Qualche domanda a Marino Magliani: la Liguria, la frontiera, l’edera

di Giacomo Sartori

GS Tu sei originario della Val Prino, in provincia di Imperia, una zona aspra ma anche dolce che è presente marginalmente anche nell’ultimo tuo romanzo La spiaggia dei cani romantici (Instar Libri, 14 euro), che pure è ambientato in Argentina e in Spagna, così come in un modo o nell’altro in tutti i tuoi romanzi precedenti. I tuoi personaggi vengono però sempre da altrove, o partono per altrove, e anche gli stessi abitanti della tua terra sono in realtà spesso stranieri venuti a stabilirsi lì. Fino a che punto in questa “promiscuità geografica” dei tuoi testi c’è l’esperienza dell’autore, sapendo che tu da bambino il confine lo passavi al seguito di tuo padre, che andava a lavorare in Francia, e sapendo che hai vissuto gran parte della tua vita adulta all’estero, e che ora da molti anni vivi in Olanda?

MM La frontiera la sento più come regione e non come taglio netto, dentro o fuori. In realtà la mia Liguria, la valle che racconto solitamente e ossessionatamente, è ancora assai lontana dalla Francia. E per me la Francia, prima che un posto, come ricordavi tu, era la terra da cui mio padre portava il pane, Francia esisteva solo in dialetto: a Fransa.  Il profumo che avevano i turisti francesi, le magliette pulite col coccodrillo, le vestaglie colorate e le capigliature ricercate delle donne, rendevano quella gente così diversa dai contadini in canottiera e dalle nostre madri con il fazzoletto in testa, che la Francia mi sembrava un posto lontanissimo. Poi d’estate, a sette otto anni anni, ho cominciato a passare il confine e a trascorrere dei periodi nelle città balneari dove mio padre faticava. Allora si può dire che non ho scoperto la Francia ma la parola Liguria, le cose si prendono un nome quando le pensi. Quello fu anche il tempo in cui ogni anno a ottobre, ma a volte anche addirittura ai primi di agosto, e qui rispondo alla tua domanda, lasciavo la Liguria per un collegio in Piemonte. E dicono che quando vai via di casa da bambino non torni più. Non so perché, ma quando a decidere potevo essere finalmente io, ho iniziato a viaggiare anziché restare.

GS Perchè sei partito tu? Io ricordo benissimo che per l’università ho scelto una città dove di solito gli studenti della mia città non andavano, e una volta laureato volevo solo andare partire, andarmene all’estero: non ne potevo più. Come dire, non è affatto il caso che mi ha portato via.

MM Restare avrebbe significato restituire a una parte di me la Liguria che mi era mancata. Andare via significava non far vedere a quella parte di me stesso cosa s’era perso. Forse. E non ero mica un emigrante che andava via per questioni economiche, dove andavo mi aspettavano, talvolta, le stesse ristrettezze che in vallata. Andavo via – che significava metter cose in uno zaino – per affrontare l’incerto, e la prospettiva di dover dormire in stazioni, sulle panchine, in scarpate di strade, vigne, sotto palme, giardini pubblici, spiagge, persino sotto le barche capovolte. E quando tornavo – erano gli anni ottanta – e vedevo il benessere che c’era allora in Italia, mi chiedevo ma perché? Ma dove vai. Sai, quando me lo chiedevo? Esattamente quando entravo attraverso quella frontiera, quella ferroviaria di Ventimiglia. E ricordavo “a fransa”. Per me è una sorta di terra estrema, il mio far west, oltre comincia il mare. La Francia della preistoria, la Spagna delle notti brave, persino l’Olanda dove vivo ora (prendo sempre un aereo a Nizza e al ritorno sbarco ancora a Nizza) sono quel mare. Io non so se a te succede pure col Trentino, ma quando attraverso la mia frontiera, non esco dall’Italia, ma dalla Liguria e basta.

GS Ma naturalmente quella dei tuoi romanzi è una Liguria tutta tua, una Liguria in cui il passato è onnipresente, ma come rovina, come vestigia abbandonate impregnate di mistero. Non per niente ritornano così spesso i muri che cascano, le frane. Tutto ciò in una cultura, e penso anche alla nostra narrativa, sorda alle urla del paesaggio, cieca nei confronti dei legami ormai rimossi, ma in realtà molto forti, con l’ambiente. Ma secondo me è proprio l’occhio del reduce che tu sei che questi legami li avverte come essenziali e ineludibili. E’ così?

