L’arte è una bestialità. Una lettura de “I musicanti di Brema”
di Azzurra D’Agostino
(Per il bicentenario della prima pubblicazione delle fiabe dei fratelli Grimm, ho chiesto ad alcune scrittrici e scrittori un pezzo sulla loro fiaba preferita, o quella che ricordano meglio, che hanno letto e ascoltato da piccoli oppure scoperto o riscoperto da adulti. Li pubblicherò con cadenza spero settimanale, iniziando proprio con una storia dei due fratelli dell’Assia. f.m.)
Meno di cinquemila anime. Una chiesa parrocchiale. Un convento dei frati. Una piazza. Intorno, quasi dovunque, boschi. Qui è dove sono nata, un paese imborghesito della vecchia Emilia che fu contadina. Nella piazza, vicino a quell’edificio che viene chiamato “Torre del Fascio”, sta una biblioteca. Negli anni ’80 era gestita, o meglio presidiata, da un signore che a noi bambini faceva un po’ paura. Burbero, serio, sembrava che non fosse per niente contento quando entravi in biblioteca, come se lo distogliessi da qualcosa di molto importante che stava facendo. Non c’era, ho scoperto allora, una vera e propria catalogazione dei volumi. Anni luce dai software di prestito interbibliotecario venuti dopo. Il bibliotecario aveva un suo ordine, piuttosto creativo, e una sua modalità di catalogazione – ai più inesplicabile. In sostanza solo lui sapeva dove stavano i libri, quali erano presenti, quali erano in prestito, quali nel sottoscala degli uffici del Comune. Compilava delle piccole schede, come si faceva allora, con una BIC senza cappuccio, in una grafia chiara e minuta.
Mia madre mi aveva spiegato cos’è una biblioteca e siccome mi piaceva leggere mi aveva accompagnato e mi era stato insegnato come chiedere in prestito i libri. Mi sembrò una grande scoperta e una incredibile invenzione. Il bibliotecario mi pareva un essere con un grande potere e che meritava tutto il mio reverenziale rispetto, sebbene nei primi tempi dovessi vincere la mia repulsione nell’avvicinarlo, visto l’evidente disprezzo che doveva avere per me in quanto essere umano e, per di più, infante.
Scartabellava in una cassettina piena di schede, estraeva la mia e, quando noleggiavo o restituivo un libro, si metteva a scrivere. Anni dopo avrei riletto quella stessa scheda, grazie a un amico che fu mandato a fare servizio civile in biblioteca (quando c’era ancora la leva obbligatoria, ulteriore retaggio di un altro secolo) e mi sarei stupita di non ricordare che pochissimi dei molti libri letti.
Quello che succede nell’infanzia è qualcosa che rimane e che continua a lavorare dentro per tutta la vita. Ti influenza, ti condiziona, ti tiene sotto scacco – perché da grande quasi nulla della magicità del mondo ti rimane, ti restano solo i gusci delle cose, diventati un groviglio inesplicabile, e ciò che da piccolo ti era amabilmente oscuro diventa un modo di affrontare le cose in cui cerchi riparo. Un riparo spesso fragile, che rende gli accadimenti della tua origine come delle specie di premonizioni.
Oggi più che mai, quando penso agli artisti che amo e al destino generale dell’arte, non posso che sentirmi vicina agli spelacchiati e negletti animali da cui rimasi tanto affascinata la prima volta che lessi “I musicanti di Brema”, quando trovai le illustrazioni del libro preso in prestito alla spartana biblioteca di Porretta così diverse dalle colorate protagoniste delle serie giapponesi proposte da “Bim Bum Bam”. “Pìolo” Bonolis poco più che ventenne passava con noi i pomeriggi insieme a un pupazzo rosa shocking, presentandoci saghe di eroine orfane o comunque piene di drammi – “Georgie”, “Kiss Me Lycia”, “Lovely Sara” e tutte le altre – mentre in apertura Cristina D’Avena cantava garrula e rampante sigle a cui seguivano, dopo pochi minuti, pubblicità di prodotti come “Crystal Ball” e “Dolce forno”.
I disegni dei “Musicanti” invece erano in bianco e nero, direi inchiostrati a china, ombreggiati in una fitta texture che era spaventosa quanto il folto del bosco minaccioso in cui raminghi andavano i quattro disgraziati protagonisti, dei cui destini tremante e solitaria mi occupavo.
