Conoscere e ri-conoscere: volti e culture
di Antonio Sparzani
La relatività è un grande fiume che scorre in molti territori e bagna molte contrade. Una di queste mi è venuta incontro in questi giorni mentre leggevo, ignaro e senza sospetti, un breve saggio del grande viennese Ernst H. Gombrich, intitolato La maschera e la faccia: la percezione della fisionomia nella vita e nell’arte, 1 pubblicato originariamente nel 1972, quando Gombrich era direttore del Warburg Institute e docente di storia dell’arte a Oxford. In questo breve saggio si parla della somiglianza delle fisionomie, e del riconoscimento dei volti delle persone che ci sono ― più o meno ― note.
La cosa un po’ mi riguarda perché io, ad esempio, ho poca memoria per i volti, faccio figuracce tremende non riconoscendo persone già incontrate anche più di una volta e penso talvolta con un certo timore a quel paziente di Oliver Sacks per cui l’illustre psicologo scrisse il saggio, che diede il nome a un libro di successo, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, pubblicato per la prima volta a New York nel 1985.
Cosa scrive Gombrich, esperto di storia dell’arte e non specificamente di relatività, che mi ha così colpito? Leggete qua:
«Queste temutissime discussioni, [si sta parlando della maggiore o minore “somiglianza al vero” di certi ritratti, n.d.r.] forse molto meno futili di quanto sembrino, hanno reso il problema della somiglianza una questione assai delicata. Le estetiche tradizionali hanno fornito all’artista due linee di difesa che sono entrambe rimaste in voga sin dal Rinascimento. Una si riassume nella risposta che si dice abbia dato Michelangelo a chi aveva osservato che i ritratti medicei nella Sagrestia Nuova non erano molto somiglianti — cosa importerà tra un migliaio di anni come erano veramente questi uomini? Egli aveva creato un’opera d’arte e questo era ciò che contava. L’altra linea risale a Raffaello e più su a un panegirico su Filippino Lippi in cui è detto che questi aveva dipinto un ritratto più somigliante al modello del modello stesso. Lo sfondo in cui si situa questa lode è l’idea neoplatonica del genio i cui occhi possono penetrare oltre il velo delle pure apparenze e rivelare la verità. E una ideologia che dà all’artista il diritto di disprezzare i parenti filistei del modello, che si aggrappano alla crisalide esterna e non colgono l’essenza.
Qualunque sia l’uso o l’abuso che si è fatto di questa linea di difesa nel passato e nel presente, bisogna ammettere che qui, come altrove, la metafisica platonica può essere tradotta in un’ipotesi psicologica. La percezione ha sempre bisogno di universali. Non potremmo percepire o riconoscere i nostri simili se non potessimo cogliere l’essenziale e separarlo dall’accidentale — in qualunque linguaggio si voglia formulare questa distinzione. Oggi si preferisce il linguaggio dei calcolatori, si parla di riconoscimento di forme, [problema della “pattern recognition”, n.d.r.] tramite l’isolamento degli invarianti che sono distintivi di un individuo. È un tipo di abilità che anche i più smaliziati progettisti di calcolatori invidiano alla mente umana, e non solo alla mente umana, poiché la capacità che essa presuppone di riconoscere l’identità nel cambiamento deve essere insita anche nel sistema nervoso centrale degli animali. Considerate che cosa richieda l’impresa percettiva di riconoscere visualmente un singolo membro di una specie in un branco, un gregge, una folla. Non solo la luce e l’angolo visuale variano, come per tutti gli oggetti, ma l’intera configurazione della faccia è in movimento perpetuo, movimento che però non influenza l’esperienza dell’identità fisionomica o, come propongo di chiamarla, la costanza fisionomica.» (pp. 6-7).
Eccoli qua gli universali e i diversi punti di vista che colgono aspetti diversi di uno stesso universale: l’impresa è saper distinguere tra aspetti contingenti e aspetti necessari. Nel linguaggio della fisica: distinguere tra aspetti che dipendono dal punto di vista e aspetti che fanno parte del “fenomeno in sé”, per dirla con quella sfumatura kantiana che suona sempre bene. Il punto di vista è, con linguaggio ancora più fisico, il sistema di riferimento. Nel sistema della Terra il Sole gira intorno ad essa, nel sistema di riferimento del Sole, piuttosto scomodo in verità, è la Terra che gira intorno ad esso. Qual è l’universale, il fenomeno in sé? È il fatto che Terra e Sole eseguono un certo movimento l’uno rispetto all’altro, che mantiene (grosso modo) la distanza tra i due corpi, nel quale la Terra è orientata in un certo preciso modo, con le note conseguenze sul succedersi delle stagioni, ecc. Che è poi la faccenda che Roberto Bellarmino aveva forse capito meglio di Galileo, come ho già avuto occasione di provare ad argomentare.
