Dafni e Cloe fare i videotape
Dafni e Cloe – Teaser from Luigi Pepe on Vimeo.
di Luigi Pepe e Eugenio Maria Russo
Nel dicembre del 1977 il programma di Raidue Match, condotto da Alberto Arbasino, ospitò un confronto tra un cineasta di successo, Mario Monicelli, e l’allora esordiente Nanni Moretti. La polemica di Moretti contro Monicelli era in questi termini: perché per i giovani di talento è così difficile fare un film? Perché, pur avendo magari un diploma al Centro Sperimentale, ci si deve sempre ridurre a fare le cose tra amici, nei ritagli di tempo o nei week end, senza soldi e senza alcuna speranza di visibilità? Perché non c’è in Italia un sistema per cui i giovani possono formarsi sui grandi set, magari come aiuto regista, per poi provare a camminare con le proprie gambe? Tutti questi interrogativi sussistono ancora oggi.
Il cinema italiano avrebbe bisogno ora più che mai di risollevarsi, di ridiventare un sistema fecondo e di andare oltre il talento dei soliti Garrone e Sorrentino. Molti potenziali Garrone e Sorrentino servono ai tavoli dei ristoranti o spillano birre nei bar. Eppure esistono fondi appositi del Ministero per le opere prime e seconde, peccato che questi vengano attribuiti in genere alle grandi case di produzione che intascano i soldi e poi non si sforzano neanche di far distribuire i film.
Tornando al match Monicelli-Moretti del 1977, la risposta del grande regista al giovane talento fu circa questa: il cinema come lo conosciamo si sta esaurendo con la mia generazione, voi ragazzi non dovete accanirvi ma rivolgervi ai nuovi linguaggi. I videotape. Ecco l’insegnamento del maestro, lasciate perdere perché tanto dopo di noi il cinema non esisterà più. Fate i videotape.
Per fortuna il cinema è sopravvissuto a Monicelli, è un linguaggio vivo e in grande evoluzione soprattutto grazie ai molti giovani che vi si accostano, portando le loro idee fresche e innovative (per uno scherzo del destino, frutto di un enorme fraintendimento, gli universitari che il 30 novembre 2010 protestavano contro il ministro Gelmini portavano striscioni inneggianti a Monicelli, suicidatosi il giorno prima, dimentichi della carica reazionaria del suo cinema e della sua chiusura verso i giovani, che per lui andavano bene per i videotape e non certo per il cinema inteso come arte).
Monicelli non è riuscito a scoraggiare Nanni Moretti, come sappiamo. E nemmeno noi. Per Dafni e Cloe abbiamo puntato dritto alla sostanza, senza fronzoli: pellicola 16mm, luce naturale, scenografie leggere, niente teatri di posa, niente attori professionisti. Lo specifico cinematografico è altrove, non è una puttana che pretende tutti i tuoi soldi.
Nell’intervista rilasciata il 14 ottobre scorso a Repubblica Theo Angelopoulos ha dichiarato: «Ci sono giovani registi di talento che si danno da fare e magari fanno bella figura a Cannes o a Venezia, ma a che prezzo: per poter fare i film non si paga chi ci lavora, le cose sono possibili solo grazie a uno spirito solidale, cooperativo, si fa in nome dell’amicizia, entre nous. Credo sia sempre sbagliato togliere soldi alla cultura, ma oggi mi pare davvero una follia. Perché da solo il talento non può bastare, per fare le cose ci vogliono anche soldi e non ce ne sono più assolutamente». Lui parlava della situazione greca, ma siamo così sicuri che da noi sia diverso?
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bisogna sopperire alla carenza di risorse con ritmo e inventiva.Chi ama brucia
http://www.enquirer.com/editions/1999/10/24/dine3_550x392.jpg
Io credo che il rapporto creatività e fondi per cultura sia molto più complesso.
