PER LA SOLENNE COMMEMORAZIONE DELLA NASCITA DEL SERVUS MUSÆ A.Z.

Di Marco Palasciano

[Il testo che segue è parte d’un mio discorso sull’arte, il quale è stato parte a sua volta d’un capitolo (VI. Arte vs Burocrazia) della lezione-spettacolo in due parti – l’una tenuta il 2 e l’altra il 10 ottobre 2011 – De Magna Rota Rerum Humanarum: la sistemazione delle pratiche e dei valori umani nella Ruota palascianiana, parte a sua volta del seminario De natura mundi. L’interpretazione del mondo in ottanta giorni, attualmente in corso a Capua tra Palazzo Fazio e Palazzo Lanza.] Se avessi tempo ora tratterei della mia teoria sulla classificazione delle arti, ma sarebbe lungo e complicato; e a compattarlo, un tale schematizzare apparirebbe forse troppo burocratico. Preferisco, in ogni caso, ora, parlarvi d’un artista. Un poeta. Il massimo poeta italiano vivente. Che giusto oggi, 10 ottobre 2011, compie novant’anni. Quattordici anni e mezzo fa, nel 1997, qualche giorno prima di Pasqua, mi trovavo in Veneto, nel trevigiano, presso una coppia d’amici campani là provvisoriamente emigrati, Enzo e Margherita. Fin dalla mia partenza da Capua avevo avuto in animo di far visita, con l’occasione, a quel poeta nato nel 1921 e sempre vissuto nel suo paesino prealpino circondato da colline e distante poco meno di un’ora di viaggio da casa dei miei ospiti.  Martedí 25 marzo il Sole era in tripla congiunzione con Venere e Saturno: trionfo di senile saggezza e di dolcezza, se credete in tali cose. Quanto a cose piú terrene, quel giorno la linea ferroviaria Udine-Treviso si trovava interrotta, causa rimozione ordigno bellico.

La guerra. Il poeta era stato partigiano. E per il resto maestro di scuola, incline alla malinconia e per essa cercando conforto nelle scienze della psiche (prediligendo le teorie di Lacan, per il quale l’inconscio è strutturato come un linguaggio) oltreché nella poesia. «La poesia», che, com’egli dirà in un’intervista del 2011, «è sempre piú di attualità, perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore». Da Montebelluna erano cinquanta minuti d’autobus, in partenza alle dodici e dieci, a bordo del quale avrei pranzato con un panino assemblato in fretta prima d’uscir di casa. Nello zainetto avevo anche un uovo di Pasqua: me l’ero portato per regalarlo al poeta, autore fra l’altro delle famose Pasque. All’una del pomeriggio giunsi finalmente a Pieve di Soligo. Nel primo bar che trovai domandai di Andrea Zanzotto, e dalla barista mi fu detto che proprio lí lui veniva a prendere il caffè tutte le mattine, verso le undici! E additò il tavolino. Ora Zanzotto era a casa, e avrebbe pranzato, e probabilmente poi dormito un po’; la signora consigliava di bussargli dopo le tre e mezza del pomeriggio.

 

Avevo dunque un paio d’ore di tempo da perdere, e per cominciare individuai la casa del poeta. C’era un giardino fiorito, con tavolini e sedili. Era tutto aperto. C’erano un’auto e due biciclette bianche. Nel giardino tra l’altro presenziavano certi fiori gialli, in cespuglio, onnipresenti nei dintorni; forse forsizie. Tornai per ora indietro. C’era il fiume Soligo, dalle acque bassissime e trasparenti, con le alghe stanziali a scompigliarsi in balia del flusso. Nell’aria due rondinotti si rincorrevano. C’era un ponte, dai balaustri a pedoni degli scacchi, e, sotto, un greto di ciottoli bianchi come ossa, con sú tante foglie cadute sebbene non fosse autunno. L’ombrosa arcata mi parve uno scenario di teatro atro atto a farne sbucare la barca di Caronte. C’era poi un campanile altissimo, appuntito, puro come un’astrazione matematica, faccia da cicogna. C’era il duomo, con guglie un po’ frattali, ciascuna piantata su quattro colonne il cui vano imprigionava una statua di non so quale e qual altro cittadino del paradiso. C’era un vecchio mulino, presso un Centro d’arte La Roggia, con la sua ruota nera dalle pale stortarelle che girava e girava, come una scala mobile, riciàf, riciàf. Mi avvicinai, e fui tra aiole («Vietata la circolazione ai cani»; ah, talvolta Zanzotto inserisce disegni di cartelli nelle sue poesie); ed ebbi il ponte di fronte, nel paesaggio bianco argenteo. Luoghi che avrei potuto aver  sognato. L’acqua ruscellava e risonava. C’era odore d’acqua nell’aria, un odore verde. Sparsi ai miei piedi erano gli strobili di non so che conifere. Per tre quarti di secolo, pensai, Zanzotto aveva vissuto, in quei luoghi; e io ora in un istante solo abbracciavo-analizzavo con gli occhi tutti i tronchi muscosi. L’albero maggiore, con qualche ragnatelo negli incavi, recava sulla corteccia il disegno giallo di un cuore siglato dalle lettere N ed E. Dal campanile aguzzo vennero i rintocchi delle due. Da presso il municipio, notai, era una discesa; e scesi sotto il ponte, per camminare sul greto. Risalito entrai a visitare la chiesa, di Santa Maria Assunta, coi suoi decori giocattolosi, mentre di fuori i giardinieri rasavano i prati («di lappole»?). E là dentro lessi da qualche parte:

