e vittimistici, contenenti spesso una dichiarazione di fede o di appartenenza poco specificata nelle sue declinazioni concrete. E a me questo atteggiamento sembra tipico del cattolico di destra un po’ reazionario e molto reattivo a critiche e provocazioni, con tante parole per difendersi e dire io non sono questo, io non sono quest’altro, e con poche parole per esporsi senza cercare consenso, senza giudicare.
    Questa è la mia impressione. Posso sbagliarmi. E poi posso avere pessima memoria o aver letto solo certe cose tue e non altre, ma il tuo ultimo messaggio non dà credito a queste ipotesi.
    In ogni caso, a chi polemizza in quanto cattolico mal tollerato, a chi dà del poco democratico e laico ad altri, io chiedo conto di come si pone verso le dichiarazioni e le richieste della Chiesa cattolica che secondo me, e secondo molti, confliggono con la cultura di uno stato laico e democratico. Lo stesso chiedo all’ateo militante, che spesso, a mio parere, confonde ateismo e laicità, spesso conduce battaglie anticlericali con toni e obiettivi che poco hanno a che fare con il “bene comune” e molto con la propaganda.
    A differenza tua, infine, non apostrofo le persone come chierichetti, perché non ci vedo nulla di negativo nel fare il chierichetto, e perché mi sembra una cosa da anticlericale (finto nel tuo caso?) da quattro soldi.

  26. eppure mi sarbbe piaciuto che ventre avesse conosciuto letto e commentato il pensiero di roger bartra.
    fare un po’ d’aria nelle stanze un po’ ammuffite della vecchia europa non sarebbe cosa utile e salutare ?

  27. @Carmelo
    Da questo tizio che scrive prolisso e ampolloso come un tedesco col mal di stomaco, non cita Vico perchè non piace ai sinistri e naufraga per difendere un intervento maldestramente ideologico del suo socio, ti aspetti curiosità intellettuale e ampiezza di vedute?

  28. @Galbiati
    Del condizionamento che il Vaticano esercita sulla politica italiana (soprattutto per merito di politici paraculi) penso peggio di quello che pensi tu, per la semplice ragione che questo sporca la mia religione, non la tua. Però trovo ripugnante (da KGB per intenderci) che uno debba rispondere a domande come questa su un thread dove era intervenuto in modo assolutamente teorico.
    Rileggiti il mio primo intervento, poi quello di Buffoni e il resto.
    E poi vergognati per esserti aggiunto a queste operazioni di polizia.

  29. In risposta a un comento di Carmelo, Valter Binaghi aveva scritto:

    @Carmelo
    Da questo tizio che scrive prolisso e ampolloso come un tedesco col mal di stomaco, non cita Vico perchè non piace ai sinistri e naufraga per difendere un intervento maldestramente ideologico del suo socio, ti aspetti curiosità intellettuale e ampiezza di vedute?

    Lo stesso Valter Binaghi aveva inoltre indirizzato a Lorenzo Galbiati il seguente commento:

    @Galbiati
    Del condizionamento che il Vaticano esercita sulla politica italiana (soprattutto per merito di politici paraculi) penso peggio di quello che pensi tu, per la semplice ragione che questo sporca la mia religione, non la tua. Però trovo ripugnante (da KGB per intenderci) che uno debba rispondere a domande come questa su un thread dove era intervenuto in modo assolutamente teorico.
    Rileggiti il mio primo intervento, poi quello di Buffoni e il resto.
    E poi vergognati per esserti aggiunto a queste operazioni di polizia.

    Come risposta al duplice commento di Binaghi, ho scritto quanto segue:

    @ Carmelo et alii,

    Il pensiero di Roger Bartra è estremamente affascinante. Lo conosco poco, non tanto perché il mio modo di scrivere è quello di un tedesco col mal di stomaco, quanto piuttosto perché, non avendo alle mie spalle un passato eterno, non ho l’appannaggio di essere onnisciente. Nemmeno pretendo di conoscere i dettami dell’eternità onnisciente, come qualcun altro.