Naturalmente penso che i tagli a ogni servizio pubblico siano sbagliati. Ma pensiamo anche oltre:
Per prima cosa, qualunque fosse l’intenzione di Monicelli nel dichiarare che i giovani dovessero occuparsi di ‘video tape’, è un’indicazione più positiva che negativa. Ovvero il consiglio non è quello di non toccare più il cinema dei grandi maestri -semmai di non ripetere il loro linguaggio- ma molto più importante è l’attenzione alle technologie emergenti che questo commento contiene. Insisto, non interessa se Monicelli invitasse a lasciar perdere o meno, l’esortazione che va letta in questo commento è ‘non cercate di diventare come noi, trovate come potete essere voi nel vostro tempo, nel discorso technologico e politico che vi appartiene’. Altrimenti staremmo tutti a riscrivere l’Odissea in metrica. Non riesco a non vedere nel riferimento alla technologia leggera e economica del video tape l’intuizione di tutto quello che è venuto dopo, inclusa la piattaforma vimeo che ospita il video sopra. Nel 2011 optare per 16mm o alta risoluzione digitale è una scelta estetica, non semplicemente misurarsi direttamente con il mondo dei ‘grandi’.
L’altro aspetto è quello della creatività collettiva. Lamentare la partecipazione di parenti e amici nella produzione di un film significa non riconoscere il potenziale di un lavoro in cui non esista più la figura gerarchica del regista-autore-maestro. L’arte ha provato l’esperimento della partecipazione negli ultimi anni e ha spesso fallito miseramente proprio perchè non ha saputo abbandonare il ruolo privilegiato dell’artista-autore, che raccoglie la gloria e se c’è anche il danaro. Esiste, e chi lo ha provato lo sa benissimo, una libertà tutta nuova per la creatività quando si dissolve questa distinzione.
Io sono convinto che l’innovazione, l’originalità, il valore di un lavoro non siano nel conquistare lo stesso spazio estetico e politico di chi è già arrivato, ma nell’aprirne uno nuovo. È quello che mi ha sempre preoccupato come artista (anche se non per questo ci sono sempre riuscito).
Diverso non vuol dire peggiore. Nazione Indiana non è altro che questo, se non ho capito male.
ps: per non parlare della cultura edulcorata e trita che il danaro pubblico purtroppo sovvenziona.
@Mattia: mi sembra tu faccia un po’ di confusione tra diverse cose. Forse non hai capito molto bene il post e non hai sentito l’intervento di Monicelli. Monicelli dice che i giovani farebbero meglio a dedicarsi alla televisione e al “videotape” (una forma un po’ arcaica per designare le nuove tecnologie, credo) poiché il cinema è un discorso morto. Qui si sta parlando di cinema e non di tecnologie: il cinema non è una tecnica ma è attraversato da tecniche e questo è un discorso che Monicelli non ha mai capito. La tecnica del cinema di Monicelli, agli occhi dei Lumiere è già avanguardia, ma il terreno comune è quello, si parla della stessa cosa.
Per Monicelli, evidentemente, il cinema deve morire con lui. Ai giovani internet e la videoarte. Ma, vedi, anche Vimeo, così come l’attrezzatura leggera, la rivoluzione della presa diretta, del 16mm, del digitale, del cinema dslr, della distribuzione via internet (piccolo excursus storico dell’evoluzione tecnologica del cinema) vanno tutti in un’unica direzione: cercare nuove forme espressive, all’interno del discorso cinematografico, attraverso un utilizzo delle vecchissime e delle nuovissime tecnologie, senza distinzione. Utilizzare nuove tecnologie, fare i videotape, non vuol dire automaticamente innovare, ma – come è molto più probabile – ridurre l’arte a “semplice” tecnica.
Per fortuna la rivoluzione, che deve essere costante in ambito cinematografico, non passa attraverso l’innovazione della tecnica ma attraverso, soltanto, l’innovazione del linguaggio.
l.
Monicelli reazionario? Urca!
Probabilmente, anzi senza dubbio, nel mio commento sopra ho semplificato le cose, ma mi permetto di insistere su un punto: technologia e linguaggio non sono cose diverse, anzi sono esattamente la stessa cosa. Sono assolutamente convinto che il linguaggio stesso (nel senso stretto di lingua e parole) sia una technologia, probabilmente la principale nel nostro mondo.
