Sirenade – Vinicio Capossela
di
Gigi Spina
Oggi che una lectio magistralis e magari una laurea honoris causa non si negano a nessuno, quello previsto con Vinicio Capossela era più modestamente un “incontro con gli studenti”, a Napoli, nell’aula magna della Facoltà di Lettere della Federico II, a cavallo fra le due serate del suo affascinante spettacolo Marinai, profeti e balene. Magari se si chiede a qualcuno/a degli oltre duecento studenti (e non solo) seduti su ogni superficie disponibile e assiepati fuori, con vista sul meraviglioso chiostro dell’ex Manifattura Tabacchi (ancorché punteggiato da striscioni e impalcature), vi diranno che una lezione dovrebbe essere così, un dialogo intrecciato fra testo e vita, tra passato mitico e presente faticoso e, a voler essere sanamente retorici fino in fondo, fra filologia e anima.
E dunque ecco Vinicio, che il preside della Facoltà, Arturo De Vivo, accoglie con un aneddoto prefigurante. Anni fa qualcuno aveva prenotato anche tal Vinicio Capossela sul foglio di prenotazioni dell’esame di Letteratura latina – era un trucco ricorrente, almeno ai tempi delle prenotazioni cartacee e generalmente autografe, scrivere nomi più o meno famosi per testare la lucidità del docente; ora la prenotazione per via elettronica ha mortificato questa vena irridente. Arturo, appassionato di musica e letteratura oltre che latinista, aveva affermato che se ci fosse stato davvero Capossela avrebbe sospeso subito la seduta di esame per accoglierlo; anzi, aveva aggiunto, se fosse stato preside lo avrebbe invitato subito a parlare in facoltà. Il fato, dunque, si è compiuto. Vinicio, accolto da un’ovazione (per fortuna senza standing), è ora seduto al tavolo della presidenza, con Arturo e Gigi Spina (che ora tenta di raccontare fidando nella memoria).
Gigi ha scritto un fortunato libro sulle sirene, con Maurizio Bettini (Einaudi, 2007), e per questo è stato contattato da Marco Castellani per organizzare l’incontro (e Nazione Indiana non è estranea ai misteriosi percorsi del fato).
I due professori non riescono a uscire del tutto dal proprio ruolo: Gigi chiede a Vinicio l’origine del suo nome, visto che ne circolano due versioni, una legata al console Marco Vinicio di Quo Vadis, l’altra che richiama un fisarmonicista degli anni Sessanta.
Arturo, invece, fa un’analisi serrata del testo de La lancia del Pelide, uno dei pezzi dell’ultimo doppio CD che dà anche il nome allo spettacolo, rintracciandovi il mito di Telefo – ferito e guarito dalla stessa lancia -, impreziosito da una modalità elegiaca di tipo ovidiano. Vinicio, per nulla intimorito – sul nome, dice, si sente ben preparato -, ricorda il padre, Vito, figura epica ed etica dell’Irpinia emigrante, cultore sia del film (anche se il personaggio era un po’ mediocre, Vinicio avrebbe preferito Ursus) che del fisarmonicista (il cui nome, però, era falso), e incanta gli ascoltatori con ricordi e aneddoti di una memoria che conserva le radici e tenta di rinnovare un passato che ovviamente non può ritornare. Poi, con competenza e leggerezza, elenca le fonti del suo testo, molto più varie e intrecciate del canonico Ur-text classico.
Superato più che positivamente il test d’ingresso, ora Vinicio si dà, con generosità e sincerità, con la naturalezza di chi parla solo dopo aver riflettuto e capito il fondo delle numerose domande; si dà al suo pubblico che gli vuole bene proprio perché è fatto così, personaggio e uomo, sicuro quel che basta per capire e rivelare le proprie incertezze, sempre dentro a un mondo dal quale non può volgere lo sguardo, ma dalle cui bassezze si può dissociare, capace di parole e di suoni, di ritmi e armonie dolcissime, senza che le dissonanze sempre possibili scoraggino. A chi gli chiede come si può avere successo, risponde che bisogna aver pazienza e partire dalla volontà di far conoscere, diffondere le proprie idee/composizioni anche in piccole cerchie ma solide, durature. Altre vie, che pure ci sono, bruciano nella rapidità. E comunque Vinicio non è mai asseverativo, censorio. Ciascuno scelga in base alle proprie convinzioni e attitudini, a quello che vuole essere, perfino a quel che vuole apparire, ma con la capacità di reggerne gli effetti.
Ma siamo in una facoltà di lettere e Vinicio è innanzitutto un intellettuale ‘militante’, nel senso che mette la sua cultura (libri, idee, musica) a disposizione degli altri in un confronto serio e senza spocchia. Il rapporto col mito, con l’epica, più con l’Odissea che con l’Iliade, col racconto della Bibbia, fa parte del suo modo di vivere in questa realtà senza perdere i richiami alti del passato, cercando di affermare la bellezza contro il dilagare della bruttezza. Anche i riferimenti all’attualità politica sono esenti dal compiacimento di una satira scontata. Ho l’impressione che Vinicio voglia far trionfare la bellezza anche parlando il meno possibile del brutto. E quando una militante di un collettivo gli propone di firmare un appello contro un raduno nazifascista, Vinicio preferisce capire meglio, leggere, analizzare piuttosto che dare una facile e scontata risposta. E dopo aver letto e firmato non può fare a meno di inquadrare un conflitto forse inevitabile in un discorso sulla natura umana, sulla continua mediazione che ciascuno deve fare fra pensiero alto e limiti dei quali bisogna avere consapevolezza.
E poi ritorna ai libri, ai suoi libri, alle letture competenti sull’epica (Privitera, Boitani), a Ceronetti traduttore della Bibbia, a Melville e allo spettro della balena bianca, al mare, questo luogo non-luogo spettatore di partenze e ritorni, alla nostalgia, di cui conosce non solo letterariamente cause ed effetti, al mito e alle sirene, del cui canto, nella città di Partenope, dà una lettura approfondita e acuta (lasciatelo dire a un ‘sirenologo’), che affida all’ultimo testo del suo doppio CD/spettacolo. Il canto delle sirene affascina perché è il canto che parla di chi l’ascolta, della sua identità profonda, e chi non vorrebbe avere certezza sul proprio essere, chi non vorrebbe fermare il flusso del tempo per restare in una incessante fissità? Ecco perché il canto delle sirene affascina e uccide, perché ferma il divenire che è l’unica possibilità di sopravvivenza dell’uomo con i suoi limiti di uomo. E sul canto delle sirene – e sulla necessità di staccarsene, a un certo punto – si chiude l’incontro che forse tutti avremmo voluto durasse all’infinito, pericolosamente.
Ma prima di concludere, una precisazione. Non so se ho riportato fedelmente le parole e i pensieri di Vinicio; d’altra parte questa non è un’intervista né un resoconto concordato, è solo una risposta, del tutto personale – affidata, lo ripeto, alla memoria –, una risposta alla speranza di Vinicio (dovrei dire auspicio, ma che ci posso fare se fa rima con Vinicio? Benedetto Quo Vadis e anche il fisarmonicista), che ciascuno andasse via dopo l’incontro riportando qualcosa di nuovo, idee da meditare, da far circolare. E poi, sto scrivendo questo pezzo sul treno che mi riporta a Bologna dopo una giornata magica a Napoli – in cui ho rivisto la mia (ex)Facoltà viva come dovrebbe continuare a essere ogni giorno –, ascoltando con le cuffie L’indispensabile e Ovunque proteggi. Il dialogo continua anche così.
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Ci sono aneddoti che ti riportano alla purezza delle cose, grazie.