    Molto in sintesi: la sua ipotesi di esocervello (exocerebro in spagnolo, exobrain in inglese) rende conto dello sviluppo delle meta-funzioni cognitive (legate alla coscienza) molto meglio delle macchinose ipotesi di un Eccles (fautore di un campo animico quantistico) o della formulazione rifritta e mal compresa che della tradizione di pensiero occidentale relativa all’anima hanno dato alcuni “pensatori” cristiani, cattolici e non. La chiave di volta del cosiddetto mistero della coscienza si trova effettivamente nell’idea bartriana di “secondo cervello” umano evolutosi in base alle trasformazioni socioculturali progressivamente attuate dall’uomo, in un circuito di effetti feedback che partono dalle prime innovazioni nel campo della cultura materiale e approdano allo sviluppo delle funzioni mentali di livello superiore (quelle che un certo “pensiero” sia cristiano sia laico, fra postmodernità e “rinascite” “religiose”, pretende di essere legittimato ad affossare). Da questo punto di vista, l’emergere della coscienza, della cultura e delle condizioni materiali che di entrambe determinano l’evoluzione si trovano in una relazione di condeterminazione, e costituiscono in sé il momento di una trasformazione organizzativa della natura fondamentale quanto quella che conduce dalla materia inerte alla materia vivente. Alcuni aspetti del pensiero di Bartra sull’evoluzione della coscienza potrebbero trovare insospettabili contiguità con il ruolo che all’azione riorganizzatrice dell’uomo, e alla conseguente emersione della noosfera, viene attribuito nel quadro della visione di Teilhard de Chardin, un vero pensatore cristiano, a cui non a caso la gerarchia “cristiana” ha ampiamente messo i bastoni fra le ruote. Per altri aspetti, il suo concetto di apparato prostetico culturale, di prostesi culturale, è il necessario complemento delle teorie di Lakoff e Koevecses sulle metafore incorporate e rende conto della dinamica per cui i domini metaforici di schemi-immagine originatisi dalle percezioni elementari si traducano in narrazioni archetipiche condizionanti. Per altri aspetti ancora, l’exocerebro-esocervello di Bartra si connette, altrettanto insospettabilmente, alle visioni alla base del concetto tecnico di esocervello computazionale e ipercorpo proprie della concezione architettonica di un Kas Oosterhuis, per quanto controverse possano essere certe sue indicazioni sulla realizzazione architettonica come tale.

    Sono partito dall’aspetto più recente del pensiero di Bartra, da quello meno vicino in apparenza al tema del mito, perché credo che il tema dell’exocervello fornisca l’organon concettuale alle tematizzazioni bartriane in tema di miti della modernità.

    Chiarisco inoltre che, quanto al Vico, essendo l’ipogramma del discorso che ho cercato di imbastire qui, cosa che mi pare di aver chiarito, ho preferito non citarlo. Altrimenti avrei dovuto dire una cosa del tipo: “come diceva il Vico, che il pensiero postmoderno deteriore ha dimenticato o disinterpretato”. E allora mi sarei trovato addosso altri attacchi, da quello del savant postmodernista di passaggio al latrato di cane. Ma siccome di siffatti latrati ne ho sentiti abbastanza quando ho avuto, da inautorevole e inattuale illustre sconosciuto, la pessima idea di parlare della miseria della postfilosofia, ne ho fatto a meno, lasciando le tracce vichiane allo studioso lettore. Non ho dunque dimenticato Vico per far piacere ai sinistri, come con lercia malafede afferma Binaghi, perché dei cosiddetti uomini di “cultura” “filosofica” più o meno “di sinistra” o cari alla “sinistra” (tipo un Vattimo o un Galimberti o un Severino, che Vico se lo sono messo sotto le scarpe in un modo o nell’altro) non ho alcuna stima né considerazione. Questa è una cosa che mi sembra di aver ampiamente illustrato altrove. Il signor Binaghi, che evidentemente dietro l’apparente approccio teorico celava altri modi di pensare, non ha voluto ricordarselo.

    Ricapitolando la querelle nelle sue tappe essenziali:

    di primo acchito, Franco Buffoni è intervenuto dicendo:

    Domanda: per quanto tempo ancora credi che dovremo leggere frasi del tipo “la struttura archetipica delle metafore primordiali è legata alla condizione incarnata dell’uomo”?

    La punta di ironia che c’era dentro, sottendeva precedenti, ben note, discussioni. Peraltro, non è così feroce da giustificare quanto è successo dopo.