Che il cinema sia ‘attraversato da tecniche’ mi sembra una definizione corretta, ma esisterebbe il cinema se si eliminassero quelle tecniche? Esiste uno specifico cinematografico astratto, a priori delle tecniche con cui assume il suo aspetto sensibile? Mi sembra una tesi improponibile.
Una tecnologia è un insieme di dimensioni, così come lo sono le dimensioni epistemologiche di spazio e tempo con cui organizziamo la nostra realtà e oltre cui non ci è nemmeno possibile pensare. Ovvero, la tecnologia in cui il cinema avviene (o la letteratura, o la televisione, o la pittura, eccetera) non è un supporto neutro ma la qualità specifica del cinema, è il cinema. Altrimenti sarebbe possibile tradurre da una technologia a un’altra senza perdere nulla e senza ritrovarsi con nulla in più. Un’economia perfetta tra segno e significato. Senza dubbio l’accumularsi storico di una tecnica finisce per creare uno strato immateriale che spesso assume quegli aspetti astratti, per non dire trascendenti, che fanno pensare che esistano cose come l’Arte, o la Poesia. Io credo invece che esistano solo persone che sono incuriosite, stimolate, coinvolte dalle leggi di quella tecnologia e che le mettono alla prova, creando quello che in gergo più specifico chiami discorso cinematografico, cioè la sua storia.
Non posso dire cosa davvero intendesse Monicelli, non ho visto il programma con la conversazione con Moretti, ma mi è sembrato un’ottimo punto di partenza per esplorare cosa o quale sia lo spazio estetico aperto da una tecnologia piuttosto che un’altra. Temo che altrimenti il rischio sia di commettere lo stesso errore di chi rifiutava la fotografia come un imbroglio perchè la giudicava dal punto di vista della pittura.
Dirò di più, lo stesso Moretti alla presentazione del suo (banale) Habemus Papam ha rifiutato di rispondere a domande su chiesa e psicoanalisi, piuttosto che su religione e contemporaneità che gli venivano fatte, e ha invece parlato di come gli interessasse filmare un uomo di potere che scappa attraverso le stanze di un palazzo. Poi ha scelto il papa perchè è un buon simbolo di uomo di potere e ha un palazzo con tante stanze (così ha detto). Ovvero ha parlato del lato artigianale, estetico del lavoro (con estetico non intendo superficiale o decorativo, ma le dimensioni sensibili, la parte fisicamente estesa di un evento). E proprio questo è il punto, quello che sopra chiami linguaggio cinematografico è una somma di tecnologie che è divenuto a sua volta una tecnologia e con questa si gioca come un intero o con le sue parti. Ma è proprio qui che le cose si fanno interessanti. Passare dal pesante e costoso apparato cinematografico -sceneggiatura, produzione, regia, attori, trucco, costumi, montaggio, distribuzione, fino a noi la domenica pomeriggio con la morosa- alle meraviglie e alle nefandezze di youtube non è una traduzione malriuscita, sono mondi diversi in cui si possono e si devono dire cose diverse. È proprio quello che all’inizio sembrava ‘malriuscito’ che si dimostra un’altra cosa, che nelle dimensioni che gli sono proprie è invece ‘riuscito bene’.
Se gli esempi sono possibili, farei questo: il passo cinema-videotape (o qualsivoglia) è un momento come un tessera del domino, le sue estremità possono combinarsi con direzioni diverse o continuare uguali a se stesse. Si può pensare al ‘videotape’ come a una ripetizione sminuita del cinema in 35mm o a una dimensione nuova.
