Hesse o non Hesse – Sergio Atzeni
In questi giorni di trasferta cagliaritana per un servizio su Sergio Atzeni che sto realizzando per la rivista diretta da Riccardo De Gennaro, Reportage, ho potuto scoprire, grazie a Michela Calledda una pubblicazione che non conoscevo. La reputo un’opera fondamentale per seguire il percorso di uno dei migliori narratori italiani, ma forse dovrei dire intellettuali, scomparso un’Italia fa. Così ho chiesto a Giuseppe Podda e Giancarlo Porcu delle Edizioni Il Maestrale di pubblicare per Nazione Indiana uno degli articoli raccolti. Perché Herman Hesse? E perché Sergio Atzeni? effeffe
393. Hesse: perché parla alle nuove generazioni (pubblicato su “Il Giorno”,11 Febbraio 1990)
[Herman Hesse, Knulp, Marsilio; Il bicchiere scrivente, Marcos y Marcos; Francesco d’Assisi, Guanda]
di
Sergio Atzeni
Cos’è stato quell’agitarsi protestando della gioventù d’Occidente, nella seconda metà degli anni Sessanta e nella prima dei Settanta, ormai volgarmente e imprecisamente definito Sessantotto? In Italia si è affermata una interpretazione: scopo del movimento sarebbe stata la palingenesi sociale, la fuoriuscita del capitalismo, l’ingresso del comunismo… Interpretazione sinistra più che di sinistra, da molti contestata, ma ancor oggi detta e difesa. In parte falsa, se riferita soltanto al caso italiano, ancora più falsa se lo sguardo s’allunga fino in Francia e Germania, bugiarda e fuorviante se applicata alla realtà di un movimento diffuso in tutto l’Occidente, magmatico e contraddittorio.
In Italia una delle molle che spinsero gli studenti ad agire fu la convinzione diffusa che la scuola nazionale fosse preeinsteiniana, prequantistica, ignorante delle nuove concezioni storiografiche come dell’esistenza del computer e dell’etnologia… Gli studenti non seppero proporre modelli alternativi (o la voce di chi proponeva fu sopraffatta da quella dei demagoghi); la protesta divenne presto fine a se stessa, sterile; nel ristagno conseguente si inserirono cattivi maestri produttori di slogan stupidi («la scuola borghese si abbatte e non si cambia»), editori di stirpe altoborghese torturati da sensi di colpa e disposti a pubblicare qualunque testo purché esotico e “rivoluzionario”, aspiranti autocrati mediocri e frustrati.
È finita come sappiamo. Qui da noi Marx, Lenin, Stalin, Mao furono più nominati che studiati, e altrove quasi del tutto ignorati. Altrove, e in parte anche nello stivale, altri erano gli argomenti, altri i maestri. Paura della catastrofe nucleare e del degrado ambientale, bisogno di recuperare l’antica, “animale”, armonia corporale (il rock, danza liberatoria delle nuove tribù); rifiuto d’esser ridotti a numeri appendici di macchine; desiderio di sentirsi protagonisti del proprio destino e soggetti di storia; non accettazione di concezioni che riducono la vita a sola materia, pura biologia; rivolta contro il decadimento, l’irrigidimento in formalismi della spiritualità collettiva, contro l’insopportabile “assenza di Dio”, contro la prevalenza del denaro e la dimenticanza dell’anima – in questo paese la parola anima è stata bandita, per anni…
I maestri: mistici indotibetani o messicani, poeti e narratori della beat-generation (Ginsberg, Corso, Kerouac), menestrelli profetici (Dylan, Baez), rockers “indemoniati” (Beatles, Rolling Stones, Grateful Dead…), poeti francesi (Villon, Baudelaire, Apollinaire, Rimbaud… a quel tempo pensavo che sulle bandiere che innalzavano avrebbe dovuto campeggiare un verso del veggente di Charleville: Les voix reconstituées; l’éveil fraternel de toutes les énergies chorales et orchestrales et leurs applications instantanées; l’occasion, unique, de dégager nos sens!), pittori d’ogni tempo e Paese (e in specie fiamminghi, Bruegel, Bosch, Van Gogh, e contemporanei americani, Warhol, Liechtenstein, ma anche Matisse, Picasso…), film e registi (qualunque elenco sarebbe troppo zeppo, basti dire che ebbero un ruolo ispiratore anche alcuni nostri, come Leone, Fellini, Pontecorvo, Antonioni…) e poi Sartre (sia l’esistenzialista, che, purtroppo, il maoista), Marcuse, Russell…