    Io ho semplicemente replicato, in tono neutro:

    “Affermare in sé che la struttura archetipica è legata alla condizione incarnata dell’uomo non sarebbe un male. Il male nasce in chi poi deforma il concetto a uno scopo ben definito, distorcendo il senso di “incarnarsi” e il senso di “archetipo”.

    L’argomento di Franco Buffoni non intedeva escludere qualcuno dal dibattito, credo: dopotutto, chi può amministrare un sito, per escludere qualcuno dal dibattito ha come strumento un semplice click. Ovviamente, le vecchie ruggini si sono riscoperte.

    Nel frattempo Valter Binaghi se ne usciva con la non proprio felice osservazione: “Quanto valore può avere l’Olimpo rissoso e chiacchierone di Omero per uno storico delle religioni?”

    L’osservazione non è felice non tanto perché rivolta al sottoscritto (ovviamente non ho l’appannaggio del controllo assoluto su Omero), quanto piuttosto perché glissa su alcuni “dettagli” storico-antropologici che ho cercato di spiegare come i miei limitati mezzi mi consentono. Oltretutto è strano che un cattolico così moderno come Binaghi si dimentichi della professione di tolleranza del vituperato Eliade, che al principio del suo trattato di storia delle religioni afferma, da cristiano, la validità di ogni ierofania in quanto prefiguratrice dello stesso anelito e della stessa evoluzione spirituale che sottende il mistero dell’incarnazione. Queste cose le aveva ben capite ed espresse Eliade alla metà del secolo scorso. Qualcun altro, nel ventunesimo secolo, le ha dimenticate e se ne esce con questa impropria supponenza da monoteista sicuro… eppure, tutto considerato (considerata la connivenza fra cardinali, usura, corruttela ed ecomafie nel campano, per esempio) il politeismo civile degli Elleni offrirebbe alla nostra disnomica civiltà distruttrice della natura una lezione più efficace e costruttiva di ciò che ha da considerarsi veramente sacro.

    Ho poi avuto la cattiva idea di affermare:

    “Guardi non è questione di professioni di fede, solo di osservazioni storiche (tanto per dirne una, io non credo nel problema di conciliare scienza e fede, quanto piuttosto nell’inconciliabilità del pensiero critico con la struttura di potere che fa della fede uno strumento, quale che sia la fede).”

    Ho quindi concluso: “Di fatto ho assunto una implicita posizione neo-vichiana (se così si può dire) contro le formole ideali transitorie della (post-)modernità”.

    Il che significa che la mia posizione, in merito al Vico, è diametralmente opposta rispetto a quella che mi viene attribuita da Valter Binaghi.

    (Incidentalmente, ricapitolando sul Vico: 1) il Vico era il mio ipogramma: all’ipogramma si allude, non si cita: è il “format” e la sostanza, non una nota a pie’ di pagina. 2) Inoltre la citazione del Vico, in un’opera di smontamento di certe posizioni dell’antropologia moderna, suonerebbe soltanto come un’inefficace querela classicistica, di fronte alla tecnicità, o alla boria, dei dòtti. Connotativamente e pragmaticamente sarebbe svantaggiosa sul piano argomentativo. De hoc satis).

    A questo punto il “buon” Binaghi ha tirato fuori la sua puntina di veleno, forse simmetrica rispetto all’ironia di Franco Buffoni. Certamente meno legittima, per una serie di ragioni abbastanza evidenti a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto canonico, o la mente in perenne coma dogmatico, nonostante professioni di fede nell’innovazione ideale. Ha detto, storpiando una mia affermazione:

    ““non è questione di professioni di fede …tanto per dirne una, io non credo”
    Un ossimoro, non le pare?”

    Un simile atteggiamento si commenta da solo. Così come quello che è venuto dopo, e che mi scoccio di riassumere. Basterà pensare che all’ennesimo distinguo del sottoscritto fra le posizioni generiche e gerarchiche prese di mira e il signor Binaghi, a cui ho soltanto ricordato che certe urgenze storico-sociali rendono necessariamente e giustamente problematica l’accettazione del cattolicesimo da parte di alcuni, il signor Binaghi se n’è uscito con l’affermare che io mi sarei attivato come emissario virtuale di una presunta rete di controllo, un KGB (dàlli co ‘sta fissa). A quel punto le allusioni e i punzecchiamenti a vuoto hanno suscitato la mia reazione, dura come doveva essere.

