Si chiama democrazia poiché . . .
di Antonio Sparzani
In questi giorni, sullo sfondo di quella situazione politica nazionale in avanzato stato di decomposizione che tutti conosciamo, sia in rete che nelle meglio bercianti trasmissioni televisive è stato nel solito disinvolto e superficiale modo ricordato – per ricordarsi di cosa sia democrazia – un discorso di Pericle ai suoi concittadini ateniesi, pronunciato, a detta di chi lo riportava, nel 461 a.C. E in effetti può essere in qualche modo rinfrescante rileggere discorsi pronunciati più di 24 secoli fa da chi aveva davvero contribuito a mettere in piedi un sistema di governo che, con gli imperdonabili difetti di ineguaglianza tra uomini e donne e tra liberi e schiavi che pure lo macchiavano, tuttavia costituì nei secoli un primo modello di quella che venne un po’ alla volta chiamata democrazia.
Naturalmente chi volesse guardare la cosa leggermente più da presso e, come si diceva talvolta, risalire alle fonti, scoprirebbe che tale discorso, pronunciato in verità nel 431, è inserito in una situazione ben precisa, che sarebbe opportuno ricordare con qualche maggiore dettaglio. Maggiore dettaglio che tra l’altro non fa che aggiungere interesse al testo, arricchendolo e permettendone una migliore comprensione. E allora proviamoci.
Era il V secolo, il periodo d’oro della potenza ateniese, vinti i Persiani, Atene conosceva il massimo del suo fulgore. Ma l’anno 431 a.C. fu l’inizio della fine: fu il primo anno della guerra del Peloponneso, quella tremenda guerra tra Greci che sarebbe terminata soltanto nel 404, con la sconfitta della potenza Ateniese a Egospotami, l’abbattimento delle lunghe mura e la resa a Sparta.
La fonte principale che abbiamo per tutta la storia della guerra è Tucidide (Atene, ca. 460 a.C. – dopo il 397 a.C.) che scrisse una Guerra del Peloponneso in 8 libri, opera di grande modernità, che staccava nettamente, quanto a metodi e criteri, rispetto alla tradizione storiografica precedente, ad esempio quella di Erodoto. Nel libro II dell’opera, Tucidide comincia a entrare nel merito dello svolgimento delle operazioni belliche, primi sconfinamenti spartani in Attica, scaramucce e battaglie vere e proprie. Gli Ateniesi devono commemorare e additare ad esempio i loro primi caduti, e questa è l’occasione: Pericle ne approfitta per cantare un inno alla potenza e alla fierezza di Atene.
Propongo di leggere con calma il racconto di Tucidide, chiaro, lucido e talvolta, nella rievocazione delle parole di Pericle, con lampi di grande tensione emotiva. Se avrete la pazienza di leggerlo tutto vi accorgerete di quanto sia più ricco, affascinante e insieme politicamente articolato di quanto non lo vogliano far apparire le versioni semplificate che in questi giorni corrono sul filo (o dovrei dire sull’etere?).
