Sullo scrivere. Dieci consigli ai giovani scrittori

di Keith Botsford
Casa Kike, Biblioteca

“Awl, rut, jot; bag, beg, big, bog, bug; sap, sep, sip, sop, sup”.
Tutte parole di tre lettere. Se conoscete il significato delle prime tre, conoscete anche le loro possibili commutazioni? Sapete che ci sono altri cinque modi di utilizzare tutte le vocali ed altrettanti le consonanti? (Ci sono). Non pensavo che esistesse una parola come “sep”, ma c’è. E’ una vecchia parola che significa “sheep” (pecora). Gli scrittori amano curiosare nella loro lingua, in tutte le lingue, non solo nella lingua in cui parlano e scrivono, ma nelle lingue della matematica, della musica.
Dai tre agli otto anni ho trascorso quasi tutto il mio tempo inchiodato a un letto. Mi ero scottato con un impiastro di olio di semi di lino, perché quando quest’olio si rafferma diventa un acido. Pochi di voi hanno mai visto un impiastro (una calda massa di panno preparata… a scopi curativi). Stavo quasi per morire. Risultato: durante quei cinque o sei anni della mia infanzia non ho fatto altro che leggere. Le parole sono state i mattoni con cui ho costruito il mio mondo. Allorché un libro diceva: “not one jot or tittle” (“neanche un briciolo”), io cercavo il significato di “jot” (iota) e di “tittle” (punto). Annotavo le parole (“I jotted down words”), ma non si trattava dello stesso “jot” che usavo per “to jot down” (annotare), e dovevo ancora imbattermi in un “punto”, “tittle” (un segno diacritico usato soprattutto nei libri stampati), sebbene avessi già ascoltato un mucchio di chiacchiere (“tittle-tattle”). Vi siete fatti un’idea? Quando uno comincia a essere sedotto dalle parole, è già uno scrittore.
Tutti possono scrivere quello che dicono annotandolo su un foglio. Scrivere, a volte, è perfino più facile che parlare. Alla vostra innamorata, ad esempio, potete scrivere ciò che non riuscite a dichiararle: “Cara, sapessi quanto ti amo…”. Al contrario non c’è nulla che possiate scrivere che voi (o altri) non abbiate detto. I miei diari, che tenevo in modo irregolare, cominciano prima della scuola. Ahimé! sono pieni, come la maggior parte dei diari scritti a quell’età, di ciò che sentivo: i miei stati d’animo. In seguito, tra i sette e i tredici anni, scrivevo tutto ciò che gli altri – insegnanti, scrittori, artisti, compositori – dicevano o avevano detto: cose molto più interessanti di quelle che avrei potuto dire io!
Una volta in Inghilterra, sono stato educato in una scuola di benedettini, dove la disciplina dello scrivere era un sapere altamente rispettato. Bibbia significa “ciò che è stato annotato”. Guardati dall’interpretare male la parola di Dio! I monaci hanno un profondo rispetto per le parole: le cantilenano tutto il giorno per ficcarsele bene in testa. Edent pauperes et saturabantur. Ancor oggi, sessant’anni dopo, sussurro queste parole ogni giorno prima di cominciare a mangiare.
Scrivere, comunque, non è solo una questione di parole. Quando mi volto indietro – come qualcuno che dello scrivere e della conoscenza delle lingue ha fatto la sua vita – cambierei un certo numero di cose del mio apprendistato. Ciò che segue è una guida elementare alla mia evoluzione che potrebbe (o anche no) essere utile ad altri.

I – A vent’anni, avendo già pubblicato qualche libro, mi vedevo come una figura letteraria. Era solo presunzione. Scrivere è un mestiere e un’arte. Il mestiere richiede arte e l’arte richiede mestiere. Sono gli altri i migliori giudici di quello che scrivi, non tu. E’ sciocco accordare a te stesso qualcosa che non hai meritato.

II – Ci vuole molto tempo prima di sviluppare la propria voce. Nel frattempo sono gli altri scrittori che ti spronano ad andare avanti. Non c’è niente di male nell’imitarli a lungo (anzi, è una buona pratica). Arriverà il momento in cui sarai in grado di trovare la strada di casa.

III – Non c’è un modo giusto di scrivere, ma ci sono molti modi sbagliati e, peggio ancora, molta ignoranza e imprecisione. Nessun insegnante mi ha insegnato a scrivere, ma molti hanno corretto i miei errori. Di solito non facevano altro che indicarmeli.

IV – Ho avuto molte difficoltà nel pubblicare i miei libri e sono stato spesso umiliato dagli editors. Mi sono vendicato pubblicando con generosità molti autori e riscrivendo le pagine degli altri con umiltà.