    Risultato della discussione: in realtà, poste le divergenze di fondo, diciamo tutti le stesse cose, almeno su alcuni temi, anche se in contesti e con intenzioni diverse. Il cattolico militonto, di fronte alle responsabilità dei suoi maestri e donni, ha affermato che sì, fanno schifo, ma che noi siamo degli stalinisti cretini e ampollosi. Il tentativo di Lorenzo Galbiati, vòlto a mediare, è stato stigmatizzato senza motivo come complicità di un’operazione di polizia che avrebbe avuto come mente raffinatissima Buffoni, come sgherro e scherano il sottoscritto, come manutengolo appunto Lorenzo Galbiati. Un bell’esempio della pressione distorcente che una mente umana pre-orientata può imprimere alla realtà, ove al pre-orientamento si uniscano pregiudiziali negative sugli interlocutori unite a pregiudiziali positive, implicitamente non discusse, non discutibili e non discutende, su sé stessi e soprattutto sulla propria idea circa la vita, l’universo & tutto quanto. Grazie a questa degenerazione ne è disceso: 1) che da ierofania il cristianesimo italiano è degenerato a mera tecnica ritualistica e sistema di privilegi, ad opera di una gerarchia essenzialmente atea -gerarchia il cui parassitarismo economico forse non ci schianta del tutto, ma non ci fa bene, e in ogni caso non ci fa onore; 2) che io e il signor Binaghi condividiamo, a quanto sembra, le stesse posizioni sul “condizionamento che il Vaticano esercita sulla politica italiana (soprattutto per merito di politici paraculi)”, ma poi le cose nella prassi vanno in altro modo, quale che ne sia il motivo contingente; 3) che la discussione si è arenata, fra insulti e recriminazioni, in un pantano maleodorante di rivendicazioni di immacolatezza, mettendo in secondo piano problemi più interessanti, come l’antropologia di Bartra e le teorie di Girard, la cui teoria della triangolazione del desiderio è di indubbio interesse, ma a mio modo di vedere non riesce a spiegare il sacro, in quanto lo riduce alla dinamica sociale dell’intermediazione del desiderio, mentre a mio modo di vedere esso ha radici più profonde nella stessa struttura cognitiva dell’uomo e nelle trasformazioni che essa presenta.

    Post scriptum:

    Se questa fosse sede di operazioni censorie di polizia virtuale, nessuno si sarebbe preso la briga di mostrare l’evidente torto dialetticamente, ma si sarebbe avvalso di un semplice click. D’ora in poi, ogni manifestazione di atteggiamenti ingiustificatamente aggressivi e di stigmatizzazioni mendaci e fuorvianti non avrà altra reazione che quel click, così si vedrà che la tecnicizzazione non va bene per il mito, ma è ottima per le discussioni abbandonate alla deriva del senso e della decenza.

  30. Grazie Daniele.
    Il clic è arrivato sul mio ultimo (innocuo) commento.
    Ri sei guadagnato i gradi?

  31. La fine argomentazione binaghiana si è manifestata in questi termini:

    “clic”.

    Come si può notare, ho eliminato i commenti di Binaghi. Grazie alle sue prese di posizione abbastanza insultanti e fatte di ironie a vuoto e di argomenti ad hominem, ora la discussione ha assunto l’aspetto di un registro inquisitoriale. Binaghi a quelli c’è più abituato di quanto proclami. L’invocato click (o clic, scegliete voi la vostra variante grafica preferita) c’è stato.

    Ora Binaghi può andare altrove a vantare la mia scarsa democraticità e a desumerne edificanti filosofari sull’irriducibilità dell’individuo. Quanto a me, io non coltivo il “mito” della democrazia al punto da tollerare gli insulti gratuiti.

    P. s.

    Una volta, tanto tanto tempo fa, qualcuno mi disse che il cristiano è la persona di fronte a cui il male si ferma. Mi pare che qui sia successo invece qualcosa di strano.

    Quanto a me, voglio dimenticarmi di questo articolo. Forse se avrò voglia ne scriverò un altro, evitando però di rispondere a urgenze religiose o di altro tipo che non mi competono.