Mi permetto anche un’altra osservazione, quando si parla di linguaggio visivo, cinematografico, musicale, o checchessia, si commette un errore grossolano con conseguenze enormi. Ciò che è visivo è visivo e basta, non è un linguaggio, ha le sue proprietà, le sue possibilità e i suoi limiti. La metafora ‘linguaggio visivo’ è comoda, specialmente ‘parlando’, ma crea una gerarchia che sottomette tutte le altre manifestazione creativo-significative al dominio del linguaggio verbale; implica la rappresentabilità di un significato astratto, che esiste in forma migliore, più pura nelle parole. E credo che non sia possible restare in queste distinzioni di stile hegeliano. Cosa che per fortuna non si da’ altrimenti ci annoieremmo a morte trovando esattamente le stesse cose in poesia, cinema, eccetera. Semmai, contro l’economia del segno=significato, il bello sta proprio nel cercare di avvicinare due dimensioni estetiche diverse giocando con tutto quello che si guadagna e tutto quello che si perde.
Mettiamola così, secondo me non c’è niente da ‘esprimere’ (come scrivi sopra), da spremer fuori, il senso di un lavoro sè già tutto ‘fuori’, si genera nel modo di combinare le proprietà della tecnologia in questione.
M
@Mattia, parte del tuo intervento lo trovo molto interessante, specie l’ultimo paragrafo che condivido appieno: gli anni ’60 e ’70 ci hanno riempito di noiosi libri sul linguaggio cinematografico.
Per il resto credo che restiamo sempre su un equivoco: il nostro intervento partiva da una specifica critica a Monicelli (e con lui a tutta una serie di vecchi maestri che la pensano in maniera identica) che nulla ha a che vedere con la piega che ha preso questa interessante discussione.
Ovviamente non può esistere cinema, arte, senza tecnica, ma una tecnica non crea da sé un nuovo “spazio artistico”. Un esempio perfetto è il cinema (o i videogiochi per restare sul recentissimo): l’invenzione del cinematografo, la possibilità di proiettare circa 18 fotografie al secondo, non ha creato il cinema. Cinematografo e cinema restano due cose molto differenti.
Ritornando a Monicelli, quando lui parla di videotape tu vedi un visionario mentre io osservo un vecchio retrogrado che crede l’arte nella quale sguazza sia un monolito che non cambierà mai dopo di lui (Monicelli era ambiguo sia nel cinema che nella parola, evidentemente). Il videotape per lui è un insieme a parte, uno spazio artistico differente e diverso dal Cinema vero, cioè il suo e quello della sua generazione. E mi sembra forzata l’interpretazione positiva che gli dai: non cerca di spingere i giovani a confrontarsi con le nuove tecnologie (che difatti disprezza in un altro momento dello stesso programma, quando sostiene che “Lo squalo” sia un film televisivo. E no, non parla di televisivo nel senso di hollywoodiano o di regia banale e scontata o, ancora peggio, parlando di distribuzione, ma proprio di televisivo come sinonimo di giovane, di linguaggio innovativo che non riesce a capire), semplicemente cerca di spingerli in un altro campo, in qualcosa che possono fare senza creare danni ai grandi classici del cinema tra i quali lui, sciaguratamente, si annoverava.
Il 35mm, il cellulare, l’hd sono tutti mezzi tecnologici che permettono di fare cinema. I video che vedi su youtube non sono cinema, non perchè siano su youtube o perchè sono stati fatti col cellulare. Non sono cinema perchè non vogliono esserlo. Non sono pezzi di domino che si combinano in fila o in ramificazioni diverse, mi sembrano più dei colori su una tavolozza: ne puoi utilizzare alcuni o di meno, ma finchè li tieni sulla tavolozza o li usi per dipingere un cesso non stai creando cinema, ma se li metti sulla tela, beh, allora forse stai facendo qualcosa (la metafora artistica qui potrebbe confondere un po’, creando un’ulteriore livello di complessità che non volevo aggiungere… comunque, fammela passare :)
Youtube di per sè è un fenomeno sociologico, non cinematografico. Così come il videotape: può essere un mezzo. Non è di certo il mezzo. E fossi stato in Moretti avrei risposto così a Monicelli: “il videotape lo userò per fare il mio prossimo film e creare dello splendido cinema”.
Fare i videotape non è fare cinema, per Monicelli. E i giovani dovrebbero dedicarsi proprio al videotape. Quindi, si evince facilmente dal suo ragionamento, i giovani non devono pensare al cinema.