Leggere era diverso dal guardare i cartoni giapponesi, che pure ho molto amato. Leggere era come respirare, nel senso proprio fisico di sentire che qualcosa entra dentro di te e va in posti che tutto sommato non conosci. Forse la lentezza della lettura, o il lasciarti grande spazio per creare tu stesso tutto ciò che le parole non dicono, ha fatto sì che le fiabe mi risultassero sempre molto più temibili e paurose del cartone più violento.
In particolare, i “Musicanti” mi fecero grande impressione e hanno probabilmente condizionato la mia affezione estetica per i cosiddetti loser. La mia solidale simpatia per Charlie Brown e il Monty di “Robotman” prima, e per Lebowski o Barney Panofski poi, credo abbia qualcosa a che fare con questa fiaba.
A rileggerla oggi, fa davvero impressione per le corrispondenze che ha con buona parte delle questioni attorno alle quali mi arrovello da anni.
Il tutto comincia con un asino che, dopo essere stato sfruttato per una vita, scappa dal suo padrone perché si rende conto che questi vuole farlo fuori visto che non è più in grado di lavorare tanto come prima. E già qui si potrebbe dare il via a infinite dissertazioni sociopolitiche e umanitarie. Ma non amo più di tanto questo genere di discorsi, in cui si rischia sempre – se non si è dei veri esperti, o dei pensatori raffinati, cosa che non sono – di fare la fine del personaggio di Jodie Foster in “Carnage”. Ti metti nei panni del poveraccio e finisci a parlare del terzo mondo, una cosa che non si può sentire.
Ma cosa pensa di fare l’asino, giunto a tale drammatica svolta della sua vita?
Nientepopodimeno che diventare un musicista. Che faccio, si dice, ora che non ho casa, né lavoro, né più niente? Vado a Brema, così posso entrare nella banda municipale.
La naturalezza e l’ingenuità con cui l’asino prende questa ferma decisione – mettendosi direttamente in marcia per Brema – è la fede nell’utopia propria dell’artista, di colui che non ha nulla da perdere pur perdendo tutto. Negletto per negletto, mendicante per mendicante, l’asino sceglie la banda municipale, certo che lo accoglierà. Non si fa domande, semplicemente prende e va, spedito, verso la banda intesa come una comunità che non esclude a priori qualcuno perché non è vincente, fatto di un’altra stoffa, o incapace di fare qualunque altra cosa all’infuori di quella.
Si potrebbe obiettare, a questo punto, che troppi, oggi, chiedono asilo nella banda, divenuta ormai refugium peccatorum di troppi sedicenti artisti. La questione è mal posta: entrare nella banda non significa poi poterci restare; talmente è dura la sua legge, che chi è un impostore se ne esce da sé sotto il peso della storia. È il piglio dell’asino, la sua risposta alla “chiamata” direbbe quello, il suo agire convinto che quella è la sua meta, a essere interessante. Una meta su cui non spreca parole di desiderio, dubbio, o sogno: non “vorrebbe” entrare nella banda municipale. Lui ci va direttamente, perché quello è l’unico destino che riesce a pensare per sé.
E quindi eccolo per strada, verso Brema, dove mano a mano incontrerà altri disperati – che diventeranno suoi compagni di strada.
È da notare come per tutti costoro (l’asino, il cane, il gatto, il gallo) andare o no a Brema è una questione di vita o di morte. Gli uomini con cui questi animali vivevano li hanno tutti condannati al peggio: li vogliono accoppare, far fuori, cucinare magari. E questo perché loro, gli animali, sono adesso inutili. Non sono in grado di collaborare al procedere del sistema inteso come meccanismo produttivo. Quale più precisa metafora dell’artista nella società?
L’unico, è il gallo, che sarebbe buono da mangiare: ma questo canta e canta, strepita di protesta, non si piega all’idea di andare in pasto ai padroni. E alla fine si aggrega alla compagnia, dove anche i cliché su chi è amico e nemico, su cosa è vero o falso, sono rotti. Il cane e il gatto, con naturalezza, si sono uniti all’asino, che accoglie il gallo con lo stesso entusiasmo del naufrago: “vieni piuttosto con noi, andiamo a Brema; qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto; tu hai una bella voce e, se faremo della musica tutti insieme, sarà una bellezza!”. Alla morte a cui condanna la società, si accosta e in un certo senso contrappone la bellezza, e via che vanno i quattro poveracci insieme.