Eccolo:
«Nello stesso inverno gli Ateniesi, secondo il loro costume tradizionale, tributarono onoranze funebri di Stato ai primi caduti di questa guerra. La cerimonia si svolge nel modo seguente: tre giorni prima le ossa dei defunti vengono esposte in un padiglione rizzato per l’occasione, e ognuno presenta al proprio morto offerte a suo piacimento, poi, quando è il momento del funerale, le ossa vengono trasportate su carri, in arche di cipresso; vi è un’arca per ogni tribù, e i resti vengono deposti secondo la tribù di appartenenza d’ognuno. Insieme viene portata una bara vuota, allestita per i dispersi, i cui corpi al momento del recupero delle salme non siano stati trovati. Chiunque lo voglia, cittadino o straniero, può seguire il funerale, e sui luogo della sepoltura sono presenti in pianto anche le donne legate ai caduti da vincoli di parentela. Alle spoglie viene data sepoltura nel sepolcro pubblico, che si trova nella località più bella del circondario di Atene; i caduti in guerra sono stati sempre sepolti lì, ad eccezione dei morti di Maratona, ai quali in considerazione dell’eccezionalità del loro valore fu data sepoltura nel luogo stesso del sacrificio. Una volta che siano coperti di terra, un uomo, scelto dalla città, che sia apprezzato per le sue doti intellettuali e goda del massimo prestigio, pronuncia in loro onore l’elogio funebre che si conviene. Quindi la cerimonia ha termine. Così si svolgono le esequie; e per tutta la durata della guerra, ogni volta che ciò accadde, seguirono quest’uso. In onore di questi primi caduti fu scelto per tenere l’orazione funebre Pericle figlio di Santippo. Egli, quando fu il momento, lasciò il sepolcro e, fattosi avanti, sali su un’alta tribuna per essere udito il più lontano possibile dalla folla. Questo fu all’incirca il suo discorso:
“La maggior parte di coloro che sino ad oggi hanno qui tenuto l’orazione funebre rendono lode a chi per primo introdusse nella cerimonia tradizionale l’usanza di questo discorso, perché è bello — dicono — che si pronunci l’elogio dei caduti in guerra quando viene data loro sepoltura. A me, in verità, parrebbe sufficiente che uomini i quali hanno dato prova del loro valore con i fatti, con i fatti pure ricevessero gli onori loro dovuti, come appunto vedete sta accadendo oggi in queste esequie ufficiali: la fede nel valore di molti uomini non dovrebbe essere messa a repentaglio dalle maggiori o minori doti oratorie di un singolo. Perché è davvero difficile, quando è arduo persino dare solide basi al concetto che ognuno ha della verità, trovare nel proprio dire la giusta misura. Poiché se chi ascolta è stato testimone dei fatti e nutre sentimenti di benevolenza, può pensare che gli argomenti esposti non rendano un merito adeguato a quel che egli sa e vorrebbe; chi invece non sappia come sono andate le cose può essere indotto dall’invidia, se ciò che ascolta è al di là delle sue forze, a credere che nell’elogio vi sia dell’esagerazione. Le lodi rivolte ad altri sono infatti sopportate solo fino al punto in cui ognuno ritiene di poter essere in grado a sua volta di realizzare qualcosa di quel che ha udito; ciò che invece supera questo limite stimola l’invidia inducendo anche alla diffidenza. Ma dal momento che presso i nostri padri si affermò l’idea che fosse bello concludere così la cerimonia, conviene che anch’io segua questa consuetudine e tenti di venire incontro il più possibile ai desideri e alle aspettative di ognuno.
Prenderò innanzi tutto le mosse dai nostri antenati: in una simile circostanza è giusto e doveroso tributare loro l’onore del nostro ricordo, poiché nel susseguirsi delle generazioni essi ci hanno trasmesso, grazie al loro valore, una terra fino ai nostri giorni libera e abitata sempre dalla stessa gente. I nostri lontani progenitori sono degni di lode, ma ancor più Io sono i nostri padri che, in aggiunta a quel che avevano ricevuto, acquisirono l’intero impero su cui esercitiamo il nostro dominio e penarono per trasmettere anche questo a noi Ateniesi di oggi. Ma la massima espansione dell’impero la si deve a noi che oggi siamo ancora nel pieno della nostra età matura, e siamo stati noi a provvedere la città di tutto, rendendola autosufficiente sia in caso di guerra che ‘in periodo di pace. Ma io tralascerò le imprese di guerra dei padri e nostre, grazie alle quali il nostro impero si è gradatamente esteso, o le operazioni difensive che hanno visto impegnati noi o i nostri padri nel respingere gli attacchi portati da nemici barbari o greci — non voglio far lunghi discorsi davanti a chi queste cose le sa già. Prima di ogni altra cosa voglio invece esporre quali princìpi ispiratori ci abbiano mossi per giungere a tanto, sotto quale forma di governo e con quale modo di vivere sia nata la nostra potenza; solo dopo passerò a rendere l’elogio ai caduti, poiché ritengo che l’occasione sia particolarmente adatta per affrontare questi argomenti, e che sia utile farli intendere a tutta la folla di cittadini e di stranieri che si è radunata.
