I folletti, il Natale e la poesia
di Francesca Matteoni
Sulla natura dei folletti le teorie sono una matassa assai intricata e variopinta: di certo c’è solo che ovunque si potranno incontrare, che presso ogni popolo è attestata l’esistenza di simili esseri, nascosti nelle brughiere e sotto i biancospini, nelle grotte sotterranee e perfino nella giungla, in spazi abbandonati o nei meno esplorati della casa come la soffitta, la cantina, vecchie cassepanche e armadi in disuso. Sono proprio gli abitanti di questi ultimi luoghi, i cosiddetti folletti domestici, la categoria forse più famosa e indubbiamente quella che si muove a più stretto contatto con gli umani.
Secondo una credenza diffusa, specialmente nell’Europa del nord, lo spirito della casa, un folletto vestito di umili stracci, con l’agilità di un ragazzo ed il corpo di un vecchio, o più raramente con le sembianze di un bambino, può essere il genius loci, l’essenza di un antenato o di un bambino morto, un neonato non ancora battezzato, un feto abortito, che resta a vivere nella dimora che avrebbe dovuto ospitarlo quale protettore.[1] Sono creature solitarie e talvolta eccessivamente permalose – diffusa è la storia del folletto che, ricompensato per i suoi servizi con dei vestiti nuovi da indossare al posto della sua casacca lisa, reagisce offendendosi per l’affronto e fugge dalla casa per non farvi più ritorno -, ma generalmente benevole, a loro modo ovvio, nel modo dei folletti il cui umore è la più mutevole delle correnti.
Tra di loro gode di particolare prestigio il nisse (diminutivo di Nicholas[2] o Nils) danese e norvegese, in Svezia tomte e tonttu in Finlandia, piccolo e barbuto, vestito di grigio, distinto da un cappello rosso a punta e dotato, nonostante le dimensioni, di una forza immensa ed inesauribile. A Il folletto abitava le fattorie, dove si prendeva cura degli animali, e proteggeva i bambini, ma poteva anche, come si è accennato, arrabbiarsi ferocemente, punendo gli umani perfino con l’uccisione del bestiame, la malattia e la completa rovina. È, gettando uno sguardo alla letteratura, un tomte offeso che trasforma Nils Holgersson, ragazzo maleducato e prepotente, in un bambino non più grande di un folletto, che volerà per un anno con uno stormo di anatre selvatiche, nel libro della scrittrice svedese Selma Lagerlöff. Dalla metà dell’Ottocento circa, il nisse si è trasformato nello julenisse o jultomte, il primo aiutante di Babbo Natale – fa la sua apparizione in tante cartoline augurali illustrate dall’artista svedese Jenny Nyström, a volte accompagnato dal capro o dalla capra di Natale, la cui tradizione quale portatore di doni è invece andata decadendo, o dal gatto e il cane di casa con cui condivide la sua ciotola di latte e di zuppa. Una descrizione delle abitudini del tomte la si trova nei versi del poeta svedese Viktor Rydberg, scritti nel 1881: in una notte invernale nella durezza del freddo, la luna e la neve riempiono di luce bianca la foresta di pini e abeti rossi ed il tetto della fattoria: il tomte è l’unico sveglio che si aggira assorto in ricordi misteriosi, per la casa, la dispensa, la stalla, mentre i vivi sono immersi nei sogni.