La notte nel bosco non è semplice. Il bosco è tutto un fruscio, tutto una minaccia, un protendersi di rami e di presagi. Si accoccolano insieme, ma la paura è tanta. Dal ramo dell’albero il gallo vede in lontananza una luce.
La me bambina che leggeva, pensava che finalmente avrebbero trovato un riparo, una svolta nel loro destino tanto sfortunato, una casetta deliziosa come quella della “dolce signora Minù”.
Ma chi ti trovano, spiando dalla finestra dentro la casupola che infine raggiungono (bellissima l’illustrazione degli animali uno sopra l’altro, in una piramide instabile e metamorfica)? Un bel covo di briganti che gozzovigliano. Amaro e pieno di insidie il destino di chi è in cammino.
Il desiderio di un posto dove stare, dove mangiare, fa vincere loro la paura. Uniti, traballanti ma collaborativi, riescono infine a mettere in fuga i banditi, venendo intesi come qualcosa di mostruoso e sconosciuto, forse ultraterreno (di nuovo, sembrerebbe l’effetto che fa l’artista a quelli del suo tempo). L’unico bandito che viene mandato indietro a vedere cosa è in realtà successo, pur ricevendo i graffi di un gatto, i morsi di un cane, i calci di un asino, riferirà che la casa è posseduta da qualcuno di molto potente – fatto di streghe, uomini, mostri e persino un giudice (così il bandito interpreta il canto del gallo, come le parole di un tribunale che lo accusano).
I musicanti non raggiungono mai Brema. Restano e abitano il piccolo spazio che si sono conquistati, e pur senza mai suonare nella banda municipale di Brema sono musicanti – perché hanno intravisto un altro mondo, di canto e musica, e scelto di mettersi in cammino per raggiungerlo, pur non raggiungendolo mai. Falliscono, in questo. E lo fanno meglio di tutti, per usare le parole di Beckett, come i veri artisti.
*****
Immagini di Arthur Rackham e George Cruikshank.
[1]Die Bremer Stadtmusikanten, fiaba raccolta dai Fratelli Grimm
che bella rie-vocazione questa di Azzurra che bella scrittura appetitosa e che distrae il tempo corrente e lo catapulta diamante come lettura cardine d’ infanzia che i genitori dovrebbero prendere per invitare i figli alla vita “senza ma voltarsi indietro”. da parte mia lunga vita all’ oscena violenza compresa e maestra dei Grimm.
un saluto
paola
*ri-evocazione. il suo senso. mi scuso
bella parafrasi di una bella fiaba. Ricordo, a tutto onore dei fratelli Grimm, la loro fiera posizione antiautoritaria ai tempi dei sette di Göttingen.
Una lettura intelligente e candida al tempo stesso, per come intreccia autobio(mito)grafia, lampi dal presente, interrogazione laica della condizione di ‘musicante’ e allegoria non infatuata dell’artista come miracoloso marginale. E poi irresistibili certi guizzi ironici (per es.: “Ti metti nei panni del poveraccio e finisci a parlare del terzo mondo, una cosa che non si può sentire”:)
Ma l’implicazione importante mi pare questa: forse più che un’arte posseduta ne vale una consapevolmente situata…
materiale per pensare, dunque
grazie Azzurra, grande idea Francesca
rx
ps: i musicanti non arrivano mai a Brema, ma Brema è arrivata a loro: la città vive immersa nell’aura della fiaba; ne ha fatto, manco a dirlo, ampio commercio, ma con uno stile nordico che – mi stupì tanto – è sobrio e giocoso insieme. forse è per questo che riescono a fare il festival di poesia concreta, che fuori da qualche negozio di giocattoli trovi scritto “questo non è un museo”, mentre nel (favoloso sì!) museo d’arte contemporanea ti diverti come una bambina…
sì, bellissima rilettura, proprio perché – come nota renata morresi – estremamente consapevole. un grande pregio della scrittura di azzurra, fra i tanti che possiede, è propria questa capacità di collegare il presente alla formazione, il personale e il quadro di un’epoca. I quattro animali “rifiutati” sono così di un’attualità straordinaria, riecheggiano i loser della masscult, parlano a ognuno di noi e alla nostra precarietà, e ci rispiegano persino beckett
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