La relatività, lo dico ancora una volta a rischio di frantumare la capacità di sopportazione del lettore natalizio, non è il relativismo becero del tutto va bene, è invece quella teoria che insegna a distinguere il grano dal loglio, il contingente dal necessario, il dipendente dal punto di vista dall’indipendente. Se due persone in mezzo alle quali ponete un foglio di cartone colorato da una parte di blu e dall’altra di rosso si affannano a discutere, sostenendo l’una che si tratta di un cartone rosso e l’altra di un cartone blu, voi capite immediatamente la futilità della discussione. Ma l’unico modo per mostrare questa futilità è che ognuno guardi anche dal punto di vista dell’altro. È solo la somma dei punti di vista che ci dà un’idea sufficientemente completa di che cosa sia una cosa, un oggetto, una struttura, una persona, una civiltà.
Immaginate che qualcuno che indaga su di voi chieda a un solo vostro amico notizie: nel migliore dei casi avrà il punto di vista di quell’amico, che quasi certamente sarà assai parziale e monorientato; solo chiedendo a più amici riuscirà a rendere più completa la sua descrizione, e quanti più saranno gli amici cui chiederà, tanto migliore risulterà alla fine il quadro di conoscenza che si formerà di voi.
Quando qui parlavo dell’ultima Murena L’universale è il locale meno i muri, di Miguel Torga, voi capite che dicevo esattamente questo. E quando citavo Feyerabend e lo slogan che lo affascinava negli ultimi anni della sua vita “ogni cultura è in potenza tutte le culture”, continuavo ad alludere alla stessa cosa. Ogni cultura è un punto di vista sull’uomo, un sistema di riferimento dal quale osservare.
Naturalmente un sistema di riferimento è necessario, non si può osservare qualcosa “da un punto di vista generale”: ogni punto di osservazione è particolare e solo così qualsiasi osservazione ha senso. Ma una “buona conoscenza”, cioè una conoscenza utile e pacifica, si costituisce a partire dalla presa d’atto della pluralità dei punti di vista possibili. Ed è questo l’insegnamento più interessante della teoria della relatività, cui questo nome così mal scelto venne dato da Max Planck, e che forse avrebbe indotto meno fraintendimenti se fosse stata battezzata “teoria dell’assoluto”.
- saggio tradotto da Luca Fontana e contenuto nel volume Arte, Percezione e Realtà, PBE Einaudi 2002, che contiene anche scritti di Julian Hochberg e Max Black.↩
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Credo che su un piano sociologico ed etico, naturalmente non mi permetto di intervenire sul piano epistemologico, molto del relativismo becero del nostro tempo sia nato dall’incapacità umana di accettare la precarietà della verità. Sul piano morale e sociologico spesso i sistemi di riferimento sono quelli dettati dalla condizione storica e dunque variabilissimi e caduchi, eppure sono gli unici su cui fondare una domanda di verità, che è l’unica a sua volta sulla quale è possibile edificare un senso alle nostre azioni.
( mi perdonerai Antonio se strumentalizzo il tuo splendido intervento su una riflessione che mi porta dietro e su un pensiero che mi è venuto leggendoti)
caro Giorgio, intanto sono contento che tu mi legga e dunque nessun perdono è necessario: in più condivido l’interrogarsi sul “problemino” che sollevi. Forse potremmo spogliare un pochino l’idea di verità da quella carica così densa che siamo soliti attribuirle e alzarci ― e non abbassarci, direi io ― al livello in cui essa è fortemente legata al contesto (condizione storica, come tu dici, e quant’altro) unita al quale soltanto essa assume davvero senso e importanza per la vita degli umani.
“Ogni cultura è in potenza tutte le culture”; caro sparz, continuo a seguire il tuo itinerario quanto mai articolato tra scienza, arte, letteratura e, ormai, oserei dire, antropologia.E qui la questione della relatività si fa nuovamente decisiva, in quanto uno dei modi per definire l’antropologia e la sociologia comparativa. Lo stesso sistema uomo non si può che definire in modo comparativo,mai in modo assoluto tramite una qualche teoria essenzialista. Spero di essere intervenuto non troppo a sproposito.
altro che a sproposito, caro A., dici bene che lo stesso sistema uomo si può definire e soprattutto conoscere con qualche completezza soltanto utilizzando tutti i punti di vista possibili. O per lo meno questo è quello che sto capendo sempre di più, accompagnato dalla lettura dell’ultimo Feyerabend e di Renato Rosaldo.
Ogni cultura è in potenza tutte le culture, e Erich Fromm basa la sua psicanalisi umanistica sul fatto che ogni uomo è in potenza tutti gli uomini, dall’Homo sapiens di qualche decina di migliaia di anni fa a oggi, dai Boscimani all’uomo occidentale: le emozioni, i sentimenti, l’anatomia corporea e la struttura psichica sono identici.
Il che significa che il sistema uomo è meglio descritto tenendo conto di tutti i punti di vista possibili se si vuole inquadrare il suo essere un animale culturale, ma dal punto di vista biologico – nel senso più lato del termine – il sistema uomo è definibile, entro certi limiti, in termini assoluti, senza bisogno di relativismo, a meno che si voglia relativizzarlo rispetto al sistema del mondo animale.
Non ricordo se fosse Rousseau a polemizzare con i filosofi dicendo che non descrivevano l’uomo bensì il borghese di Parigi o Londra o Berlino – poi certo anche lui si illudeva di poter descrivere l’uomo naturale, ma almeno poneva la questione in modo corretto.