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Vocabolario

H
La H è il simbolo degli ospedali,
ma gli ospedali stanno sparendo dai paesi.

di Franco Arminio

[Ci sono parole che incastrate una dentro l’altra, o a mezzo, fanno intendere sempre che il sud degli altri è anche tuo. Ci sono frasi che una dietro l’altra, o avanti, rimandano una immagine nella quale è impossibile non riconoscere un particolare, o riconoscersi, semplicemente. Terracarne di Franco Arminio (Mondadori, 2011) è un caleidoscopio di sud e di particolari. Perché il sud è particolare e perché molti particolari, minuzie, scarti, aberrazioni visive sono a sud, dove le cose possono giacere non viste per anni e dunque marcire, disseccarsi, ma pure fiorire. Vocabolario è uno dei pannelli di cui si compone Terracarne che è un libro nel quale i particolari fioriscono sempre, almeno per me. Questo è il giardino. (cv)]

Appennino
L’Italia ha una lunghissima colonna dorsale che sta perdendo poco a poco la sua linfa. La gente sceglie di abitare nelle città e, quando sceglie i paesi, ha sempre cura che siano comodi e pianeggianti. Nessuno vuole stare nei luoghi più impervi, quelli dove gli inverni sono lunghi e non passa nessuno. L’Appennino è l’Italia che avevamo e che rischiamo di perdere per sempre. La gente ci ha vissuto per millenni consumando quel poco che bastava a sostentarsi. Penso all’Appennino come alla vera cassaforte dei paesi, una cassaforte piena di monete fuoricorso. Ci sono zone in cui il paesaggio è ancora incontaminato ed è come deve essere: solitario e sprecato. Cosa augurarsi per queste terre? Più che chiedere politiche d’incentivazione, verrebbe voglia di incentivare l’esodo, in maniera tale che tornino le selve, che la natura riassorba le folli smanie cementizie che non hanno edificato niente di bello e che non hanno portato reddito. Una nazione con un filo di montagne disposto in tutta la sua lunghezza dovrebbe ricordarsi più spesso di questa sua geografia. Io credo che sia arrivato il tempo di considerare l’Appennino come il luogo in cui si raccoglie la forza del passato e quella del nostro futuro. Dalla Liguria alla Calabria, adesso, è tutta una storia di frane e spopolamento, di vecchi dismessi e di scuole che chiudono, di paesi allungati, spezzati, deformati. È una storia che non esiste perché non fa notizia.

Bar
Un paese per essere definito tale deve possedere almeno un bar. È quella la cellula di base, il luogo in cui si può sempre entrare, come il Municipio e il cimitero. Prima si poteva entrare anche nelle scuole, adesso sono chiuse, devi suonare il campanello. I bar sono la più preziosa fonte di informazione sulla vita di un paese, anche se bisogna stare attenti a non farsi sviare. Ci sono alcune scene fisse, tipo il giornale sul banco dei gelati, ci sono quelli che d’estate stazionano seduti o in piedi, ci sono quelli che giocano a carte e quelli che guardano. È una specie di banca dei luoghi comuni. È raro che al bar venga un’idea nuova, si va per rimestare nelle vecchie. Si va per ascoltare il mormorio del paese che in molti casi è finito. E allora vedi persone silenziose vagare come in un acquario. Ecco che il bar diventa un’altra cosa, da punto di raccolta della vita comunitaria a punto di rottura. Si va al bar per capire che non ha più senso uscire e se si continua a farlo è perché è ancora più assurdo rimanere a casa.