  32. Beh, peccato che sia finita così. Seguo da parecchio il blog di Binaghi e so che non corrisponde affatto alla rappresentazione che ne è risultata qui, penso anzi che tu abbia perso uno dei pochi che potevano interagire su certe visioni panoramiche, ora dovrai accontentarti di commenti magari estasiati ma vuoti di contenuto, o di semplici richieste di supplemento didattico. Persino nella costellazione di insulti, il confronto aveva lasciato trasparire qualcosa di significativo.
    Quando ho letto la prima entrata di Buffoni, l’ho trovata sinceramente insolente (pur avendo un vago ricordo di certe ruggini) e soprattutto gratuita. Speravo che Binaghi la lasciasse a se stessa (come ha fatto Biondillo con un recente insulto a lui rivolto) e continuasse il confronto “teorico” con te senza tentare nel contempo di ripagarsi, provocando una polarizzazione identitaria spiacevole a vedersi su entrambi i fronti. Ma evidentemente certi pruriti sono irresistibili e bisogna infine grattarli fino al sanguinamento. Ma non facciamone una tragedia, si tratta pur sempre di sangue “virtuale”.

  33. Mi limito ad osservare che sopprimere la voce (leggasi commenti) altrui e sostituirla con un proprio riassuntino e citazioni scelte ad hoc è la quintessenza della censura di Minculpopiana memoria. Così chi passa di qui non può nemmeno ricostruire la pessima figura fatta da chi ha gestito il threas. Per fortuna Elio ha seguito il tutto fin dall’inizio. Comunque, nel giro di qualche ora, questa cosa finisce a quattro colonne in Rete.

  34. Ma la discussione non risulta un po’ monca con il pensiero di binaghi riportato a spizzichi e bocconi dall’autore del post che non è d’accordo con lui?
    Non avevo mai visto una cosa del genere.

    Maria

  35. l’articolo sarà anche spettacolare, ma il comportamento lascia molto a desiderare…
    meno male non frequento più certi luoghi.

  36. Per una paraculata detta
    (un ultimo intervento
    su “i seminatori d’odio”)
    eccomi smentito e smontato;

    è proprio un mondo insano
    questo dei letteronzoli
    paraccademici che s’incamicia
    a forza nel suo dire e dire

    -inutile parlar dei trolleggianti
    che travian sane discussioni:
    il troll è un mostro che le ingoia,
    le discussioni, nei nomi e cognomi

    che invadono lo spazio del commento,
    del tema dato, dell’argomentazione,
    per lasciar spazio all’altarino sacro
    del piccolo amor proprio di ciascuno,
    un mostro che sprigiona dal furore
    egomaniaco dell’Autore e del suo doppio,
    antitesi che vuole spodestarlo
    dal pulpito, dal trono, dalla cattedra:
    il troll è sintesi;

    non ci voleva un genio per capire
    che quell’accenno vago ad una fede
    fatto ad un certo punto dal Binaghi,
    fosse in riguardo ad un atteggiamento,
    rispetto al mito, molto differente,
    almeno quanto a impostazione,
    rispetto a quello ritenuto dall’autore
    plausibile e degno di fede:

    per chi ritiene esista un mondo trascendente
    la dimensione della nostra vita,
    lo scopo dello studio degli antichi
    miti e simboli, a parità di metodo
    (coi modi ritenuti ora corretti e correnti)
    non è il “sistema segnico fondante
    di una cultura”, ma un’eventuale
    verità mistica o religiosa
    che in quel sistema trovi testimonio;
    ciò rende Omero poco interessante
    per chi ritiene già quel tempo e luogo
    percorso da un suo proprio illuminismo.

    Da scettico non posso che sospendere
    il giudizio su tutta la questione;
    ma giova ricordare che anche l’ateismo
    è una professione di fede,
    e certe analisi del mito rischiano
    di somigliare a una vivisezione
    e uccidere ciò che analizzano
    privandolo di ciò che ne era essenza;

    a questo non si riesce a rimediare,
    riguarda ciò che non possiamo
    verificare in nessun modo;
    ed al Binaghi, un’unica risposta
    poteva essere ammissione e confine:
    la verità mistica del simbolo non interessa
    perchè non la si può sapere.

    Su ciò che c’è più sotto due parole:
    da chi trasuda l’accademia nel linguaggio
    aspetterei maggior prudenza ad indicare,
    specie ora che al governo abbiamo
    più professori che clericali, di gran lunga,
    senza citare ciò che l’accademia
    o tanti cori degli intellettuali
    ci han regalato negli anni passati:
    i chierici son chierici dovunque,
    vogliono aver ragione ad ogni costo
    e non importa quale sia il discorso.