Io non la penso così, tutto qui. Forse può averti tratto in inganno il fatto che abbia girato in 16mm e che io possa sembrare uno scalcagnato romantico che sogna di fare il cinema, ma ti assicuro che i miei film precedenti, da montatore durante la scuola di cinema, sono film di montaggio con spezzoni presi da youtube, film mezzi scaricati da torrent, video trovati in archivi web e così via. Un pout pourri di tecnologie differenti che creano cinema.
@Mattia: ho notato che alterni indifferentemente la grafia technologia e tecnologia: puoi illuminarmi? Grazie.
@Franco: ci sono molti modi di essere reazionari, uno è quello di tagliare i ponti ai giovani
@ matteo
mi scuso, è un puro errore. vivo in un paese anglofono che scrive ‘technology “, mi è scappato.
@ Luigi, evito di attribuire a Monicelli quello che ha o non ha detto, mi scuso per aver dirottato il post.
Però a questo punto mi permetto di aggiungere ancora un commento. Mi interessa la differenza che fai notare tra cinema e cinematografo. Hai ragione su questo punto. Però credo anche che sia proprio questo il momento ‘domino’ in cui 18 fotogrammi al secondo possono avere una valenza doppia: non voler dire niente di diverso dalle sequenza di fotografie degli esperimenti di Muybridge, oppure essere interpretati e diventare cinema. Credo che questo bivio, o divergenza, sia il momento in cui si apre lo spazio estetico specifico di una tecnologia. Poi quello spazio generarà il proprio carattere attraverso tutte le sfumature dell’uso che ne viene fatto.
Mi interessa anche quello che dici di youtube o dei videogiochi. È possibile che questo sia un’altro movimento divergente in cui dal cinema stanno emergendo due nuovi spazi che vedono separata l’immagine in movimento dalle idee, emozioni, e narrazione del cinema tradizionale? Da una parte, come giusamente dici, l’aspetto sociolgico di youtube che che consapevolmente o meno analizza e ripropone tutti gli stereotipi della cultura contemporanea, più alcuni disordinati momenti di informazione alternativa; dall’altra l’immersione sempre più pervasiva nell’azione e/o nell’emozione che sono proprie del cinema. Di nuovo questo avviene incrociando l’interattività (termine generico e abusato lo ammetto) della tecnologia digitale con l’estetica del cinema. Quello che può sembrarci ibrido o limitato al momento, perchè non corrispnde al modello originale precedente, potrebbe mostrare un’estetica autonoma successivamente.
@ Mattia: sono molto incuriosito dalla tua riflessione nel suo complesso, ti occupi professionalmente di queste cose? Noi siamo dei filmmaker e ci occupiamo di critica molto poco, il tuo intervento è un sicuro arricchimento al nostro post (anche se devo dire che a tratti sei uscito fuori tema!). Anch’io come Luigi sottolineo che non siamo assolutamente contrari al digitale, mica siamo scemi! Ho sulla scrivania l’ultimo numero dei Cahiers du cinema, la cui copertina recita “Adieu 35”, e se lo dicono loro ci credo! E girerò il mio prossimo film in digitale, è un documentario e il pensiero della pellicola non mi ha sfiorato neanche per un minuto anche se, certo, ancora c’è chi realizza degli ottimi documentari in pellicola (mi viene in mente Pietro Marcello).
Quanto a Monicelli, a prescindere dal caso particolare citato da noi, si può dire che il suo cinema sia rivoluzionario, innovativo, o almeno portatore di valori progressisti? Non credo proprio, le sue commedie sono tutto tranne che progressiste (anche belle, per carità, ma non mi si venisse a dire che in quei film si respira aria buona, di cambiamento). E l’italiano medio, Alberto Sordi, i vizi degli italiani… Direi anche basta, io credo che possiamo diventare un paese moderno e di ampio respiro e buttarci tutto questo alle spalle.
