Considerazioni personali sulla lingua
[Il nuovo numero dei Quaderni speciali di Limes, dedicato alla Svizzera, contiene una sezione letteraria a cura di Camilla Miglio nella quale, accanto a testi di Adolf Muschg e Thomas Hürlimann, si possono leggere queste Considerazioni personali sulla lingua di Friedrich Dürrenmatt. M.S.]
Friedrich Dürrenmatt / traduzione di Michele Sisto
Io parlo in bernese e scrivo in tedesco. Non potrei vivere in Germania perché lì le persone parlano la lingua in cui scrivo, e non vivo in Svizzera tedesca perché lì le persone parlano la lingua che parlo anch’io. Vivo in Svizzera francese perché qui le persone non parlano né la lingua in cui scrivo né quella che parlo.
Queste frasi non sono del tutto vere. In Germania non si parla affatto un tedesco ideale, in Svizzera tedesca la lingua che parlo si parla solo nell’Emmental, e in Svizzera francese ci sono molti svizzeri tedeschi che parlano come parlo io, e soprattutto molti che parlano francese come io parlo francese quando parlo francese.
Con mia moglie e i miei figli parlo solo in bernese, e quando me ne sto coi miei amici svizzeri, per esempio con Frisch o con Bichsel, io parlo in bernese, Bichsel nel dialetto di Solothurn (quasi bernese) e Frisch in zurighese. Prima i miei figli rispondevano a Frisch in tedesco quando lui parlava con loro, perché credevano che lo zurighese fosse già tedesco, una battuta che né un tedesco né uno svizzero francese capisce. Se c’è anche un tedesco parliamo tutti in tedesco perché diamo per scontato che il tedesco non capisca lo svizzero tedesco, anche se ci sono molti tedeschi che lo capiscono, se non sono proprio del nord.
In tribunale i separatisti sfottevano il contadino al quale avevano bruciato la casa, che in quanto bernese parlava un cattivo francese, per dimostrare il loro più elevato livello culturale. Potrebbero sfottere anche me, anche il mio francese è cattivo. Sono troppo occupato con la mia lingua per migliorare ancora il mio francese. Poiché la maggior parte degli svizzeri francesi che conosco capiscono assai poco il tedesco e per niente il bernese, con loro devo parlare il mio cattivo francese. Così ormai frequento i miei amici romandi solo di rado.
Ogni cultura si fonda più su pregiudizi che su verità, anche quella svizzero-francese. Uno dei suoi pregiudizi consiste nella convinzione che gli svizzeri tedeschi parlino una lingua primitiva. Su questo pregiudizio si fonda la fantasia svizzero-francese di essere a un più elevato livello culturale. Personalmente ho un’alta considerazione degli svizzeri francesi, solo che non potrei sottoscrivere la frase Delémont è a un livello culturale più elevato rispetto a Burgdorf. In Europa i contadini possiedono ovunque una cultura simile, così gli insegnanti, e ciò che caratterizza gli agitatori politici sono le idee fisse, che sono assai simili tra loro; l’eventuale bagaglio d’istruzione o di cultura che essi pretendono di esibire è irrilevante.
Eppure il pregiudizio svizzero-francese è comprensibile. La lingua francese è il prodotto più alto della cultura francese, degna di ammirazione per la sua chiarezza, una lingua essenzialmente chiusa, e poiché il francese è un’opera della comunità, ciascuno si adopera per prendere parte a quest’opera d’arte comune e per reprimere i propri tratti linguistici individuali e provinciali.
Per il tedesco è diverso. Qui i dialetti sono rimasti più vitali e continuano ad agire vivacemente sul subconscio linguistico. Tra il tedesco che si parla e il tedesco che si scrive c’è più differenza. Manca un’accademia, manca una capitale culturale, mancano le province: senza un centro culturale non ha senso parlare di province. Il tedesco è più individuale del francese. Il tedesco è una lingua aperta.
Per molti aspetti il rapporto degli svizzeri tedeschi col tedesco è simile a quello degli olandesi col tedesco. Solo che l’olandese è diventato una lingua scritta, lo svizzero tedesco no. Quanto agli scrittori: lo scrittore svizzero tedesco resta nella tensione di colui che parla diversamente da come scrive. Alla lingua madre si affianca, per così dire, una «lingua padre». In quanto lingua madre lo svizzero tedesco è la lingua dei suoi sentimenti, in quanto «lingua padre» il tedesco è la lingua della sua ragione, della sua volontà, della sua avventura. Egli l’affronta, la lingua che scrive. Ma affronta una lingua che in virtù dei suoi dialetti è maggiormente plasmabile del francese. Al francese ci si deve adeguare, al tedesco si può dare forma.