Il nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un trattamento uguale, ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio di cui possa godere chi si sia affermato in qualche campo non lo si raggiunge in base allo stato sociale di origine, ma in virtù del merito; e poi, d’altra parte, quanto all’impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia le capacità di operare nell’interesse dello Stato è di ostacolo la modestia del rango sociale. La nostra tuttavia è una vita libera non soltanto per quanto attiene i rapporti con lo Stato, ma anche relativamente ai rapporti quotidiani, di solito improntati a reciproco sospetto: nessuno si scandalizza se un altro si comporta come meglio gli aggrada, e non per questo lo guarda storto, cosa innocua di per sé, ma che pure non manca di causare pena. Ma, se le nostre relazioni private sono caratterizzate dalla tolleranza, nella vita pubblica il timore ci impone di evitare col massimo rigore di agire illegalmente, piuttosto che in ubbidienza ai magistrati in carica e alle leggi; soprattutto alle leggi disposte in favore delle vittime di un’ingiustizia e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune consenso minacciano l’infamia.
Nel nostro lavoro abbiamo provveduto a creare un gran numero di momenti di riposo per ricreare lo spirito, da un lato introducendo la consuetudine di gare e riti sacrificali che celebriamo per tutto l’anno, dall’altro coltivando il gusto di splendidi arredi privati, da cui traiamo un quotidiano diletto che rasserena l’animo. La nostra città è cosi grande che da tutta la terra ci arrivano merci di ogni tipo, e avviene che il piacere riservatoci dal godimento di beni degli altri paesi non ci sia meno familiare del gusto dei prodotti della nostra terra.
Anche nel modo in cui ci prepariamo alle pratiche di guerra siamo diversi dai nostri avversari. Offriamo la nostra città agli altri come un bene da godere in comune, e non accade mai che, decretando l’espulsione degli stranieri, allontaniamo qualcuno da un’occasione di apprendimento o da uno spettacolo, anche se l’assistervi può tornare utile ad un nemico, cui tale visione non sia stata impedita. In realtà più che dei preparativi e degli stratagemmi, noi ci fidiamo del nostro coraggio, di cui diamo prova nell’azione. E ugualmente avviene nell’educazione della gioventù: gli altri già da ragazzi tendono a raggiungere una piena virilità sottoponendosi ad un durissimo addestramento, ma noi, nonostante il nostro modo di vivere più rilassato, non affrontiamo certo con minore ardire pericoli di uguale gravità. E questa ne è la prova: gli Spartani non effettuano da soli una spedizione contro la nostra terra, ma vengono con tutti i loro alleati, mentre, quando noi attacchiamo un altro paese, pur combattendo in terra altrui contro un nemico che lotta in difesa dei propri beni, di solito non facciamo fatica ad avere la meglio Mai nessun nemico si è sinora scontrato con tutte le nostre forze in una volta, perché molti sono impegnati con la flotta ed altri, contemporaneamente partecipano a spedizioni terrestri che hanno di mira obiettivi molteplici. Ma se ingaggiano battaglia con solo una parte di esse, se riportano la vittoria su alcuni di noi, si vantano di averci messi in fuga tutti, e se invece vengono sconfitti, allora — a loro dire — sono stati sopraffatti dalle nostre forze riunite. Eppure se ci disponiamo ad affrontare i pericoli vivendo in modo disteso più che esercitandoci a sostenere le fatiche, e dando prova di un valore che è frutto più di doti naturali che dell’imposizione delle leggi, ne risulta per noi un vantaggio, quello di non patire in anticipo per le afflizioni venture, e di affrontarle poi senza dimostrare un ardire minore di quelli che hanno costantemente penato — è per queste ragioni che la nostra città merita di essere ammirata, e poi per altro ancora.