Contadino
“Contadino” è una parola poco amata perché è ancora legata a una storia di grandi fatiche e di piccoli guadagni e lo stesso vale per il pastore, occupazione ben più antica e ancora più ammirevole. Non è un caso, credo, che oggi molti di quelli che lavorano in campagna amano definirsi “imprenditori agricoli”. Si dice spesso che l’Italia non è più un paese di contadini e questa è una grave inesattezza. I contadini ci sono ancora. C’è ancora chi lavora la terra nonostante decenni di politiche che hanno messo al centro del nostro modello di sviluppo l’automobile al posto dell’albero, il cemento al posto della zolla di terra. Adesso che questo modello di sviluppo è palesemente e forse irrimediabilmente in crisi, sarebbe il caso di rimettere in circolazione la parola “contadino” e di assegnare a essa un nuovo prestigio. Curiosamente sono i ricchi i più accesi fautori del ritorno alla terra, sono quelli che meno hanno vissuto i disagi della campagna a farsi venire la fregola di fare l’olio o il vino, anche se spesso si limitano a mettere il loro nome sulle bottiglie e mandano nei campi i giovani extracomunitari. Il segnale è comunque incoraggiante. Non mi stancherò mai di ripeterlo, l’Italia non ha più molto suolo agricolo. È tutto un brulicare di case, capannoni, officine. È il momento di usare la gomma più che la matita, ridare alla terra spazio e respiro. Intanto si tratta di difendere con le unghie e con i denti quelli che alla campagna ancora si dedicano. Altro che calciatori, politici e veline, bisogna dare onore a chi sta nelle stalle, nelle vigne, a chi semina, a chi raccoglie le olive e le castagne. Bisogna organizzare una campagna pubblicitaria non per un prodotto, ma per chi lo produce. Altro che Mulino Bianco, fateci vedere lo sterco e il fango, fateci vedere i contadini.

Desolazione
I paesi lasciati dai loro abitanti non restano vuoti, vengono invasi dalla desolazione. La senti appena arrivi, la senti se fai la scelta di andare in un giorno qualsiasi, non quando c’è la festa del patrono, non ad agosto, quando il paese si abbiglia come villaggio turistico. La desolazione è una cosa nuova per i paesi. Prima c’era la miseria. Arrivavi e vedevi case fatiscenti, strade di polvere o di fango a seconda della stagione, vedevi bambini che giocavano tra la merda degli asini e dei maiali, i vecchi con le coppole e le mantelle, le donne con gli scialli, un mondo assai simile a quello mirabilmente descritto da Carlo Levi. E questa storia è durata per millenni, praticamente fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Poi la rottamazione della civiltà contadina ha fatto posto a una modernità posticcia. In questo passaggio è andata via la miseria materiale ed è arrivata la miseria spirituale. Il paese non è più povero, ma è abitato da gente rancorosa, maldicente, abituata a fallire la propria vita e a tentare di far fallire la vita degli altri. È arrivata la stagione dei disertori, di quelli che non sapendo andarsene lontano hanno deciso di voltare le spalle al paese e di farsi la casa in periferia. Così quando arrivi al centro sei dentro un curioso effetto vuoto. Oggi i paesi hanno il buco al centro, il buco nero della desolazione.

Emigranti
Quando si parla della grande emigrazione degli italiani all’estero di solito si omette di ricordare che non si partiva dalle città, ma dai paesi. Sicuramente chi è partito ha migliorato le sue condizioni, ma il prezzo è stato altissimo. E in questo prezzo bisogna includere anche il dolore di chi è rimasto. Quando uno della famiglia partiva, per un po’ di giorni non si cucinava, proprio come accadeva dopo un lutto. Io sono nato in coincidenza con la partenza per l’America di tutta la famiglia di mia madre. E mia madre da allora vive nelle spire di una perenne tristezza. Qualche anno fa sono andato a Vancouver in Canada a trovare i miei zii. I ricchi di Vancouver stavano in una zona della città molto lontana dalle case degli italiani. Non mi pare che i miei zii abbiano vinto nessuna sfida. A uno è capitato di morire in un ospedale canadese dove senza tanto garbo gli hanno comunicato che aveva pochi mesi di vita. Lui ha fatto prima, ha smesso di mangiare, se n’è andato in quindici giorni. I suoi coetanei che non sono partiti sono morti o stanno moribondi sulle panchine. L’emigrazione non ha mandato via solo facce e valigie di cartone. Da qui è andata via l’allegria e non è più tornata. L’emigrazione è sempre un affare per i luoghi in cui i migranti arrivano, mai per quelli di partenza.