Solo e svelto, in relazione con gli umani, ma da loro non visto, compreso da tutti gli animali, per immaginare cosa pensa l’antico nisse, occorre forse sentirsi un po’ come lui, mettere in lui la parte più capricciosa di noi, come ha fatto, in due brevi fiabe che lo hanno per protagonista, Hans Christian Andersen. Lo scrittore danese è noto per la sua arte nel far parlare tutto, cercando di evidenziare la prospettiva dell’oggetto dimesso o della creatura minuscola, come le lucertole che si comprendono bene poiché entrambe parlano “lucertesco” ne Il monte degli Elfi, i piselli di cinque in un baccello, l’abete abbandonato a morire lentamente dopo le feste natalizie o la teiera da cui esce Madre Sambuco, un po’ fata, un po’ nonna sapiente. A guardare negli angoli, ad ascoltare il piccolo si apprende o si riprende molto di ciò, per citare un’altra sua fiaba, che è “riposto, ma non dimenticato”. E cosa succede quando i piccoli fiabeschi sono folletti domestici? Sbirciamo un po’…
Ne Il folletto e la signora (Nissen og Madamen, 1867), la moglie di un giardiniere scrive poesie che legge al maestro, nipote e ospite della coppia, con il quale trascorre parte del giorno chiacchierando delle cose dello “spirito”. Anche nella cucina, in compagnia del grosso gatto nero, qualcuno chiacchiera senza posa delle questioni del casamento e delle abitudini dei suoi residenti: è il folletto che tutti conosciamo, così dice Andersen, come se tutti, anche senza esserne pienamente consapevoli, ne avessimo incontrato uno, in un certo momento della vita, nascosto e affaccendato. L’omino è in collera con la signora che osa non credere alla sua esistenza, considerandolo una sorta di “idea” e tralasciando la tradizione per cui ogni Natale dovrebbe spettargli una ricca ciotola di riso con latte. Progetta dunque di combinarle qualche pasticcio: fa traboccare la minestra, lascia che il gatto lecchi la panna, progetta di allargare i buchi nei calzini del marito e via dicendo … ma viene sorpreso quando scopre che una delle poesie è dedicata proprio a lui, che anzi la donna lo ritiene la poesia stessa: lei è l’altra dimora, abitata dall’anima o spirito dei versi, come il folletto abita la casa. Estasiato e, così nota il gatto privato della panna, molto simile agli umani nel cedere alle adulazioni, il folletto inizia a lodare la donna, lasciando cadere ogni desiderio di “vendetta”. Nel folletto stanno dunque due nature: anima domestica, egli è primariamente legato alle questioni pratiche e al rispetto delle usanze, nonché, come un bambino, concentrato su se stesso, divinità del luogo. Ma se il folletto è spirito e anima, e come loro non si può vedere né udire se non con l’occhio e l’orecchio dell’immaginazione, è vicino anche a ciò che sta nei corpi viventi, le passioni e la loro forma precaria eppure concreta: il linguaggio. La poesia, sembra suggerirci Andersen, non viene da chissà quale sublime ispirazione, osserva il mondo dal basso, così che ogni oggetto, ogni incontro è sia ostacolo che meraviglia. Sta fra la scodella del latte ed i sogni covati in giardino.
In una fiaba precedente Il folletto e il droghiere (Nissen hos Spekhøkeren, 1852), l’ambivalenza del nisse è ancora più chiara, così come lo è il valore dell’arte secondo l’autore. In uno stesso edificio dimorano un povero studente ed un droghiere, che ha la bottega al piano terra e possiede l’intera palazzina. Il folletto è ovviamente fedele al droghiere che ogni vigilia di Natale gli prepara una scodella di riso al latte con un grosso pezzo di burro dentro. Scendendo nel negozio una mattina lo studente decide di comprarsi solo il pane e spendere il resto dei soldi in suo possesso per salvare un libro di poesia usato come carta da imballo, “Lei è una bravissima persona – così apostrofa il droghiere – , piena di senso pratico, ma di poesia ne capisce quanto quel barile.”
Il droghiere e lo studente ne ridono, ma non il folletto impermalito per le parole rivolte al suo benefattore. Una sola emozione alla volta sta dentro i folletti. Un solo impeto. Di notte ruba dunque la lingua alla moglie del droghiere per interrogare tutti i mobili e gli oggetti della casa su questa misteriosa “poesia”, cominciando proprio dal barile dei giornali vecchi.
“È proprio vero, – chiese, – che non sai cos’è la poesia?”
“Sì che lo so, – rispose il barile, è qualcosa che sta nella parte inferiore dei giornali e che si ritaglia; credo di averne dentro di me più dello studente, mentre di fronte al droghiere non sono che un misero barile.”