  37. Forse è più elegante non consentire i commenti ai post. E se si censurano i commenti sarebbe bene censurare anche le proprie risposte ai commenti stessi.

  38. a questo punto: solidarietà a Ventre. Non ne abbisogna, ma fare di Binaghi un macellato del web e del confronto, no, non mi pare il caso. Tra l’altro non mi stanco di notare che, nel susseguirsi dei commenti, a quanto scrisse Ventre, con garbo e gentilezza, il Binaghi nulla replicò sulla materia. (considerazione generale: frenesia lupesca generata da una virgola, quand’invece, l’articolo lassù, in alto, è un viatico per una silenziosa e certo dura e preziosa riflessione: e per questo, come già Biondillo e Inglese, Ventre va ringraziato.)

  39. Il punto di vista di Binaghi su questo modo di gestire la discussione – posto che a qualcuno interessino l’argomento o/e il punto di vista di Binaghi – si può leggere qui.

  40. Si vede che non hai visto gli insulti di Binaghi

    già, non li abbiamo visti perché tu li hai cassati.
    Se quelli di binaghi erano insulti così vergognosi dovevi lasciarli, a suo perenne demerito, così invece è una cosa ridicola: solo i tuoi commenti che dialogano, sbracciandosi e incartandosi, con un fantasma, e pure facendogli dire quello che vuoi tu. I commenti di binaghi non so come fossero, ma ora sono violentemente visibili perché hanno occhi profondi che attraggono, come tutti i fantasmi. Spero per te che tu non abbia eliminato davvero i commenti (e che tu possa ripristinarli), perché è chiaro che così ognuno sarà autorizzato a pensare il peggio del peggio e tutto a vantaggio di binaghi.
    Non so da quanto tempo sei in rete, ma hai fatto uno dei gesti peggiori, e soprattutto stupidi, che possano essere fatti in rete.
    Tutti conosciamo binaghi e la sua intelligenza profonda e provocatoria, tutti abbiamo anche litigato con lui, ma nessuno si è mai permesso di cassarne i commenti in questa maniera.

  41. Ma cosa c’entrano gli insulti, posto che ci siano stati?
    La censura o la cancellazione delle idee, anche le più discutibili, non è ammessa proprio nei momenti di conflitto aspro, è in quei momenti che il principio censorio deve essere respinto, quando c’è disaccordo radicale magari espresso come può avvenire, con parole che ad alcuni paiono degli insulti, nel blog ci sono anche i lettori silenti, che hanno il diritto di leggere tutto o di non leggere nulla, ma certo non i riassuntini di uno dei due contendenti.
    La redazione, secondo me, dovrebbe ripubblicare i commenti cancellati.

  42. Ventre: Si vede che non hai visto gli insulti di Binaghi.

    Per forza, visto che li hai cancellati. Questo editing selettivo di un thread di commenti ci priva della possibilità di formarci un’opinione su quanto Binaghi avesse scritto: ora abbiamo soltanto la tua parola che fossero effettivamente degli insulti. Avendo letto Binaghi in passato, di insulti non mi sembra di averne mai visti, anche se non penso di avere mai condiviso un suo pensiero che fosse uno.

    Ventre: «Il problema del mito è un hic Rhodus hic salta per molta parte della cultura contemporanea.»

    Qui si potrebbe discutere sul senso di iniziare un pezzo con una citazione latina, il cui significato per altro c’entra con il resto dell’articolo come i cavoli a merenda, ma per lo meno cerca di scriverla corretta: hic Rhodus, hic saltus.

  43. pensieri oziosi hai ragione e hai torto, quella usata da ventre è la forma medievale che usa il verbo al posto del sostantivo, come è invece nella frase originaria greca di esopo. In questa forma la usa anche goethe e quindi la può usare anche ventre, anche se iniziare con una frase in latino senza fornirne la traduzione fa un po’ ridere (proprio come fa ridere il vanaglorioso della favola originaria) ma è del tutto legittimo. Nessuno glielo “casserebbe” mai.
    Ad ogni modo lui, il suo e-salto inguagliabile lo ha fatto :-)

  44. Che io sappia, non vi sono forme attestate medievali della forma con l’imperativo. Goethe adopera sì la forma con l’imperativo, ma del verbo danzare ed in tedesco, all’interno quindi di un processo di adattamento dell’espressione ai proprio fini poetici:

    Hier ist Rhodus! Tanze, du Wicht,
    Und der Gelegenheit schaff ein Gedicht!