File
Le file non sono un’invenzione recente e non sono una peculiarità metropolitana. Una volta nei paesi si faceva la fila davanti alle fontane, si aspettava a lungo dentro il forno per fare il pane. Ma in realtà a nessuno veniva in mente che stava perdendo tempo. Si stava lì e si ascoltavano i racconti. Una trama infinita che proseguiva nei giorni successivi, quando bisognava prendere altra acqua e fare altro pane. Adesso, dopo un’assenza decennale, le file sono tornate. Anche i paesi, nella loro corsa a prendere il peggio delle città senza poterne avere il meglio, adesso hanno le loro file, sono le file agli uffici postali. Da un po’ di anni nelle Poste non si assume e si offrono più servizi. Il risultato è che per fare una raccomandata bisogna perdere almeno una mezz’ora. Non si tratta di un tempo lieve, passato a dirsi qualcosa con gli altri astanti. Anzi, c’è un silenzio rancido, lievemente rancoroso, al massimo qualche informazione sui reciproci malanni. Tra il vecchio che deve ritirare la pensione e la giovane che deve mandare la domanda per un concorso non c’è dialogo, né sguardo. Tra la tribù dei brufoli e quella dei bastoni si è aperto un baratro che sembra incolmabile.

Geografia
Sono sempre stato curioso di sapere come se la passano gli altri, come si sentono veramente, che sapore ha la loro vita oltre la buccia di parole piena di pesticidi che ci sputiamo di bocca in bocca. Da un po’ di tempo ho spostato questa curiosità verso i luoghi. Vado nei paesi per capire come se la passano. Ma prima ancora ci vado per capire dove sono, sopra una montagna o un altopiano, dentro una valle o in pianura. I paesi parlano, come ogni cosa, e parlano innanzitutto con la geografia. Sono terra da leggere anche se hanno perso molte parole, e da scrivere.

H
La H è il simbolo degli ospedali, ma gli ospedali stanno sparendo dai paesi.

Irpinia
L’Irpinia è in mezzo al Sud, tra la pianura campana e quella pugliese. In Italia ci sono differenze tra un paese e l’altro oppure tra città molto vicine, e dunque non ha molto senso parlare di un carattere irpino. Province e Regioni raccolgono luoghi molto diversi tra di loro. Le suddivisioni amministrative ingannano. Il mio paese c’entra pochissimo con Napoli e c’entra poco anche con Avellino. Ogni zona dell’Irpinia somiglia alla zona con cui confina, Puglia, Sannio, Napoli, Lucania, Salerno. Insomma, i luoghi in cui viviamo quasi mai corrispondono ai nomi che portano. La mia zona si chiama Alta Irpinia. Io le ho dato un altro nome: Irpinia d’Oriente. Chi ci ha chiamato Alta Irpinia? Evidentemente chi sta in basso, Avellino o Napoli, e giustamente guarda ai nostri luoghi come luoghi alti. Irpinia d’Oriente è un nome che ribalta il punto d’osservazione. Siamo noi che guardiamo dove siamo e capiamo che siamo a oriente rispetto ad Avellino o Napoli. Basta guardare le fotografie dei nostri anziani di un secolo fa per vedere profili balcanici, in molti casi addirittura asiatici. La definizione Alta Irpinia è imprecisa anche dal punto di vista geografico e climatico. L’Appennino campano corre all’altezza di Avellino, noi siamo a oriente delle catene montuose. Il clima di Bisaccia è molto più simile a quello dei Carpazi che a quello di Napoli. Nel proporre il nuovo nome ho sempre pensato che Irpinia d’Oriente contenesse anche suggestioni antropologiche ed economiche. In un mondo in cui le cose avvengono in basso, chiamarsi Alta Irpinia significa già essere fuori gioco, percepirsi come luogo delle mancanze più che delle presenze. Per me Irpinia d’Oriente è un rovesciamento che aiuta anche a cambiare molti dei paradigmi che hanno condizionato la nostra vita. Considerando che da noi la modernità e la crescita ci hanno raggiunto nei loro aspetti più deteriori, ecco che sarebbe il caso almeno di immaginare nuove vie, stando attenti anche qui a dare i nomi giusti. Io la nuova via non la chiamo decrescita, importando ancora una volta il nome da occidente, ma la chiamo “umanesimo delle montagne” e quindi pongo l’accento su una via che nasce da noi stessi fin dal nome che le diamo.