Questa formulazione è troppo netta. Anche il francese ammette soluzioni individuali. Ciò che intendo si può chiarire con l’esempio di Ramuz e Gotthelf: il francese di Ramuz, per come io me lo immagino, è una rete di lingua francese perfettamente lavorata, nella quale egli cattura la particolarità del dialetto del Vaud; nella lingua di Gotthelf il tedesco e il bernese sono fusi in un’unica lega. La lingua barocca di Gotthelf è nata allo stesso modo della traduzione della Bibbia fatta da Lutero: Gotthelf il suo tedesco l’ha trovato, Ramuz il suo francese ce l’aveva.
Anch’io, ogni giorno, devo trovare il mio tedesco.
Ogni giorno devo abbandonare la lingua che parlo per trovare una lingua che non so parlare, perché quando parlo tedesco lo parlo con accento bernese, così come un tedesco di Vienna parla con accento viennese o un tedesco di Monaco con accento bavarese. Io parlo lentamente. Sono cresciuto in campagna, e anche i contadini parlano lentamente. Il mio accento non mi dà fastidio. Sono in buona compagnia. Quando Schiller leggeva ad alta voce gli attori lasciavano la sala per le risate, tanto era forte il suo accento svevo.
Ci sono svizzeri che si sforzano di parlare un tedesco puro. Amano allora parlare un tedesco troppo bello. È come se, mentre parlano, si compiacessero di come parlano.
Anche alcuni svizzeri francesi parlano un francese troppo bello.
Chi parla una lingua troppo bella ha un che di provinciale.
La lingua che si parla è spontanea.
La lingua che si scrive sembra spontanea.
In questo ‘sembra’ sta tutto il lavoro dello scrittore.
Ci sono critici che mi rimproverano perché nel mio tedesco si sentirebbe il bernese. Io spero che si senta. Io scrivo un tedesco che è cresciuto sul terreno del bernese. Sono felice se gli attori amano il mio tedesco.
Io però amo il bernese, una lingua che per molti aspetti è superiore al tedesco. È la mia lingua madre e la amo anche perché una madre va amata. Un figlio vede sua madre con un altro sguardo: spesso la sua bellezza si manifesta soltanto a lui.
Il francese lo si sa, il tedesco si cerca di saperlo.
Se sapessi il tedesco, scriverei in bernese.
Nell’esporre queste considerazioni personali, mi pare tuttavia di aver detto cose che valgono in generale: quale scrittore al mondo vive dove si parla la lingua che scrive? La lingua che scrive parla solo attraverso le sue opere.
Friedrich Dürrenmatt
da: Limes Qs 3/2011 – sezione L’insostenibile sicurezza della neutralità, a cura di Camilla Miglio
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Derrida sosteneva, ovviamente, che non si possiede una lingua, tanto meno una lingua materna,perché è la lingua in generale a possederci.
E tuttavia quello strano fantasma che è la letteratura è, appunto, tutto qui:
La lingua che si parla è spontanea.
La lingua che si scrive sembra spontanea.
In questo ‘sembra’ sta tutto il lavoro dello scrittore.
su wikipedia ho letto che fino al Pan-germanesimo Hitleriano in svizzera i dialetti si stessero gradualmente perdendo in favore di un tedesco piu’ o meno Hochdeutsch. La rinascita dei dialetti sarebbe stata quindi un tentativo di tarpare le ali in partenza a chi avrebbe potuto ambire ad annessioni et similia.
Se c’e’ qualcuno che puo’ confermare o smentire batta un colpo. Grazie
Più o meno. Diciamo che intorno al dialetto si è andato focalizzando un sentimento di identità nazionale in chiara reazione e contrapposizione al pangermanesimo. Ciò ha effettivamente determinato a partire dagli anni Trenta un rovesciamento del lento declino nell’uso del dialetto.
Gli ultimi dieci anni hanno visto un aumento dell’immigrazione tedesca in Isvizzera, e lo Schwiizertüütsch non ha mai goduto di così buona salute.
fa pensare molto al “Kafka” di Deleuze-Guattari, l’idea di far balbettare la propria lingua, di essere stranieri nella propria lingua, il divenire-minore come emissione di singolarità. bello.