Convinto di aver avuto la sua risposta il folletto sale la scala che conduce alla soffitta dello studente, per metterlo a tacere con le sue informazioni, ma dal buco della serratura filtra una luce e la luce scaturisce dal libro di poesia aperto, fiorisce sopra la testa dello studente in un albero magnifico i cui fiori sono teste di fanciulla e i frutti stelle. Come vorrebbe il folletto restare presso lo studente! La scodella natalizia lo richiama però alla realtà: non gli è possibile farne senza. Quando scoppia un incendio, nel grande trambusto è ciò che ha di più prezioso, ovvero il libro, che il folletto si precipita a salvare – al libro appartiene il suo cuore. “Mi dividerò tra i due mondi! Non posso abbandonare del tutto il droghiere, per amore del riso al latte.”Sebbene l’albero dei sogni sia possente, non può essere tutto. C’è un cuore dentro il folletto, un’anima dentro l’anima che non deve mai essere dimenticata, anche se costretta in segreto, incapace a sopravvivere nel mondo cibandosi solo di se stessa. Di nuovo la poesia, l’arte, non ha a che fare con gli dei, ma con l’ultimo, più infantile e pittoresco dei loro “parenti”, lo spirito domestico che mette le cose in ordine o le getta nello scompiglio a seconda del suo sentimento, che parla con gli animali o, in loro assenza, con i barili e i macinini da caffè. E la poesia ha anche a che fare con il vivere dell’uomo in mezzo agli altri, si fa pezzo di carta riciclabile, si maschera fuggendo in una bugia, qualcosa a cui si dovrebbe smettere di dar credito come ad un vecchio spiritello scorbutico, che tuttavia emana chiarore, tra i cui rami ci si può accomodare, imparando a dire le cose, perfino quelle sgradevoli, daccapo, o, se si preferisce, a mentire, facendo delle cose qualcos’altro, lasciando crescere lingue nel mobilio senza cervello, e gli alberi nelle più anguste soffitte. È semplice. Basta serbare con pazienza la propria scodella di latte. E versarne sempre un po’ per il folletto.
Immagini nel testo di Lennart Helje e Jenny Nyström.
“Tomten” di Viktor Rydberg. Illustrazioni di Harald Wiberg.
[1] A questo proposito si può vedere il libro di Juha Pentikainen, The Nordic Dead-Child Tradition. (Helsinki, 1968) e quello di Anne O’Connor, The Blessed and the Damned. Sinful Women and Unbaptised Children in Irish Folklore. (Germany: Peter Lang, 2005)
[2] Non è un caso che Nicola, il santo, vescovo di Myra in Asia Minore nel IV secolo sia il protettore, oltre che dei marinai e di chiunque sia in difficoltà, dei bambini … e dei ladri.
La poesia con la fantasia del quotidiano- Le favole di Andersen sono tutte belle perché sono intrise di malinconia, ma animate del sogno- un cuore di fantasia, una ricerca della bellezza con un cuore di carbone.
Grazie per il post e auguri per ogni membro di Nazione Indiana.
Chiedo scusa per l’O.T. e se utilizzo questo thread per un messaggio a Véronique: Verò, ti ho scritto una mail. Hai cambiato indirizzo di posta elettronica? Se sì, contattami, è urgente! Intanto, Je souhaite pour toi une très Bonne Année 2012.
Bello, Francesca. Leggere è stato come dimenticare per un po’ il resto, tutti i resti, abbandonarsi alla neve che non è arrivata, al riso al latte, a ciò che c’è di bianco nelle cose. “Imparare a dire”, scrivi. Ed è un imperativo che mi è caro. Trasformare, reinventare l’indicibile in nuovi segni.
Ne approfitto per augurare un buon 2013 a tutti.
(che è successo ad NI? c’è più rosso del solito, è la veste natalizia?)
Abbiamo ospitato tre folletti. Il banner rosso è un loro regalo.
auguri a tutti voi!
Bello Francesca!
In Islanda avevo visto che ogni casa aveva davanti una micro casetta alta meno di un metro pensata per i folletti che gironzolano in inverno al freddo.
Poi ho scoperto l’esistenza dei folletti jólasveinar!