Luoghi
Camminavo per Venezia. Mi chiedevo se è ancora qui che si deve venire oppure c’è da andare altrove. Penso a Mastralessio, alla prua della desolazione conficcata tra le zolle della Daunia, penso al luogo indenne dalla peste degli sguardi fatui, luogo edificato da chi vive altrove e ha lasciato a sentinelle i vecchi, gli zoppi, i cani. I luoghi di cui scrivo non hanno ragioni né torti, sono come una refurtiva abbandonata, un referto sintetico della vasta malattia allegata alla terra tonda. Allora io non giro per svagarmi e forse neppure per vedere. Quello che faccio è leggere la carne non morsa dai cannibali, la terra scampata alla tabula rasa del progresso che rende in apparenza Mastralessio scorza o guscio vuoto. La verità delle cose è nella letizia e nella lotta per dare luce alle capitali dello sconforto, ai luoghi dismessi, agli spiriti sconvolti, più che nell’allinearsi alla gigantesca impresa di pompe funebri a cui si riduce la società dello spettacolo.

Morti
Nei paesi morire è molto più facile che nascere. I più fortunati sono quelli che muoiono ad agosto, quando c’è più gente, ma per vedere un funerale veramente affollato ci vuole qualcuno che sia giovane e che muoia all’improvviso. In quel caso il morto ravviva il paese, gli regala qualche ora di commozione e fa sentire tutti più cauti, meno aggressivi. Il paese esce in piazza e parla a bassa voce.

Neve
È difficile pensare a un paese dove non nevica. La neve è il simbolo dell’inverno e l’inverno è la stagione dei paesi. Io, quando viene un’annata con poca neve, mi sento come se mi fosse mancato qualcosa. La neve dà alle mie alture un rigore, uno stile che i luoghi caldi hanno perduto.

Ozio
Il paese è considerato il luogo dell’ozio e dell’accidia. Anche se non è così (in realtà è un luogo che non concede tregue, sei sempre di fronte alla tua vita, non c’è modo di distrarsi) al mio paese è nata la libera università degli accidiosi (www.unibis.org) e io lì sono docente di una delle tante discipline improntate all’ozio. La mia si chiama “teoria e tecnica della passeggiata” ma ci sono anche “ergonometria della panchina”, “scienze dell’inutilità”, “etiche dell’incanto” e “antropologia del distratto”. Ovviamente è un’università abbandonata, un esempio di rudere mediatico.

Piazza
Quella del mio paese è un luogo difficile, lievemente efferato, se sei fuori posto, la piazza te lo rivela immediatamente. Non focolare e grembo di tutti, ma luogo dei rancorosi, dei passeggiatori inaciditi, luogo di proliferazione e tutela di ogni maldicenza, di ogni sfinimento. Adesso le piazze sono in crisi, la diserzione dai paesi comincia dalla diserzione delle loro piazze. Abbiate cura di vederne tante, godetevi questo cinema naturale prima che il proiettore si spenga.

Qui
Qui non c’è niente. Ecco una frase che ho sentito migliaia di volte, come se mi fossi rivolto non a delle persone ma a una segreteria telefonica.