  45. Willst du dich als Dichter beweisen,
    So musst* du nicht Helden noch Hirten preisen;
    Hier ist Rhodus! Tanze du Wicht,
    Und der Gelegenheit schaff’ ein Gedicht!

    (* in realtà non c’è la doppia s ma non ho trovato il corrispettivo)

    io non so il tedesco quindi non posso certo discutere a questi livelli, però vedo che nella traduzione dei meridiani (le cui traduzioni spesso sono quello che sono), di tutte le poesie di goethe, vol. I, tomo secondo a p 1261 traduce

    Se vuoi dimostrare d’esser poeta
    non devi celebrare eroi e pastori;
    qui è Rodi, qui salta briccone,
    e fa una poesia per l’occasione

    E nelle note a p. 1751 c’è scritto: […] è citata l’ingiunzione tratta dalle favole di Esopo (ma celebre nella sua formulazione in latino) all’atleta che si vantava di aver saltato, a Rodi, una grande misura (“Hic Rodhus, hic salta”)

  46. La traduzione e la nota commettono lo stesso errore di Ventre, al punto da adattare la traduzione al barbarismo. Tanzen non vuol dire ballare, danzare, non saltare — e questo a differenza del latino, dove salto, -as ha anche il significato di danzare.

  47. pensieri oziosi stai portando avanti una discussione “oziosa”, Ventre il Censore in questo caso NON ha sbagliato, anzi ha usato al forma più banale e più diffusa da secoli, quella usata da ogni azzeccagarbugli che si rispetti, e non solo.
    Sarebbe sempre meglio lasciar stare il latino, soprattutto se è usato a mo’ di incipit-manga-nello, ma non è un errore, dai …

  48. Negli anni settanta lo stato olandese ha massacrato chi s’è opposto all’idea di distruggere il quartiere ebraico di Amsterdam per farci passare la metropolitana. Una volta costruito il metrò, nei sottopassaggi hanno appeso gigantografie che rappresentavano quella contestazione, come dire: però sosteniamo che siete esistiti. Non ci sono tuttavia immagini dei poliziotti che picchiavano mirando alla testa, come poi gli stessi poliziotti hanno ammesso che quelli erano stati gli ordini.
    Ventre, quanto redattore di Nazione Indiana, riproducendo solo una sua scelta di testi di Binaghi compie il suo gesto, che è cosa che dalle mie parti chiamano tolleranza repressiva.

  49. Segnalo che anche Karl Marx in “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, scrive “Hic Rhodus hic salta” e anche la versione tedesca “Qui è la rosa, qui devi ballare”.

    Sapevo della citazione di Marx ma non ricordavo dove si trovasse , l’ho rintracciata nell’antologia che Feltrinelli gli ha dedicato nel 2007.

    Maria M.

  50. Georgia, non capisco quello che vuoi da me. La versione dell’espressione attestata da Erasmo giù giù fino a Hegel è “Hic Rhodus, hic saltus”. Tu mi dici che ho torto è che l’imperativo si trova in versioni medioevali ed in Goethe. Ti invito a trovare una fonte medievale anteriore ad Erasmo nella quale compaia “salta”: secondo me non esiste. In Goethe, invece l’espressione latina non si trova affatto. Ora mi vieni a dire che sono io che sto portando avanti una discussione “oziosa”. Mah. Eppoi, Ventre se vuole ha gli strumenti per difendersi da solo.

    Maria, infatti. Marx ha letto Hegel, ma non sembra aver capito bene quello Hegel diceva, prendendo un dichiarato gioco di parole di Hegel (“Mit weniger Veränderung würde jene Redensart lauten”) come effettiva traduzione, ed al contempo riporta “salta” al posto di “saltus”, come si trova invece in Hegel.

