ritagli da un’intervista fallita
di Flavia Piccinni
Non esistono interviste facili, ma quando la missione è intervistare una donna che ha quasi 100 personalità tutto si complica. C’era da aspettarselo, quindi, che intervistare Kim Noble sarebbe stata una vera e propria impresa, a partire dall’entourage che la circonda: un agente letterario (tale Robert Smith) che sembra affetto da amnesia cronica, una casa editrice (Little Brown) diffidente e instabile almeno quanto l’autrice che rappresenta. E poi c’è lei, Kim Noble, cinquant’anni, capelli biondi lunghi fino al seno, sguardo sperduto e aria da star che, quando provi a contattarla, la prima volta è disponibile, la seconda non si ricorda più chi sei, e la terza ti manda al diavolo. Poi torna gentile e affabile, anche se non si sa bene per quanto a lungo, e decide di raccontare della sua carriera d’artista, cominciata nel 2004, e di quella da scrittrice, appena intrapresa con l’uscita in Gran Bretagna del suo primo libro, All of me.
La disponibilità dura quanto un soffio perché poi Patricia (la personalità predominante, quella che firma le email, che rilascia in grande spolvero interviste al Guardian per poi dimenticarsi subito dopo chi è, che gestisce una figlia adolescente che le è stata a più riprese sottratta e restituita dai Servizi Sociali come un pacco il cui mittente è a volte giusto e a volte no – e, in fondo, è proprio così: a volte Patricia lascia davvero spazio a Kim Noble, a volte diventa l’aspirante suicida Rebecca, a volte la bulimica Judy, ecc.) perde la testa, dice che l’inglese è incomprensibile, dice che lei non può rispondere perché il libro, dopo la fiera di Francoforte, ha trattative in Italia e allora è meglio aspettare l’uscita per controllare gli articoli e rendere un’immagine unica e chiara di chi sia Tutto questo ha qualcosa di surreale, come solo alcune interviste impossibili – fatte a personaggi deceduti da decenni – riescono ancora a essere. Perché il sapore della star che controlla la sua immagine (come sottolinea anche il suo agente artistico che mi spiega “Kim is a real star”) è quantomeno incomprensibile se applicato a una donna che ha fatto del disturbo mentale il suo unico punto di forza, gestendo l’auto-terapia come una macchina per far soldi: quadri e libri, interviste, i lunghi capelli biondi e l’aria spaesata. Ma forse la capacità di saper mercificare il proprio dolore, la propria sofferenza, difende ancora qualcosa di apprezzabile e unico benché, ormai, appartenga sempre di più alla norma. Alla quotidianità catodica e letteraria. E poi, effettivamente, deve essere complicato rispondere a delle domande sulla propria arte se in quel momento non ci si sente più un’artista (e dire che una mostra della Noble, One Of Many, verrà inaugurata il 9 novembre alla Bethlem Gallery a Beckenham, nel Kent). Non si può parlare della propria scrittura e di chi si è veramente se in quel momento non lo si decifra. Lasciando da parte i ragionamenti, che pur sarebbero legittimi e naturali, su chi davvero possa affermare con certezza di conoscersi, forse è un po’ cinico pensare che la malattia – che il Disturbo della Personalità, una delle patologie psichiatriche più affascinanti e complicate da curare e da raccontare – venga usata da questa donna per fini autopromozionali. Eppure questa presa di coscienza intermittente desta un po’ di sospetti. Proprio come quando lo scorso ottobre Kim Noble è comparsa con sua figlia all’Oprah Winfrey show, il talk più seguito d’America, che ha fatto schizzare in alto le quotazioni dei suoi quadri e l’ha presentata negli USA dove era pressoché sconosciuta. Allora Kim Noble sapeva benissimo chi era: una donna senza memoria, una donna che può cambiare anima per cinque volte al giorno. Cinque anime, manco a dirlo, che sono un compendio di patologie. C’è la bulimica già citata, l’aspirante suicida già citata, l’anoressica, l’adolescente incompresa che fa i capricci, l’uomo stanco e un po’ misogino. C’è di tutto. E nella stessa persona. In questa donna che ha rinunciato all’amore perché lo ritiene impossibile, che ha rinunciato alla famiglia, ma non al palcoscenico. In questa donna che ha continuamente dei vuoti di memoria, non si ricorda che per pochi significativi istanti di aver subito da bambina quegli abusi e violenze che probabilmente hanno condizionato la malattia che tutt’oggi la tormenta, non riesce a mettere a fuoco la prima volta che è stata qualcun altro, la prima volta che guardandosi allo specchio non si è riconosciuta più. Ma il confine fra la sincerità e la menzogna, fra l’apparenza e la realtà, fra la confusione reale e quella gestita ai fini autopromozionali è troppo labile. Troppo labile in una società che più che gli scrittori e gli artisti cerca casi umani, cerca personaggi, cerca la disperazione e promuove chi ha la capacità di esternarla, monetizzando la propria vita. Troppo labile e dicotomica. Proprio come Kim Noble, che probabilmente non farà fatica a trovare un editore italiano disposto a pubblicare le sue memorie di donna senza memoria firmate con il giornalista Jeff Hudson. Forse è per questo che non ricorda di cosa racconta. Forse. Ma, a dirla
[l’immagine in apice è In is own world di Kim Noble, viene da qui]
I commenti a questo post sono chiusi
A me, è già simpatica.
Non deve essere facile vivere con 13 alterego diversi. Io ce n’ho due e già mi sembra un casino. Bel pezzo comunque, Flavia, con chiusa postmoderna.
Grazie Massimiliano, ma la geniale chiusa non è opera mia. Non so se è più difficile per lei, o per chi deve intervistarla. Forse per il suo agente, che ha deciso (inspiegabilmente) di imitarla.