Rancore
Sono cose che accadono ovunque, si dice. Non è così, dove vivo io la faccenda ha una tipicità particolare. Il rancore per noi è come il radicchio a Treviso o la cipolla a Tropea. Il nostro è un rancore doc, non va confuso con il blando rancore che si trova ovunque nel mondo. È in esercizio perenne, un fuoco amico, e quando pure trovi riparo dal rancore che viene da fuori, ti accorgi che provi rancore per te stesso, che devi annoverarti tra i tuoi nemici. Questo è il motivo perché ritengo queste zone non più arretrate come da sempre sono state considerate, ma zone d’avanguardia. Nel momento in cui il mondo diventa una comunità di astiosi, è naturale considerare l’Irpina d’Oriente una delle capitali di questo mondo.

Silenzio
Ogni paese ha il suo silenzio. Dipende dalla forma. Il silenzio di un paese concavo, appoggiato in una valle, è diverso dal silenzio di un paese convesso che sta in cima a una montagna. E poi c’è la disposizione delle case, la presenza della vegetazione, l’esposizione geografica, il fatto di essere a nord o a sud, la vicinanza o meno a una città, perfino il reddito ha influenza sul tipo di silenzio che percepisci dentro un paese. Girando per i posti più affranti e sperduti immagino di essere diventato un esperto di silenzio. Quello di Cairano non è come quello di Montaguto, penso a due luoghi della mia Irpinia. E perfino nello stesso paese il silenzio subisce numerose variazioni, quello estivo non è come quello invernale, quello del mattino non è come quello della sera, quello di un giorno in cui è morto un giovane è diverso da quello di un giorno in cui è morto un anziano. Queste sono ipotesi paesologiche. Di una cosa sono sicuro però: il silenzio vissuto per un giorno è assai diverso da quello che si vive ogni giorno. Il silenzio che sente la vedova nel suo vicolo, col figlio a Torino e il marito al cimitero, con le vicine di casa deportate al paese nuovo, è un silenzio cattivo, che fa tanto male. È il silenzio delle porte chiuse, delle case abitate solo dai ragni e dalle faine, dei pochi giovani che passano senza nemmeno salutare. Non basta tenere la televisione accesa tutto il giorno per arginare questa valanga di silenzio che sommerge ogni cosa. La vedova era abituata a vivere in un paese che era una trama di racconti e di storie. Al forno, davanti alle fontane, vicino al camino, ogni occasione era buona per farsi compagnia con le parole. E quando non si parlava comunque potevi sentire il rumore di chi lavorava. Adesso non si sente il martello del fabbro, non si sente la sega del falegname, non si sentono nemmeno i versi degli animali. Chi viene dalla città e arriva nel paese per qualche ora, trova un silenzio che gli fa tanto bene, un silenzio che gli fa credere di essere in un luogo di pace e tranquillità. Non è affatto vero, il paese, oggi, è un luogo snervante, in cui non è per niente facile rilassarsi. I motivi sono tanti, compreso il silenzio e il suo perenne rimandarci alle cose che ci mancano, che non ci sono più. A me questo non dispiace. Giro per i paesi proprio per le cose che non ci sono più. In fondo le delusioni, le mancanze sono le stampelle a cui si sorregge la mia scrittura.

Terra
Disteso sotto il sole pancia a terra in un campo di grano appena mietuto a un certo punto stavo per sentire la terra, mi stava arrivando qualche notizia dal profondo, ho avuto paura e mi sono messo a raccontare la sensazione solo intravista. Così si sfugge alla vita, dovremmo stare molte ore al giorno con la pancia per terra e aspettare che la terra si faccia viva da sotto, aspettare che si accorga di noi e ci parli.

Urbanistica
Ci sono paesi in fuga dalla loro forma e paesi chiusi nella loro forma. È il momento di costruire paesi aperti nella loro forma, ma non è impresa per architetti, geometri e ingegneri.