V – La letteratura non è che un modo di scrivere. Con una nidiata di figli da mantenere ho dovuto pensare a come guadagnarmi da vivere. Questo mi ha insegnato che, se nutri un vero interesse, qualsiasi cosa può diventare interessante – perfino un resoconto bancario o un referto giudiziario. L’interesse per le cose ti rende interessante. Per apprendere questa lezione e allo stesso tempo portare a casa lo stipendio, è necessaria molta pratica. Per questa ragione bisogna scrivere costantemente. Se vuoi suonare bene il pianoforte devi esercitare le tue dita ogni giorno. Anche lo scrivere ha i suoi esercizi tecnici per rendere le dita più agili: note, diari, trascrizione di passi scelti dai libri che leggi e ricordi, e soprattutto, la traduzione, l’esercizio supremo nel renderti maestro sullo stile di qualcuno.

VI – Sono stato abbastanza fortunato nel trovare un lavoro nel giornalismo. Ho scritto di tutto: articoli di sport, di gastronomia, ritratti, necrologi, cronache, articoli d’attualità… Da questo mestiere ho imparato l’importanza delle scadenze, ad abbandonare un testo quando è necessario, a scrivere rapidamente, a pensare in fretta e a rispondere immediatamente ai tempi e alle richieste.

VII – Ho imparato che per ogni testo c’è un lettore (una grande gioia per uno scrittore non ancora sicuro di sé) e che dovevo rivolgermi a quel lettore e non a me stesso. La brevità è un giudice implacabile. Il mio miglior editore mi raccontava sempre la storia di quello scrittore che diceva a se stesso: “Se solo avessi più tempo, potrei renderlo più breve”. Scrivere in un inglese (o in qualsiasi altra lingua) chiaro e efficace dipende dal grado di considerazione in cui teniamo il lettore. Il mio caro amico Saul Bellow me lo diceva sempre: “Prendi il Lettore per mano, Keith, e lui ti seguirà in capo al mondo”. O come io dico ai miei studenti: “Non scrivete per me, ma per il mondo. O almeno per vostra zia Nelly di Boise, nell’Idaho”.

VIII – Il segreto dello scrivere per un lettore è la semplicità. Io non l’ho ancora del tutto appreso, per questo sulla mia scrivania tengo una targa su cui c’è scritto a lettere cubitali: SEMPLIFICA! Niente a che vedere con gli sfarzi della letteratura, e della vita. Non penso che esista ciò che di solito viene chiamata “giovane (immatura) promessa letteraria”. Un giovane scrittore mostra i suoi talenti, si gingilla allo specchio, ostenta le sue capacità. I veri scrittori devono conoscere tutto. Per questo hanno bisogno di tempo per crescere e per smettere di pensare a loro stessi. Gli scrittori maturi sono in grado di mettere in relazione le idee più disparate. Si interessano a ogni cosa: alle chiacchiere del barbiere come alla densità di una poesia.

IX – Per questo tipo di ricchezza sono necessarie vaste letture e la conoscenza di diverse lingue. A meno che non vogliate ascoltare una sola voce. Quello che Catullo scrive (e il modo in cui lo scrive) è importante per uno scrittore, ma “Odio e amo” non è la stessa cosa di “Odi et amo”. La curiosità che ci spinge verso altre voci è ciò che ci permette di avere qualcosa da dire. Bisogna imparare ad ascoltare. A domandare. Chiedi a tuo nonno com’è stata la sua vita, così come un giorno chiederai ai tuoi nipoti com’è la loro.

X – A tutti gli scrittori è richiesta tenacia. Devono capire che scrivere non è sempre il frutto dell’ispirazione, che si possono avere giorni buoni e giorni cattivi e che a volte sono necessari venti o trenta tentativi prima di raggiungere quello che si vuole dire. Come scrittore mi sono spesso domandato: “Come si fa a diventare scrittori?”. La mia sola risposta è: scrivendo. A ciò potrei aggiungere – ma raramente lo faccio, e solo per scoraggiare coloro che pensano che scrivere sia un mestiere che si impara in una scuola di scrittura – che scrivere è ciò che di meglio possa capitare a coloro che si sentirebbero orfani se non lo facessero. In altre parole, per il povero servo che non ha altro modo per sopravvivere.

(traduzione di M. R.)

