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Vita complicata di un sopravvissuto

di Mauro Baldrati

L’altra sera al gruppo di psicodramma il sopravvissuto che è in me ha fatto una full immersion molto interessante nella cultura maggiore [qui ] italiana alla moda.

Toccava a Lucia, di Trento, salire sul palcoscenico per il lavoro, cioè la rappresentazione del suo psicodramma. Lucia è una donna di circa quarant’anni che lavora nel servizio pubblico della sanità. Stava per descrivere – ma soprattutto per impersonare, interpretare, rivivere, com’è nella natura dello psicodramma – il suo cattivo rapporto coi genitori, in particolare con la madre. Si prospettava un lavoro impegnativo, sofferto. Però il conduttore prima di procedere le ha chiesto una premessa: “Vorrei che raccontassi un episodio positivo, almeno uno, della tua settimana.” Lo fa spesso, quando la cappa sta per calare su tutti noi. Sembra un luogo comune, ma è utile anche l’allenamento per imparare, o per accettare, il pensiero positivo. Lucia ci ha pensato un attimo, poi ha sorriso e ha detto: “sì, un episodio positivo, bellissimo, effettivamente ce l’ho.” Tutti noi del pubblico aspettavamo, con curiosità e interesse, perché avvertivamo la sua tensione e il suo entusiasmo. “Sono andata al concerto di Jovanotti a Milano. E’ venuto anche mio marito e ho portato i bambini (Lucia ha due figli maschi piccoli ndr). E’ stato stupendo, meraviglioso”. Esprimeva, anche fisicamente, tutte le emozioni che il ricordo del concerto, e l’atto di parlarne, le ispiravano. “Ho ballato tutta la sera, è stata una cascata di energia pura, due ore fantastiche. I bambini si sono divertiti un sacco, eravamo abbracciati e cantavamo, eravamo una cosa sola. Persino mio marito ha dovuto ammettere che gli piaceva.” Lucia ha già descritto, in un lavoro precedente, suo marito come “uno stoccafisso”, freddo, impassibile, che non si smuove di fronte a nulla e a nessuno. Mi ha ricordato il padre di Marcel nella Recherche, il dottore, nei rari accenni in cui compare non solo come “voce” nei dialoghi: una creatura imperturbabile, distante, una statua di marmo. Un essere totalmente anaffettivo. Il problema di Lucia è che ha cercato una coazione a ripetere col suo vissuto. Infatti varie volte ha descritto i suoi genitori come persone gelide, incapaci di dimostrare sentimenti di amore o di affetto. Per cui la sua scelta del partner si è indirizzata verso un uomo che in qualche modo la riportasse a quei tempi, o quanto meno non spezzasse il filo fantasmagorico col suo passato, l’unico che ha conosciuto quando l’età primordiale ancora non le permetteva di scoprire il mondo. E ha scelto un uomo che, in qualche modo, le richiamasse suo padre. Ovviamente questo è un procedimento psicologico che tutti noi, più o meno, utilizziamo.

Lucia ha continuato a descrivere con calore l’esperienza del concerto di Jovanotti, un evento “indimenticabile”. Quasi tutte le ragazze e le donne del pubblico condividevano in pieno questo entusiasmo, annuivano convinte, sorridenti, dicevano che Jovanotti è “un poeta” (A te è una poesia “meravigliosa”) che scrive canzoni “stupende”, che comunica “energia”, e ne citavano diverse. Noi del pubblico maschile invece eravamo a ranghi ridotti: oltre a me c’era un altro sopravvissuto che annaspa e boccheggia per stare a galla, e un ragazzo che segue certe cose new age degli indiani americani, i riti (tipo “la capanna del sudore”), i totem, la musica, la religione, e di Jovanotti non sanno nulla. L’altro ragazzo (a casa ammalato) è un tipo alternativo, indifferente a tutti i cantautori italiani. Io pensavo: vuoi vedere che queste ragazze leggono Fabio Volo? Non so perché, ma ho fatto un collegamento tra Jovanotti e Fabio Volo. Vuoi vedere, ho pensato, che mi trovo in piena full immersion nella cultura maggiore dura e pura?

Dopo il lavoro di Lucia, che è stato davvero coinvolgente, importante, angoscioso, abbiamo fatto una sosta per mangiare uno strudel e uno zelten che una ragazza aveva portato per il suo compleanno. Siamo passati nell’altra stanza, quella col tavolo lungo, e ci siamo seduti. Di fianco a me, sulla sinistra, c’era l’osservatrice, cioè la ragazza che non partecipa in maniera attiva ma prende appunti, evidenzia aspetti interessanti dei lavori. E’ una VT (ventenne-trentenne) laureata psicologa e specializzanda nella scuola post-universitaria che organizza i nostri psicodrammi. E’ una in gamba, lavora in un carcere come assistente psicologica per i detenuti. Non so perché, oppure non ricordo come è nato il discorso, fatto sta che ha detto: “Fabio Volo? Io lo amo. Ho letto tutti i suoi libri, è fantastico, è troppo simpatico, lo adoro.” Me lo aspettavo, come ho detto, ma non me lo aspettavo veramente. Diciamo che lo temevo, ma non solo. In realtà lo desideravo. Per avere una conferma. Per permettere al sopravvissuto che è in  me di chiudersi a riccio nell’atteggiamento di tipo inkazzoso-depressivo: ecco, vedete? Questa è la cultura maggiore, io non ne faccio parte, io sono altrove. Perché io sono altro. Che suona soprattutto: perché io sono migliore.