Vecchi
Per me, andare in certi paesi è come visitare un reparto di geriatria all’aria aperta. In certi paesi del Sud la gente diventa decrepita, sembra che la vecchiaia sia un pozzo senza fondo. Eppure gli anziani che abbiamo ora sono gli ultimi in circolazione. Hanno tratti forti, facce lungamente esposte alla fatica, al freddo e al sole. I giovani di adesso, quando saranno vecchi non avranno queste facce, questi corpi contorti dall’artrosi, questo modo di conversare che non è mai concitato, che è un parlare senza animosità, lento, lievemente ipnotico, circolare. Un parlare appreso quando vivere in un paese significava stare con gli altri e sentirsi insieme agli altri. Forse le cose stanno così: una volta si era tristi tutti insieme, adesso ognuno è triste per conto suo. Ora si esce a prendere un poco di luce, per la vecchia abitudine di stare in mezzo agli altri, ma non c’è più nessuno. I giovani si muovono nelle macchine, sono indaffarati o comunque cercano di mostrarsi indaffarati. Gli anziani sono gli ultimi relitti rimasti a galla di una civiltà che affonda nella marea del consumo. Hanno tutti una lingua, uno stile, non sono mai sgraziati, sono innocenti. Non era così quando erano giovani. La civiltà contadina era una civiltà offesa e per questo non sempre capace di gentilezze e di garbo. I vecchi e le vecchie che vediamo adesso con la loro aria smarrita, sono stati genitori oppressivi, si sono concessi e hanno concesso poco. Andate nei paesi e provate ad ascoltare gli anziani, a far loro compagnia. Provate a praticare una nuova forma di turismo, il turismo della clemenza. Facilmente vi potrà capitare di essere trattenuti per un braccio da un anziano che ancora vi vuole parlare, perché oggi per loro il male più grande è non trovare ascolto, non poter raccontare una vita che era epica anche quando era banale. Andate a vedere la ragnatela delle rughe, gli occhi su cui campeggiano le grandi impalcature della morte. La vita non è uno show televisivo e gli anziani sono qui a ricordarci l’eroismo e la miseria di stare al mondo.

Zappa
Dopo il terremoto in ogni paese c’erano vicoli e case sventrate. Dimore per topi e per ladruncoli in cerca di qualcosa di prezioso. Io e i miei amici giravamo spesso per queste case abbandonate, andavamo a vederle prima che ne abbattessero i muri, il pavimento, il cuore. Non sempre i proprietari si erano preoccupati di svuotarle, oppure avevano portato via solo le cose importanti. Spesso si trovavano bottiglie, vecchie pentole, libri di scuola. Una volta in una casa non c’era più niente, avevano rubato perfino le ceramiche della fornacella. Era rimasta solo una zappa.

[l’immagine in apice viene da qui, che però è un altrove]

F. Arminio, Terracarne, Mondadori (2011), pp. 360, 18,00 eu.

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15 Commenti

  1. Non ho molto tempo oggi per scrivere. Ma domani scrivo un commento.
    Franco Arminio è un dei più grandi traduttori della sua terra. Ogni segno della sua terra trova la sua significazione nella parola poetica.
    Grazie per il dono en “avant première”.

  2. “Disteso sotto il sole pancia a terra in un campo di grano”

    pancia a terra ? ma questa è disperazione allo stato puro.
    Ma goditi il sole, il profumo di stoppie, i sussurri del campo a occhi chiusi. Magari con una donna vicino, con la stereotipata margherita tra i denti o, se proprio non viene, dopo aver preso una qualche pillolina.
    Perchè ce n’è una sola, fratello. Di quella cosa là, la vita insomma.

  3. @carlo capone

    una precisazione: sono irpino e conosco franco arminio (tra l’altro ho letto molti dei suoi libri). credo che tu ti sia potuto fare un’opinione sbagliata di arminio; con i suoi pezzi, i suoi libri e il suo mestiere di “paesologo” cerca proprio di far Rivivere (indirettamente) quel poco che resta dei nostri paesi, e di conseguenza anche noi stessi. quindi è tutt’altro che sociopatico o depresso (per come io ho interpretato, forse erroneamente, il tuo commento).