Nota
Keith Botsford (1928) è nato a Bruxelles e vive da alcuni anni a Cahuita, in Costarica, in una casa (“Casa Kike”) che è un’opera architettonica (progettata dal figlio Gianni Botsford) di rara leggerezza e semplicità di materiali. Per metà italiano e per metà americano ha studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, all’università di Yale. Io lo chiamo “l’ultimo uomo del XX secolo”. La sua biografia infatti per vastità di luoghi esplorati – dall’Europa agli Stati Uniti, dall’America Latina e Centrale al Giappone – e di storia vissuta – dalla Polonia sotto il giogo sovietico all’Inghilterra degli angry young men, dalla Partisan Review alle sue frequentazioni, nella Tokyo degli anni cinquanta, di Mishima Yukio e Donald Keene, dall’effervescenza parigina delle illusioni sartriane (a cui non ha mai creduto) alla Hollywood dei grandi registi fuggiti dal nazionalsocialismo – racchiude il romanzo del secolo scorso. Dall’epoca della Seconda Guerra mondiale non c’è evento storico di una qualche entità di cui Botsford non abbia memoria, senza contare che di molti è stato spesso attore non marginale. Possiede tante arti quanti figli (9), nipoti (15), mogli (5) e pseudonimi (11). Pensa a se stesso come: romanziere, editor, compositore, avvocato, professore universitario, direttore di rivista (confondatore con Saul Bellow di: ANON, The Noble Savage, News from The Republic of Letters), poliglotta, ex-ufficiale dell’Intelligence, sportivo, giornalista (Sunday Times, The Indipendent), gastronomo di una certa fama, traduttore, collezionista… Aggiungerei: lettore, non solo perché è in grado di leggere almeno in sei o sette lingue, ma per la qualità della sua lettura. Sia che abbia a che fare con un nome del fragile Olimpo delle lettere o con il manoscritto di un principiante, Keith Botsford è sempre di un’umiltà – e perciò di una spietatezza – che nobilita l’autore dell’opera, facendogli allo stesso tempo il più grande omaggio che su questa terra egli possa ottenere: essere letto in ogni sua frase. Pretende di essere citato in molte note a piè di pagina nelle biografie degli altri, di chiunque altro, e desidererebbe essere letto più di quanto non lo sia, un tratto che condivide con gli autori più seri in assoluto. Fra le sue ultime opere: Out of Nowhere (2000), Editors: The Best of Five Decades (with Saul Bellow, 2001), The Mothers (2002), Emma H. (2003), Collaboration (2007), 
Death and the Maiden (2007), Fragments I (2008), Fragments II (2010), Jozef Czapski: A Life in Translation (2010), Fragments III (2011).
Sito ufficiale: keithbotsford.com.

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8 Commenti

  1. Grazie a R. per la traduzione.
    Quasi sempre un buon testo è il risultato di un mix di dedizione e ispirazione.
    A volte le idee arrivano all’improvviso, in modo imprevedibile, spesso è necessario cercarle per molto tempo.
    Per quanto mi riguarda, lavoro ai miei testi tutti i giorni, pur sapendo che naturalmente è impossibile scrivere qualcosa di interessante ogni giorno (almeno per me). L’importante è avere uno spazio quotidiano dedicato alla scrittura, accettando il fatto che questo spazio non potrà essere sempre produttivo. La dedizione è un ingrediente fondamentale ed è sempre utile, a patto che non si trasformi in rigidità e in ansia da prestazione.
    Questa è una possibilità che B. non analizza, ma secondo me è un effetto collaterale da tenere sotto controllo.

  2. Di quando in qua gli scrittori, giovani poi, accettano consigli, pubblicamente poi? E se proprio devono, li accetteranno da altri scrittori giovani però, perché accettare consigli da un ottantenne che-ce-l’ha-fatta è ai limiti dell’indecente. Metti che non ce l’avesse fatta, o che ce l’avesse fatta pelo-pelo come un Moresco, sia pure, ma accettare consigli da Keith Botsford… (vorrei non trasparisse che è la prima volta che sento il suo nome, perché a me consigli validi non ne hanno mai dati in generale, tipo – Leggi Botsford!; eppure quanti ne avrei voluti, da disdegnare in pubblico per approffittane in privato – ch’è poi la forma di gratitudine più vigliacca e efficace).

    D’altronde, esattamente, in cosa consistono questi consigli? In cosa si distaccano dalla paternale carica di bonomia e di raggiunta tregua carrieristica? Cosa dicono che non potrebbe dire chiunque altro avesse di che spandersi da una buona posizione largamente riconosciuta?

    Da questi dieci, questo è il consiglio che ricavo: chi vuole scrivere – o comunque fare quel che vuole – i consigli se li darà solo, e solo quando, dieci o venti o trenta anni dopo, gli saranno serviti davvero qualcosa, quando li avrà compiutu, si girerà indietro e li lascerà agli altri, dopo esserseli spremuti da sé, com’è giusto che sia: ingiusto come tutto il resto.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

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