Il nome giusto
Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle grazie, 234 pag.
Per alcuni autori la vita vince sulla scrittura, per altri la scrittura la sbaraglia. Non esiste vita se non attraverso i libri, non esiste esperienza se non condizionata dall’arte. Sergio Garufi sembra appartenere a questa categoria. La mediazione artistica, la citazione dotta, l’ammicco letterario, il rimando implicito, non devono però sembrare uno scudo per difendersi dalla vita; non sono una corazza che esclude il principio di realtà, semmai appaiono come una seconda pelle perfettamente aderente all’autore che amplifica la percezione emotiva del mondo.
Il nome giusto si apre, in effetti, col più irrealistico (e citatissimo) incipit immaginabile: un uomo, appena investito da una macchina, si rende conto di essere morto e allo stesso tempo di poter vedere il mondo da questa posizione di privilegiata condanna. Alla ricerca di un modo per poter essere dimenticato da chi lo ha amato in vita, per poter cioè finalmente abbandonare questa meta-realtà e disperdersi nel nulla, il protagonista, grazie all’ausilio, di capito in capitolo, di alcuni suoi libri svenduti ad un libraio, ripercorrerà la sua stessa esistenza: gli amori perduti, l’infanzia, i drammi familiari, il lavoro.
Garufi per sua fortuna è un autore esordiente ma non un “giovane autore”. Scrive con estremo equilibrio un libro che non è precisamente un romanzo (di “sformazione” borghese), ma una sorta di patchwork – simile a quelli venduti dal protagonista antiquario – composto da materiali nobili (mémoire, dissertazioni, divagazioni, aforismi) assemblati in apparenza senza alcun ordine narrativo, se non quello del gusto personale. Ma strada facendo ci si accorge di avere fra le mani di volta in volta non scampoli ma tessere di un mosaico che incastrandosi raccontano la resistibile discesa nell’anonimato di un uomo senza qualità, ossessionato dai suoi oscuri e irrisolti drammi familiari. La vita, insomma, l’autobiografia tel quel, si fa prepotente e crudele, fino a vincere sulla letteratura stessa.
[pubblicato su Cooperazione n. 32 del 9 agosto 2011]
Dopo aver letto diverse recensioni la cui caratteristica comune era di lasciar trapelare l’idea del “capolavoro di un esordiente maturo”, mi sono decisa a comperarlo e leggerlo.
L’idea è interessante ma ,seppur consapevole che siamo nell’epoca del “un capolavoro non si nega a nessuno”, ho trovato lo sviluppo della storia piuttosto schizoide, non armonico, poche “tessere di un mosaico” e molto schegge impazzite.
Non mi sono piaciuti nemmeno gli eccessi “linguistici(?)” -la prima parte del libro non riesci a leggerla senza un dizionario a fianco- a causa di un utilizzo lezioso e pedante delle parole la cui scelta non aggiungeva nulla alla lettura, anzi, la interrompeva in modo che io ho trovato poco carino.
Dalla eccessiva ricercatezza si passa poi ad una carrellata di personaggi scontati e palesemente simpatici o antipatici, questo è buono quello no.
Giusto il finale si riscatta un pochino.
Due osservazioni conclusive ancor più soggettive di quanto sopra:
-adoro Borges e proprio per quello lo considero un fatto talmente privato che farlo diventare un episodio simile a quando sono riuscita a farmi fare l’autografo da Bono mi infastidisce
-sono cresciuta avendo quasi sempre un cane accanto a me e ricordo con dolore ogni perdita, il liquidarne una mezza dozziona in una pagina e mezzo mi ha fatto molto pensare…
Magari il prossimo mi piacerà di più.
bella recensione: restituisce fortemente l’elemento vitale- seppur da un presupposto mortifero- e biografico, di un fantasma più vivo che mai nei pensieri e negli agiti del protagonista.
mi è piaciuto molto.
cristiano
eh si, B. è proprio bravo.
Anche a me è piaciuta; finalmente una recensione che restituisce il testo! Ciao biondillo, monica
Anna, la parola “capolavoro” l’ho cercata lungo tutta la mia recensione ma non l’ho trovata.
In compenso la parola “capolavoro” l’ho usata io, che pur ne faccio un uso assai limitato, qui:
http://lucioangelini.splinder.com/post/25448333/il-nome-giusto-per-il-patchwork-di-sergio-garufi-e-uno-solo-capolavoro
Come qualcuno ricorderà, la castagna della recensione vera l’ho poi passata a Juan Louis Borges proprio qui in Nazione Indiana.
Hai ragione Gianni, infatti io ho scritto “lasciar trapelare l’idea..” ma forse avrei dovuto scivere che “io avevo percepito l’idea….”.
Concordo anche con la qualità della tua recensione, soprattutto la prima parte in cui descivi quello che è l’obiettivo dell’autore che però, secondo me, non è stato raggiunto.
La sensazione generale che ho provato durante la lettura è che l’autore ( o l’io narrante -?-) non sia affatto interessato alla percezione emotiva del mondo a meno che per mondo non si intenda se stessi. Ma non vorrei proprio accanirmi su questo libro anche perchè molti altri attendono.
Ehi, palati fini! A me è piaciuto. E’ vero, è “mortifero”, ma la scrittura cristallina rapisce dal primo capitolo e da subito si ha voglia di ascoltare quella che nella sostanza somiglia a una confessione in punto di morte e che non sconfina mai nell’invettiva. Quanto al fatto che l’autore sia interessato o meno a un mondo che non intenda sé stessi: mah. Forse è vero, visto il fortissimo spunto autobiografico in una cornice di finzione, ma alla fine, che cambia?