Fra i tanti citati e gli ancor più non citati, a parte Dylan e i rockers, nessuno fu tanto amato ed ebbe tanta udienza quanto Hermann Hesse. Le migliaia (decine, centinaia di migliaia…) di giovani che cercavano la propria identità, un sentiero personale nel mondo, purificazione spirituale, libertà di pensiero e d’azione… e partivano per l’India, fondavano traballanti comuni agricole e urbane, scrivevano poesie ingenue e rabbiose, strimpellavano chitarre scordate, scoprivano l’ebbrezza di danzare tutti assieme per notti e giorni in accampamenti grandi come metropoli, chiedevano e offrivano sentimenti profondi, amavano con gioia e disperazione, cercavano estasi mistiche per la via larga degli allucinogeni o per quella stretta della roccia o dei digiuni, tutti costoro, stragrande maggioranza non fanatica del movimento, vagavano per il pianeta con in tasca una copia del Siddharta, e appena potevano si fermavano a leggere Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, Il gioco delle perle di vetro.
A vent’anni di distanza noto con poco stupore i piccoli Lenin di un tempo, i «mai più senza fucile», gli operaisti senza calli alle mani, diventati carrieristi rampanti, cinici portaborse di potenti, funzionari di partito bramanti potere. E se penso invece a esempi di quegli altri, gli “hessiani”, mi viene in mente Gian Piero Motti che, mentre il terrorismo muoveva i primi passi accompagnato da tante complicità e colpevoli indifferenze, affrontava pareti di roccia sempre più ardue, in cordata con Guido Rossa (i giovani del movimento Novanta l’hanno mai sentito nominare?), e scriveva articoli “deliranti”: raccontava I falliti (parlava di sé non di altri), o si limitava a proporre un apologo del Budda, pescato, per colmo d’ironia, fra le poesie di Brecht, e lo commentava con poche parole («Corri, corri, lettore. Continua a correre, a discutere, a essere scettico, agnostico, dialettico. Corri, anche tu un giorno troverai il tuo specchio…») e con una pagina tutta bianca, fatto salvo l’angolino in alto a destra, dove aveva messo la riproduzione dell’“appeso” dei tarocchi…
Chi conosce la storia fino in fondo sa che i matti angelici quando fanno del male lo fanno soltanto a se stessi.
Hesse resiste, dura nel tempo, mentre il libretto rosso di Mao, chi lo legge più? In questi giorni sono apparse tre nuove edizioni di libri “minori” dello scrittore, nato nel 1877 nel Württemberg e morto nel 1962 in Canton Ticino.
Knulp (traduzione di Mario Specchio, editore Marsilio, 18.000) narra la storia di un vagabondo dolce, amabile, ben educato, pulito e gioioso, in tre episodi; il primo e il terzo son deliziosi, le idealità del protagonista Knulp sono affidate alla descrizione del suo agire, delle sue scelte: l’amore casto per una servetta, il rifiuto di farsi sedurre dalla moglie di un amico e quello di farsi ricoverare e curare, un dialogo con Dio (Knulp si ritiene un “buffone” del Signore), la morte serena; il secondo episodio pare più forzato, ideologia spiattellata nei dialoghi…
Il bicchiere scrivente (traduzione di Lydia Magliano, Marcos y Marcos, 15.000 lire) raccoglie una serie di bozzetti, fra arcadia e intimismo, attenti ai colori del mondo, più dal pittore che da narratore. È soprattutto una dichiarazione d’amore al Canton Ticino, dove lo scrittore trascorse molte stagioni della vita. Alcuni brani presentono e temono la parossistica cementificazione, le orde vocianti del turismo di massa, e pare quasi vogliano ritrarre un mondo ch’è sul punto di scomparire, perché i posteri sappiano quant’era bello. Tanta paura forse era un po’ ingiustificata: il Canton Ticino è ancora bello.