Amiamo il bello, ma non lo sfarzo, e coltiviamo i piaceri intellettuali, ma senza languori. La ricchezza ci serve come opportunità per le nostre iniziative, non per fare sfoggio quando parliamo. E ammettere la propria povertà non è vergogna per nessuno: ben più vergognoso è piuttosto non darsi da fare per venirne fuori. La cura degli interessi privati procede per noi di pari passo con l’attività politica, ed anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo i soli a considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille, ma buoni a nulla. E siamo gli stessi a partecipare alle decisioni comuni ovvero a riflettere a fondo sugli affari di Stato, poiché non pensiamo che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono. Giacché anche in questo siamo differenti: sappiamo dar prova della massima audacia e nello stesso tempo valutare con distacco quel che stiamo per intraprendere; mentre, per tutti gli altri, l’ignoranza spinge all’ardimento, la riflessione induce ad esitare. Ma sarebbe giusto riconoscere la maggior forza d’animo a quelli che, pur conoscendo assai bene sia i pericoli che gli aspetti piacevoli della vita, non per questo si sottraggono al rischio. Anche per nobiltà d’animo siamo all’opposto rispetto ai più; noi non stringiamo le nostre amicizie per ricavarne vantaggi, siamo noi piuttosto a procurarne: il favore del benefattore è sempre più costante, poiché un comportamento benevolo garantisce per sempre la dovuta riconoscenza; chi invece è in debito e deve ricambiare, non è animato da un sentimento altrettanto vivo, poiché sa bene che i servigi che egli potrà rendere a sua volta non verranno considerati come un favore spontaneo ma come il risarcimento di un debito. E siamo i soli a prestare liberamente aiuto agli altri non tanto per calcolo ma piuttosto in pegno di libertà.
In sintesi, affermo che la nostra città nel suo insieme costituisce un ammaestramento per la Grecia, e, al tempo stesso, che da noi ogni singolo cittadino può, a mio modo di vedere, sviluppare autonomamente la sua personalità nei più diversi campi con grande garbo e spigliatezza. E che queste siano non pompose parole di circostanza ma verità di fatto lo prova proprio la potenza della città, che abbiamo raggiunto grazie a queste qualità. Oggi infatti essa è l’unico Stato che ad ogni verifica risulti superiore alla sua fama, l’unico che non susciti nel nemico che l’abbia attaccata un amaro risentimento nel considerare quale sia la causa delle proprie angustie, né scateni il malcontento dei sudditi che si vedono dominati da signori indegni. Grandi sono i segni della sua potenza, non certo priva di attestazioni, che noi abbiamo affidato all’ammirazione dei contemporanei e di quelli che verranno, e non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria né di chi con le sue parole procurerà un diletto immediato, dando però un’interpretazione dei fatti che non potrà reggere quando la verità si affermerà: con la nostra audacia abbiamo costretto il mare e la terra interi ad aprirci le loro vie, e ovunque abbiamo innalzato alle nostre imprese, siano state esse sfortunate o coronate da successo, monumenti che non periranno. Ed è per una tale città che questi uomini hanno affrontato nobilmente la morte in combattimento, ritenendo che non fosse giusto perderla, ed è naturale che ognuno di quelli che restano volentieri per essa affronterà ogni travaglio.