Ah, dimenticavo: grande diamonds, siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
@ Eugenio, rivelerò le mie carte: nei miei commenti il punto di riferimento è il saggio di Walter Benjamin “L’arte nell’Epoca della sua Riproducibilità Tecnica”. Quello che è valido ancora oggi di quel testo non è tanto l’analisi specifica della potenzialità del cinema nella lotta politica negli anni trenta (peraltro mai realizzata, anzi semmai appropriata proprio dallo spettacolo del capitale) ma il metodo che applica. Benjamin parla proprio della differenza che corre tra imporre a una tecnologia nuova il ruolo e il messaggio delle tecnologie precedenti e riconoscere cosa questa possa fare se liberata dall’alienazione della ripetizione dei modelli culturali esistenti (è un controsenso aspettarsi dal cinema quello stato di raccoglimento contemplativo che è proprio delle pittura, il cinema farà altro; da lì la famosa scomparsa dell’aura). Ora io mi chiedo, quale è “l’altro” che è possibile esplorare adesso? Non si tratta di imitare la pellicola in digitale, ma seguendo l’interpretazione del materialismo cha fa Benjamin, cercare quale spazio le tecnologie digitali -che pare siano la novità del momento- possano aprire. Insisto non è di traduzione che stiamo parlando, ma di nuovi paradigmi.
Per fare un esempio restando all’interno del discorso cinematografico di cui parlava Luigi, guarda questo lavoro del collettivo BlastTheory commissionato dal Sundance film festival : ‘A Machine to See With’
http://www.blasttheory.co.uk/bt/mov/mov_amtsw.html.
Storia da cinema noir, partecipazione presa a prestito dall’arte contemporanea, informazioni attraverso il software di un call centre per gli ‘attori’.
Questo intendo con ‘aprire lo spazio estetico’ specifico di una tecnologia. Io ritengo che il significato sia sempre specifico al linguaggio/medium che lo incorpora (ci sono anche dei lavori con i telefoni cellulari di un artista italiano che si chiama Alberto Garutti, ma non riesco a trovarli al momento)
Nei decenni passati l’arte ha spesso usato il ‘site specific’ come tattica, questo in realtà vale per tutte le istanze della significazione.
Non è il cinema di Tarkovsky, nè di Visconti, nè di … nessuno? Certo è la frontiera di quello che è possibile fare con le tecnologie a disposizione, altrimenti è una ripetizione.
Di qui viene il mio volontario fraintendimento della dichiarazione di Monicelli, mi piace pensare che il senso fosse: non fate come noi fate come voi.
Per rispondere alla tua domanda: no, non sono un critico; semmai quando mi riesce artista.
Postilla:
Agendo/pensando in questo modo é anche possibile agirare i problemi della mancanza di fondi di cui parlate nel vostro post. Come i rappers che senza soldi per farsi un video hanno fatto l’intera performance davanti a una telecamera di video sorveglianza poi grazie alla legge sulla trasparenza hanno ottenuto il filmato e ci hanno messo il sonoro.
Caro Mattia, io penso che si possa fare un discorso parallelo a quello che si fa per il romanzo: da una parte c’è l’arte del romanzo, da una parte c’è chi dice che il romanzo è morto e non si può fare altro che contaminarlo, ad esempio, con non fiction e fatti di cronaca. Ma poi si può arrivare a delle sintesi molto interessanti, come Elisabeth di Sortino. Però, a chi vuole praticare il romanzo come arte, non si può dire di mettersi a scrivere per forza Gomorra. Anche se Gomorra è un libro bellissimo. Ci siamo?
Non credo che sia una questione di accordarsi su un punto medio. Non rifiuto le forme esistenti, la mia domanda è quali siano le forme nuove che si possono seguire o inventare. Le ultime non escludono le prime. Non sono totalitario.
Scusate, qualcuno mi saprebbe dire come reperire questa trasposizione di Dafni e Cloe? Vi ringrazio
@Nashipae: per ora è privato, in attesa di una premiere. Comunque se mi mandi una mail a info@jumpcut.it faccio in modo da farti avere uno screener.
Grazie a te,
l.