Il brano che presta il titolo all’intero volume, narra, con toni da elegia crepuscolare, una seduta spiritica. Hesse lo scrisse forse quand’era sul declinar della vita, stanco, un po’ sfibrato, quasi appagato, blandamente curioso più del passato che dell’avvenire?
Era invece giovane, vigoroso, in cerca di sé e del suo posto nel mondo quando scrisse e pubblicò il Francesco d’Assisi, ora riproposto nella traduzione di Barbara Griffini, in elegante edizione arricchita dalle riproduzioni di otto miniature, da un codice della Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (Guanda editore, 25.000 lire). Il 1904 è per Hesse anno cruciale: pubblica Peter Camezind, romanzo con implicazioni autobiografiche, ch’ebbe gran successo di lettori, e due biografie d’ambiente italiano, dedicate a Boccaccio e a Francesco d’Assisi.
Le due biografie sono come un sigillo inaugurale, premonitore dell’intera opera narrativa, e rivelano con chiarezza, nota acutamente Giorgio Zampa nell’introduzione a questo volume, i poli entro cui si muoverà l’arte (e la vita) di Hesse; sono la rivelazione di un dissidio interiore, fra mondana sensualità, attrazione carnale, e misticismo ascetico, ricerca d’assoluto; nel dissidio si cela l’unità: i due contrari, lontani entrambi dagli idola (oro e potere), si abbeverano alla stessa fonte profonda: la vita vera.
Lo stile di questo Francesco è quasi francescano. La pagina è bella non per accumularsi di esperimenti linguistici e bizzarrie sintattiche, ma per semplicità di svolgimento e scrittura: un’acqua chiara che non mostra quanta fatica sia costata il depurarla. Vibra nel racconto un’aura di gioia semplice, di entusiastica adesione al modo d’essere del protagonista: «Francesco non era affatto un cupo penitente e rinnegatore del mondo, ma anzi, amava molto parole scherzose e allegri incoraggiamenti, e anche nei giorni di grave dolore non si fece mai vedere col volto incupito».
Hermann Hesse non piace a certa critica che, perpetuando l’amor sviscerato tipicamente italico per il bello stile e le sperimentazioni linguistiche e sintattiche fini a se stesse, riproduce e rinnova il distacco fra letteratura e giovani, letteratura e popolo, ch’è, a sentir Gramsci, la pecca maggiore della nostra storia letteraria. Costoro definiscono Boccaccio volgare, e non amano Hesse, che invece venerava Boccaccio; definiscono Hesse elitario, e sottovoce nazista (come del resto fanno con chiunque non sia della loro schiera). Paradosso: un’élite autonominatasi tale, volgare e arraffona, tutta vezzi e birignao, giudica volgari e elitari i grandi narratori popolari.
Che Hesse sia popolare, cioè “del popolo”, è dimostrato dalla continua presenza del Siddharta nelle classifiche dei libri più venduti. Quanto al preteso nazismo, basti questa frase in una lettera del dicembre 1941 («nel tempo forse più buio e infame che l’Europa abbia conosciuto», dice, presentandola, Giorgio Zampa): «…Se un Francesco nostro contemporaneo avesse oggi bisogno di fare sua, nel modo più stretto, tutta la miseria del mondo, dovrebbe sposare un’ebrea di Cernowitz».
Scheda
Sergio Atzeni
Scritti giornalistici (1966-1995)
a cura di Gigliola Sulis
Edizioni Il Maestrale (I Menhir)
€ 32.00 – 2 volumi, 1022 pagine
il libro
Questo volume offre per la prima volta, in versione integrale, le collaborazioni di Sergio Atzeni con la stampa periodica, isolana e nazionale: più di 450 articoli, distribuiti lungo un trentennio. Sono testi che si presentano oggi come un’officina di temi e stili che prima precede e poi si affianca alla scrittura dei romanzi e dei racconti, nonché lettura ‘a caldo’ dei mutamenti della società sarda e italiana negli ultimi trent’anni del Novecento. Dalla militanza politica degli anni Settanta (espressa in cronache e inchieste attente al sociale), si passa per la disillusione dei primi anni Ottanta (con il concentrarsi su aspetti più specificamente culturali), per approdare al periodo dell’affermazione letteraria, quando la pubblicistica diviene spazio di riflessione intellettuale ed estetica, in accordo all’impegno nella narrativa.