Questo è il motivo per cui così a lungo ho parlato della nostra città: volevo infatti farvi capire, adducendo anche delle prove per dare solide basi al mio elogio di coloro in onore dei quali oggi ho preso la parola, che le ragioni della nostra lotta non sono le stesse che possono animare quelli che non hanno nulla di tutto ciò. Ma di quest’elogio il più è stato ormai detto, poiché la gloria della città a cui ho sciolto un inno rifulge proprio grazie agli alti servigi che questi uomini e altri come loro le hanno reso, e non per molti Greci si potrebbe cogliere, come nel loro caso, un perfetto equilibrio fra fatti e parole. Il valore di questi uomini è provato, a mio avviso, dalla morte che ora essi hanno incontrato: essa è stata per gli uni la prima rivelazione, per gli altri l’ultima conferma. E, pure se alcuni non avevano dato per il resto buona prova di sé, è giusto anteporre a tutto la nobiltà d’animo da loro mostrata in guerra, in difesa della patria, poiché essi hanno cancellato il male col bene, procurando allo Stato un vantaggio maggiore del danno derivante dalle mancanze commesse in ambito privato. Nessuno di loro si è mai comportato da vile preferendo godersi in pace le proprie ricchezze, né ha arretrato dinanzi al rischio per la speranza, che si nutre quando si è poveri, di poter ancora sfuggire a tale condizione di povertà e diventare ricchi. Prendersi la vendetta sul nemico è stato per loro un desiderio più forte delle ricchezze, e questo essi l’hanno considerato al tempo stesso il rischio più esaltante da affrontare; e con esso hanno voluto da un lato prendersi la vendetta, dall’altro esaudire le loro aspirazioni affidando alla speranza l’incertezza del successo futuro, ma nell’azione concreta per l’immediato ritenendo giusto confidare solo in se stessi. E, proprio nel vendicarsi sul nemico, preferendo affrontare il sacrificio estremo piuttosto che salvarsi grazie a un cedimento, hanno evitato una fama vergognosa: hanno fatto fronte all’impresa offrendo il proprio corpo. E nel momento brevissimo in cui si è compiuto il loro destino ed essi hanno lasciato la vita, non il timore ha toccato il culmine, ma la loro gloria.
La grandezza di questi uomini è stata quale si conviene alla nostra città; quelli che restano devono sì fare voti che i loro propositi contro i nemici abbiano una sorte migliore, ma non devono nemmeno ritenere possibile un comportamento più codardo. Non badate solo alle parole che vi illustrano i vantaggi di un agire magnanimo: si potrebbe anche lumeggiarli a lungo — a chi, come voi, li conosce però altrettanto bene — dicendo quanto sia utile difendersi dai nemici. Ma quel che occorre fare piuttosto è considerare nella realtà, giorno dopo giorno, la potenza della nostra città, e innamorarsene; e se vi sembra che sia grande, dovete pensare che ad acquisirla furono uomini capaci di osare, consapevoli dei loro doveri, animati nel loro agire da un vivo senso dell’onore. E se pure talora non avevano fortuna in qualche tentativo intrapreso, avrebbero ritenuto indegno privare la città del loro valore; gliene facevano quindi dono: era il più bello che potessero offrirle, perché donando la loro vita per il bene comune ricevevano come personale compenso l’elogio che il passare degli anni non intacca e la più insigne delle sepolture — che non è quella in cui giacciono i loro corpi, bensì quella ideale in cui la loro gloria resta, sorretta da un ricordo perenne, che si rinnova ad ogni occasione che si dia di parola o di azione. Poiché sepolcro degli uomini illustri è la terra intera [ ἀνδρῶν γὰρ ἐπιφανῶν πᾶσα γῆ τάφος ], e non è solo l’iscrizione sulla stele funeraria posta nel loro paese a parlare di loro, ma anche in terra straniera, un ricordo di cui non v’è traccia scritta vive in ognuno e ne anima lo spirito più che l’agire.»
Da: Tucidide, La Guerra del Peloponneso, edizione con testo greco a fronte a cura di Luciano Canfora, Einaudi-Gallimard 1996, pp. 225-241, la traduzione del libro II è di Mariella Cagnetta.
Ho preferito questa traduzione a quelle che si trovano in rete, ad esempio qui e qui.
Sicuramente Pericle non declamava come Lucrezia Lante della Rovere, con quel tono vagamente scespiriano…
I molti, e non pochi – quei pochi che oggi si chiamano banche e Sim.
“democrazia: regime politico definibile come unione di tutti i cittadini, che possiede ed esercita collegialmente un diritto sovrano su tutto ciò che è in suo potere”. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XVI