  51. Marx prende il gioco di parole, tra rodi e rosa, da Hegel( che l’aveva coniato nella sua Prefazione ai Lineamenti della filosofia del diritto, per polemizzare (forse) con la rosa nella croce (simbolo della società dei Rosacroce) di cui parla nello stessa prefazione.
    Ora che abbiamo ricostruito, passo passo il tragitto di una frase diventata banalmente idiomatica, possiamo anche essere soddisfatti, a me rimane una piccola curiosità, Hegel avrà fatto il gioco di parole con nell’orecchio la poesia di Goethe o viceversa? L’anno di pubblicazione vedo che è lo stesso, ma certo il tutto avrà circolato anche prima … forse avranno avuto un bloggino dove discutere e litigare.

  52. Georgia, non capisco quello che vuoi da me

    ma naturalmente niente, solo che, comunque ora tu la metta, ventre non ha *sbagliato*, ha solo usato una frase idiomatica, banalissima e usatissima senza andare alla fonte greca di esopo ;-)
    Invece HA SBAGLIATO ALLA GRANDE a censurare binaghi, rosa o non rosa, croce o non croce ;-)

  53. undadoaventifacce (al sesto, empirico, risultato) il 21 gennaio 2012 alle 23:35
    Il tuo commento è in attesa di moderazione.

    Per una paraculata detta
    (un ultimo intervento
    su “i seminatori d’odio”)
    eccomi smentito e smontato;

    è proprio un mondo insano
    questo dei letteronzoli
    paraccademici che s’incamicia
    a forza nel suo dire e dire

    -inutile parlar dei trolleggianti
    che travian sane discussioni:
    il troll è un mostro che le ingoia,
    le discussioni, nei nomi e cognomi

    che invadono lo spazio del commento,
    del tema dato, dell’argomentazione,
    per lasciar spazio all’altarino sacro
    del piccolo amor proprio di ciascuno,
    un mostro che sprigiona dal furore
    egomaniaco dell’Autore e del suo doppio,
    antitesi che vuole spodestarlo
    dal pulpito, dal trono, dalla cattedra:
    il troll è sintesi;

    non ci voleva un genio per capire
    che quell’accenno vago ad una fede
    fatto ad un certo punto dal Binaghi,
    fosse in riguardo ad un atteggiamento,
    rispetto al mito, molto differente,
    almeno quanto a impostazione,
    rispetto a quello ritenuto dall’autore
    plausibile e degno di fede:

    per chi ritiene esista un mondo trascendente
    la dimensione della nostra vita,
    lo scopo dello studio degli antichi
    miti e simboli, a parità di metodo
    (coi modi ritenuti ora corretti e correnti)
    non è il “sistema segnico fondante
    di una cultura”, ma un’eventuale
    verità mistica o religiosa
    che in quel sistema trovi testimonio;
    ciò rende Omero poco interessante
    per chi ritiene già quel tempo e luogo
    percorso da un suo proprio illuminismo.

    Da scettico non posso che sospendere
    il giudizio su tutta la questione;
    ma giova ricordare che anche l’ateismo
    è una professione di fede,
    e certe analisi del mito rischiano
    di somigliare a una vivisezione
    e uccidere ciò che analizzano
    privandolo di ciò che ne era essenza;

    a questo non si riesce a rimediare,
    riguarda ciò che non possiamo
    verificare in nessun modo;
    ed al Binaghi, un’unica risposta
    poteva essere ammissione e confine:
    la verità mistica del simbolo non interessa
    perchè non la si può sapere.

    Su ciò che c’è più sotto due parole:
    da chi trasuda l’accademia nel linguaggio
    aspetterei maggior prudenza ad indicare,
    specie ora che al governo abbiamo
    più professori che clericali, di gran lunga,
    senza citare ciò che l’accademia
    o tanti cori degli intellettuali
    ci han regalato negli anni passati:
    i chierici son chierici dovunque,
    vogliono aver ragione ad ogni costo
    e non importa quale sia il discorso.

  54. Quasi sicuramente i versi di Goethe sono anteriori allo scritto di Hegel, il quale, grande ammiratore di Goethe, probabilmente li aveva in mente quando scriveva la sua introduzione alla Filosofia del Diritto.

    Poi per il resto, ribadisco quanto scritto nel primo commento: se uno vuole iniziare un pezzo con una citazione latina, dovrebbe scriverla corretta: “hic Rhodus, hic saltus”. Il perpetuare un errore rimane pur sempre un errore, specialmente per uno che ha aspirazioni da filologo.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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