MM In La spiaggia dei cani romantici convivono due Ligurie, quella che conosce il personaggio Almeja, un reduce della guerra delle Malvinas, che è la Liguria della mia valle, e cioè quella che risale il Prino dalla cittadina di Porto Maurizio, e la Liguria della Val Nervia, dove torna ad abitare un vagabondo che da giovane ha fatto della vita mondana il suo credo e ora vive una vita quasi monacale, tagliando e vendendo l’edera, uno strano rampicante. L’edera è la pianta che col suo volume nasconde il senso delle cose, e la loro immagine nel tempo: un muro, un angolo di casa, un tronco di ulivo. Nasconde insomma lo stato attuale delle cose e solo dopo il taglio dell’edera si scopre se il muro regge ancora o era crollato da tempo. Se l’ulivo era seccato. Togliere l’edera da una pietra non significa liberarla, le ventose dell’edera penetrano il minerale per sempre, il segno diventa solco. Restare avrebbe senso solo se si riuscisse a lasciare quel segno. Sennò tanto vale provarci altrove. L’edera è una pianta della modernità, un tempo i contadini non la lasciavano attecchire, i ceppi degli ulivi e i muri erano scuoiati da ogni immondo rampicante. Ora è diverso, ora a volte è solo ormai l’edera a tenere intatto il muro. Ma troppo spesso è proprio l’edera a infilarsi e farsi robusta a tal punto di alzare e smuovere le pietre e anticipare il crollo.

GS In altre parole si potrebbe dire che non c’è posto per te, nella Liguria che descrivi meglio di chiunque altro scrittore attuale, che solo nella tua condizione di esule riesci a imprimere il segno di cui parli.

MM Era esattamente un ragionamento che avevamo fatto con lo scrittore Marco Rovelli un giorno che si passeggiava per queste dune. In altre parole si potrebbe dire che non c’è posto per me, se non nella mia Liguria inattuale. Lo scrittore o il poeta esule non descrive meglio, però riesce a dire “nunca vi a Granada”.

 

Marino Magliani, narratore e traduttore ligure, ha scritto tra le altre cose i romanzi Quattro giorni per non morire (Sironi), Il collezionista di tempo (Sironi), Quella notte a Dolcedo (Longanesi) e La tana degli alberibelli (Longanesi). Collabora con Nuovi argomenti, e i suoi romanzi e racconti sono tradotti in olandese. E’ in uscita adesso Amsterdam è una farfalla (Ediciclo).

 

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8 Commenti

  1. Dal lato francese/ per me il confine non è il paesaggio, il paesaggio del sud: il cipresso, il mare, il vento, il cielo, la montagna: è la lingua. Quando per la prima volta ho passato la frontiera, era una frontiera di lingua/ Nomi delle stazioni biano e blu/ panetteria/ tabacco/ Giornali/ alberghi: da un tratto ero in Italia, e la mia lingua interiore, francese, era un territorio che abbandonavo, quando l’onda se ne va: lascia la spiaggia nuda- la spiaggia era di voci- mi sembravo che la lingua italiana era dapertutto, viva, visibile, più visibile del paesaggio- avevo in me una possibilità di libertà- che ho ancora- valicare la mai passione per la lingua francese- inventare un’ altra regione di amore nel
    ricordo dell’ amore italiano, di una voce che diceva in francese con l’accento italiano.

  2. “Dal lato francese/ per me il confine non è il paesaggio, il paesaggio del sud: il cipresso, il mare, il vento, il cielo, la montagna: è la lingua. Quando per la prima volta ho passato la frontiera, era una frontiera di lingua/ Nomi delle stazioni biano e blu/ panetteria/ tabacco/ Giornali/ alberghi: da un tratto ero in Italia, e la mia lingua interiore, francese, era un territorio che abbandonavo, quando l’onda se ne va: lascia la spiaggia nuda- la spiaggia era di voci- mi sembravo che la lingua italiana era dapertutto, viva, visibile, più visibile del paesaggio- avevo in me una possibilità di libertà- che ho ancora- valicare la mai passione per la lingua francese- inventare un’ altra regione di amore nel
    ricordo dell’ amore italiano, di una voce che diceva in francese con l’accento italiano.”

    Quando Véronique scrive di Italia e di sud in particolare mi lascia stupefatto e mi incanta.

    Credo sia un’anima sensibile e interprete del pianto delle cose.
    Buonanotte Véronique, che la notte ti sia lieve.

  3. Finalmente un po’ di tempo a disposizione mi consente un grande abbraccio a Marino Magliani.
    C’eravamo accordati per un incontro a Dolcedo nell’estate di diversi anni fa, perchè io la sento quella terra, amo i luoghi di Marino e lui lo sa.
    Poi, per certe disavventure, quell’anno rinunciai alle mie abituali ferie in Liguria. Avvertii Marino, che mi rispose con un pizzico di rammarico. O almeno così credetti di interpretare.
    Oggi, a distanza, me ne scuso ancora, la cosa non dipese da mia volontà, caro Marino, e purtroppo la Liguria non figura più tra le mete estive. Inutile argomentare.
    Tornarci ci torno, ma per qualche mordi e fuggi, come quando si è trattato dei “Dogi” di Camogli. Ma noi sappiamo che Ponente, il tuo Ponente, ha un fascino di terra persa e fantastica che l’altro non ha.
    Un abbraccio

    Carlo Capone

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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