Servi Dei Iosephi Toniolo viri laici…

Ma soltanto anni dopo, rileggendo il diario che – in mancanza di macchina fotografica – là ero andato scrivendo passo passo, mi sarei reso conto che quel «Servo di Dio», quasi Beato, lí, quel Giuseppe Toniolo (tra l’altro fondatore, nel 1907, del periodico «La settimana sociale dei cattolici italiani»), doveva essere stato il G.T. che ispirò a Zanzotto l’anticlericaletta poesia del 1960 ca. Per la solenne commemorazione della morte del «Servus Dei» G.T. Alle tre tornai presso la casa del poeta. Dove intanto un’altra porta era stata aperta; era proprio tutto aperto. Non c’era piú una delle due bici, ma si era aggiunto un motorino, anch’esso bianco. Aspettai una mezz’ora risfogliando, trattili dallo zainetto, i due libri che m’ero portato per farli autografare (fino ad allora l’unico mio autografo era stato quello di Peter Greenaway), Il Galateo in bosco e l’Oscar delle Poesie, rileggendo tra l’altro l’ecloga Lamenti dei poeti lirici, dove un poeta interroga  la Musa, e di cui ecco un pezzetto (qui Lazzaro è il mendico della parabola, non il risorto):

 

Chiedono, implorano, i poeti,

li nutre Lazzaro alla sua mensa,

come cigni biancheggiano.

Invocano l’amata

l’iddio la pia vittima le orme

che s’addentrano al simbolo

(morí quel simbolo, morí).

Nomi hanno, date con interrogativo,

schede, schemi,

cadaveri com’elitre

in oniriche antologie.

Perfettissimo pianto, perfettissimo.

Si fece l’ora di bussare. Il campanello esterno era guasto; ce n’era un altro, piú interno, ma non osavo violare quello spazio senza invito; cosí tornai al bar per telefonare. Andrea Zanzotto rispose. Disse che era in partenza per Milano, e di non avere tempo per una visita; ma io gli dissi che mi sarebbero bastati solo cinque minuti, d’orologio. Aveva manine pelose, un viso antico, un’espressione dolce; in testa un cappellino da puffo o un berretto frigio, ma color verde; e mi parve d’animo cosí amabile e gentile che pensai: da vecchio voglio essere cosí. Sedemmo su un sofà verde. (Il verde: il suo colore preferito; «il verde altissimo / il ricchissimo nihil»…). In quei cinque minuti, richiesto d’un parere sul mondo contemporaneo, si dolse del degrado del paesaggio, e, in piú, del regredire dei servizi pubblici, in loco soprattutto, come gli ospedali, o i trasporti, carente la linea d’autobus e lui patendo già i suoi senili acciacchi. Disse che era assurdo misurare il benessere di una nazione da cifre come quella del prodotto interno lordo. Si dolse, pure, della bassa natalità, da cui il mesto fenomeno delle tante case enormi e vuote. Quanto alla politica, avendo visto all’opera Norberto Bobbio ai tempi suoi, aveva ora ben di che criticare Fausto Bertinotti, mentre nutriva sufficiente fiducia nel PDS… Nel congedarmi, infine, gli consegnai il mio uovo di Pasqua, accompagnandolo colla chiosa, quasi a scusa, che noi del sud, quando facciamo una visita, usiamo recare di tali omaggiucoli. E compiuta cosí la mia missione, feci anche in tempo a prendere l’autobus delle sedici e dieci per Montebelluna, l’ultimo a me utile; e lí a bordo mi dissi: — Perfettissimo viaggio, perfettissimo.

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