  4. uno scrittore magari può consentirti la disperazione più di un presentatore televisivo.
    quel pancia a terra è stato un bel momento.

  5. panci’a terra è un gesto di leggittima difesa, è quando tutte quello che dici tu Carlo non serve, è come abbracciare un tronco e affondarci la faccia, sparire, se è un giorno di sole il calore lo senti lo stesso sulle stoppie, i sussurri li senti lo stesso e la vita anche. L’uomo ha anche dalla sua che panci’a terra sulle stoppie, basta cercare le gobbe dei vecchi soldi della terra che, come dice Arminio, nessuno coltiva più e l’erezione è assicurata anche senza pillolina.

  6. gli indigeni dei borghi non frontalieri o rivieraschi hanno a mio modesto parere trovato un’ancora di salvezza nell’urbanesimo selvaggio(e sper certi versi anche nella naia obbligatoria) che ha contraddistino le ultime due centurie,aprescindere dal fatto che,restando al passato recente,internet e una certa evoluzione positiva dei sistemi integrati di trasporto avevano gia contribuito a far correre agli stessi il bel rischio di vivere esistenze meno scontate benchè ad alto impatto ambientale.E ora lapidatemi pure,se vi va

    http://narwakk.free.fr/musiques/anciennnn/The%20Police%20-%20So%20Lonely.mp3

  7. @ chi

    le parole sono importanti, le parole sono pietre, eccetera eccetera. Ma non si vive di sole parole, non si vive nel culto dell’ozio, e mi sconcerta questo sempre abbracciarsi alla medesima terra.

    A noi, ad esempio, prescrisse il fato illacrimata sepoltura. E che dobbiamo fare, ci spariamo?

  8. Il silenzio è una musica dentro che ha la sua differenza. E’ vero.
    Il silenzio viene della
    terra, del vento, della solitudine.

    Il silenzio prende il colore del cielo, il colore del ramo, il colore della stagione.

    Franco Arminio scrive il silenzio irpinio- un silenzio fatto di tempo fermato, il silenzio dell’attesa- il silenzio dei cuori abbandonati- il silenzio dei vecchi.

    Vorrei immaginare la bellezza della solitudine irpinia, quando si cammina solo
    con la luce della fine dell’estate- un silenzio che confronta l’isolamento con la magnificenza. La neve sotto il cielo blu, il castagno, un rifletto.

    Forse questa bellezza diventa dolore per chi cammina dentro l’abbandono.

    Il sud dovrebbe ritrovare la sua fierezza di essere un regno di bellezza naturale, di conservare il tesoro di racconti, di ricordi, si dovrebbe obliare il male della solitudine e affermare la grandezza del suo spazio.

    Questo sud assomiglia ai paesi dell’Aude o dell’Ariège, il silenzio delle case dove scorre il tempo- le imposte chiuse- Le stagioni sembrano più lunghe e un anno sembra il fratello dell’anno scorso. E’ il silenzio delle terre allontanate del mare- un silenzio che merita riflessione.

    Ma posso dire che il silenzio dell Alpilles è diverso, perché la bellezza sovrasta la solitudine. E’ un silenzio tondo come un frutto o un silenzio che viaggia nelle erbe profumate, è un silenzio soleggiato, è un silenzio mai tranquillo perché si murmure sempre il vento.

    Fa un momento che leggo Franco Arminio, è mi sembra un fratello, ” un arpenteur” della sua terra che mi accompagna, mentre non ho mai camminato in Irpinia. Irpinia mi è sempre familiare nel suo nome, un po’ come un albero amato.

  9. Ho letto del tuo libro su Repubblica e ora leggo questo estratto… significativo.
    Però hai pubblicato con MONDADORI, e io non posso comprare un libro edito da marina berlkusconi, mi ripugna. Peccato.

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