Le ho chiesto cosa ci trova nel libri di Fabio Volo (a mio modo di vedere intrecciati col personaggio, ma sia lei sia la ragazza che sedeva alla mia destra, che si è unita all’entusiasmo per Fabio Volo, hanno negato recisamente). Lei ha detto: “Mi piace perché dice le cose. Le dice davvero, senza fronzoli, con semplicità.” La ragazza alla mia destra ha confermato, ha detto: “quando fa una certa cosa te la fa sentire, la vedi, la vivi.” Hanno citato i libri che avevano letto, e hanno detto alcune cose ancora, ma non molte, perché nonostante le mie insistenze non sapevano spiegare il motivo del loro amore per Fabio Volo. Non serviva molto altro in realtà. “Dice le cose con semplicità” mi è sembrata una spiegazione ottima, e anche profonda. In Italia c’è bisogno di semplicità, di letteratura popolare, probabilmente Fabio Volo riempie un vuoto. Ovviamente era il sopravvissuto che è in me a parlare, perché non ho mai letto un libro di Fabio Volo in vita mia. Spiegavo, analizzavo, e giudicavo senza conoscere l’argomento.

Fatto sta che a un certo punto ho chiesto: “Per dire, vi piace anche Moccia?”. Volevo capire se il collegamento Jovanotti-Fabio Volo poteva essere allargato anche a Moccia. Le due ragazze sono immediatamente insorte e mi hanno detto, con enfasi e occhiatacce che significavano: ma per ci prendi?: “scherzi? Fabio Volo non c’entra nulla col trash di Moccia! Secondo me quello là non ha neanche tutte le rotelle a posto, perché uno di 50 anni che scrive quelle robe lì ha dei problemi.” Nessun collegamento quindi. Ci sono differenze nette nella cultura maggiore. Segmenti. Segni differenti. Volevo andare avanti, approfondire, citare altri scrittori, per esempio la Mazzantini e l’Avallone, e altri cantautori, perché ero sicuro che oltre a Jovanotti come minimo amavano Ligabue, e certamente Sting, o anche qualcuno di quei ragazzi di X-Factor, ma il conduttore è apparso dal nulla e ci ha richiamati.

Toccava alla ragazza che sedeva alla mia destra lavorare, e già si intuiva il suo sbocco emotivo, il suo dolore. La morte dei suoi genitori le ha lasciato un voto straziante e irrisolto, e quella riconciliazione che è necessaria a tutti noi per trovare un po’ di pace, per sfuggire alla morsa delle nostre solitudini interiori, per lei è più difficile. E mentre già iniziava a singhiozzare, e si apprestava a chiamare un ausiliario che avrebbe impersonato suo padre (e sarei stato io, perché mi chiama spesso), pensavo che volevo leggere almeno un libro di Fabio Volo. Ne abbiamo uno in casa, l’ha portato un’amica di mia moglie, una signora di circa cinquant’anni, perché Volo non lo leggono solo le ragazze giovani; è un fenomeno trasversale, lo leggono ragazze, donne di varie età (uomini, non saprei), e vorrei capire di cosa stavamo parlando. Vorrei capire, pensavo tra me, “quali sono i nuovi codici della letteratura maggiore, trovare pregi e difetti, imparare dove c’è da imparare.”

Questa, almeno, era la giustificazione ufficiale. Su quella più profonda e misteriosa, che ha a che fare con la sindrome del sopravvissuto cui parlavo, non ero in quel momento in condizioni di bucare lo smalto protettivo che la ricopriva.

Intanto, mentre mi alzavo tra gli applausi rituali che accompagnano sempre l’entrata in scena di un ausiliario, pensavo al mondo perduto del blues; pensavo alle ragazze innamorate di Jovanotti e di Fabio Volo, e mi è venuta in mente una frase bellissima della scrittrice ebrea Irène Némirovsky, posta sulla pagina bianca del romanzo Les chiens et les loups come un epitaffio, dopo una delle sue tirate lombrosiane antisemite: “Sono questi i miei; questa è la mia famiglia”.

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10 Commenti

  1. Mauro ti prego di tenermi informata, vorrei sapere se poi Fabio volo lo leggerai veramente e cosa ne penserai.
    Io, come te, l’ho sempre snobbato ma una amica che stimo molto me ne ha parlato bene. Anche lei sostiene che “dice le cose” in maniera semplice ma profonda. Io non capisco cosa significhi “dire le cose” così come non ho mai saputo dove erano “i locali giusti” o cose simili. Sono un pochino scettica ma, per fortuna, ancora curiosa.
    Grazie
    anna

  2. Ah, dimenticavo la motivazione: perché dice le cose, con semplicità :-)
    (no, in realtà, è assai complesso)

  3. un collega di lavoro (agronomico) col quale parlavo oggi, grande lettore e lettore di NI, commentando questo testo, che gli è piaciuto molto, mi ha detto “sì, ma comunque è sempre mille volte meglio che la gente legga quelle cose là che non legga niente, e comunque molti passeranno poi a cose migliori e più esigenti, io stesso ho cominciato con testi che non ora non leggerei mai; o comunque, alcuni faranno questo salto”
    verissimo, secondo me; io stesso, che vengo da una famiglia di lettori voraci ma molto disparati (dai diari di guerra destreggianti(Longanesi) che leggeva mio padre al Pavese/Bassani/Hemingway di mia sorella, alla Fallaci di mia madre … ), sono passato per testi che adesso non leggerei mai; il dramma è che da noi nessuno li aiuta, questi benedetti lettori, che certo stupidi non sono, ad uscire dal conformismo più massificato (unico, nel panorama letterario dei paesi europei sviluppati): non la scuola, non le recensioni, non le case editrici, non le librerie …

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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