Introduzione. – PARTE PRIMA. Cronache, inchieste, commenti: I. Economia, politica, società. II. Cagliari. – PARTE SECONDA. Rubriche: I. Tondo&Corsivo. II. Nove radici. III. Idee di fine secolo. – PARTE TERZA. Arti e cultura: I. Musica. II. Teatro, radio, tv. III. Fumetti. IV. Letture. V. Storia, tradizioni, identità.
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molto bello, ho letto e amato Atzeni da quando ne ho letto i visionari romanzi nei primi anni novanta. Mi colpì molto la sua morte nelle acque di Carloforte, quasi profetizzata nei suoi ultimi scritti.
Knulp mi sembra un ottimo libro nel suo romanticismo sognante.
Il bicchiere scrivente è una discreta antologia, ma ce ne sono di migliori.
San Francesco non l’ho letto.
Tutte e tre fanno parte del periodo francescano di Hesse, delicati, romantici, sognanti, adatti a un pubblico giovane. A me sono piaciuti quei libri, ma non so se mi sarebbero piaciuti allo stesso modo, li avessi letti 5 anni fa e non 20.
I difetti di Hesse, dal punto di vista letterario, sono evidenti. La pagina è semplice e chiara, dice Atzeni, e mi ricorda una prefazione a una antologia di Hesse in cui il critico sottolineava quanto Hesse usasse parole semplici, corte e musicali nei suoi primi testi, tutti all’insegna del: “chiaro”, “tenue”, “bello”, “dolce” ecc.
Con ciò voglio dire che in parte è comprensibile e giustificabile il giudizio della critica su Hesse, e in parte va giustamente ridimensionato.
Ma chi mai ha accusato Hesse di nazismo?
Io ho letto quasi tutti i libri di Hesse e mai nelle prefazioni ho trovato questo riferimento, anzi da più parti, da Chiusano e Magris, si sottolineava come Thomas Mann fosse stato inizialmente inebriato dalla politica di grandezza della Germania del dopo Grande guerra mentre Hesse si era sempre opposto. Ricordo anche una sua famosa poesia dal titolo (vado a memoria) Amici non questi suoni, atta a scoraggiare il nazionalismo e il nazismo crescenti. Per non parlare dell’atteggiamento dei nazisti verso i suoi libri, osteggiati, del suo ritirarsi in Svizzera, del suo ospitare personaggi sgraditi al regime nazista, del suo pubblicare Il gioco delle perle di vetro per un editore svizzero.
Tra le tante critiche a Hesse (alcune secondo me condivisibili) proprio non capisco questo voler difendere Hesse dall’accusa di nazismo, nel senso che non ho mai trovato questa accusa da parte della critica cosiddetta ufficiale. Chi avesse dei riferimenti, sarei grato me li fornisse.
Atzeni, in quella chiusa, pare voler dissipare i residui di un’ombra avanzata, intorno alla metà degli anni Trenta, sul ruolo intellettuale di Hesse, accusato d’essere passivo nei confronti del regime. Fornisce di ciò una sintesi la biografia di Alois Pinz (Donzelli 2003, pp. 188-189):
“[Hesse] Considerava più sensato servire con tutte le forze ciò che era suo, l’arte e la letteratura, piuttosto che logorarsi nella lotta con i suoi avversari. Per questo si comportava in modo passivo nei confronti dei nuovi despoti di Germania […]. Per questo accettò anche che lo si accusasse di essere cieco di fronte ai pericoli del regime hitleriano e di lasciarsi usare dai nazisti. […] Artisti tedeschi emigrati a Parigi sospettavano l’editore Fischer di collaborare segretamente con il Ministero della Propaganda di Josef Goebbels, e inoltre non riuscivano a comprendere come diamine facessero i loro colleghi scrittori, come Carl Zuckmayer, Thomas Mann e Hermann Hesse a pubblicare ancora in Germania. Georg Bernhard, giornalista esule, sosteneva addirittura che gli autori della Fischer Thomas Mann, Annette Kolb e Hermann Hesse potessero servire al Terzo Reich a fini propagandistici”.
Non ho competenze in questo campo, ma non escluderei che la diceria, ripescata, sia circolata nei pettegolissimi “ambienti culturali”, fino a tempi abbastanza recenti, ma appunto proferita, malevolmente, “sottovoce” (come scrive Atzeni), non certo affidata a saggi o articoli.
Le ” pessimisme culturel ” dit-on, serait précurseur et annonciateur du nazisme. L’adolescent est souvent pessimiste. Quitter la protection de la famille pour aborder un monde inconnu et redoutable, cela excite l’agressivité ou la fuite par suicide, ou les deux alternés. Or la guerre présente les deux faces : tuer et être tué. Le sacrifice de Langemarck en 1914 exprime le mieux cette ambiguïté. Ensuite, la jeunesse nazie affirmait son pessimisme par la formule célèbre : ” Ce monde est mauvais, pourri, notre devoir est de le saccager “. Soulignons que cet état d’esprit était né juste avant la guerre de 14, en Allemagne, sous la plume de gens comme Thomas Mann, qui se sont repentis plus tard. La responsabilité des clercs les plus illustres est indéniable. Nous avons cité dans le DEA des pages effarantes de Hermann Hesse, autre Prix Nobel de littérature.
Caro Lorenzo vedi Hermann Hesse e il nazismo in “Jeunesse et Genèse du Nazisme”.di Georgette Mouton
Detto questo, mi ritrovo pienamente nella lettura di Atzeni soprattutto nella difficoltà di certa critica a ragionare sulla letteratura popolare. Eppure basterebbe rivolgersi ai critici scrittori (si pensi a un Milan Kundera ) per ritrovare quella visionarietà e semplicità illuminante di una critica letteraria capace di entrare in risonanza con essa. Basterebbe del resto rileggere Gramsci per capirlo, tanto per intenderci effeffe
@effeffe
stamattina a rai tre hanno parlato del tuo libro e molto bene:)
maria m.
Mi sembra, dagli esempi citati, che se ci sono stati critici italiani che hanno parlato sottovoce di nazismo per Hesse, altri critici tedeschi e francesi l’hanno fatto prima di loro e non sottovoce.
Per il resto, certamente succede ovunque il fenomeno che l’autore molto venduto (scrittore, musicista ecc.) viene guardato con sospetto dalla critica, che spesso tende a giudicarlo in modo sbrigativo e insofferente. Nel caso di Hesse, ricordo la critica di Chiusano: una letteratura di tipo contenutistico, che punta più che altro a mandare un messaggio – in altri termini, sempre di Chiusano: uno scrittore che si vuol fare guru, e che pretende di fornire nei suoi libri una sintesi semplificata di filosofie orientali e psicologia analitica. Da cui l’accusa di essere adatto ai giovani, e da cui la preferenza per il primo Hesse, romantico, umbratile, non ancora guru. Ripeto: tutte critiche legittime, che vanno anche al di là del successo commerciale di Hesse, e che in parte condivido. Ma che al contempo sono ingenerose e non spiegano del tutto il fenomeno Hesse, dal mio pdv, forse per la difficoltà della critica di capire la cultura pop, come sostiene FF.
E poi ci sono molti volti di hesse, come per tutti gli scrittori grandi e che hanno avuto la ventura di campare molto. Io ricorderei a tutti il visionario storicamente all’avanguardia e stilisticamente ineccepibile Lupo della Steppa. La caccia alle automobili su tutti e il finale improvvisamente lirico. Grande francesco nel ripescare questo testo di una limpidezza tutta da invidiare
Saverio è un testo che è contenuto in un libro a parer mio imprescindibile sia per capire la grandezza di Atzeni sia l’impasse in cui a partire dagli anni settanta si è ritrovata la sinistra italiana soprattutto sul campo della cultura effeffe
Che bello questo pezzo di Atzeni. Da qualche settimana ho finito di leggere “Passavamo sulla terra leggeri”, e non passa giorno che ci pensi almeno per qualche minuto.
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