Ex ordres littéraires: Federica Onorato
Timing
di
Federica Onorato
La conosci via Carnelutti?
La strada iniziava dove finiva la città. Pedalavo senza fretta su un rettilineo facile, lattine arrugginite e buste di plastica ai lati. Davanti a me scheletri di gru sospesi nel vuoto. Era la prima volta che finivo da quelle parti.
Il messaggio diceva: Domani puoi tenere il bimbo? Ci hanno anticipato lo spettacolo e dobbiamo finire le prove. E’ urgente, puoi venire da noi?
Se avessi dovuto pensare a un quartiere per Giulia e Nino, quel posto l’avrei scartato subito. Non una buca, né un sampietrino. Dal cartellone pubblicitario un plastico sorrideva al quartiere del 2015, palazzi uguali con piccoli cerchi di verde scuro, come corone di spine.“Pisanova: uno sguardo verso il futuro”. I nomi, pensavo. I nomi non sono mai scelti a caso, c’è sempre una logica. Il più delle volte è banale.
E per questo spietata. Pisanova. Pisa Nuova. Smisi di pedalare, le ruote scivolavano sull’asfalto petrolio. Restavano gli ultimi cento metri, solita marcia inserita e la mente ormai vuota. Mi resi conto che Pisanova era la cosa più lontana dalla mia idea del nuovo.
E per un attimo mi sembrò di avere tutto il tempo per arrivare in ritardo. Luce che rimbalza sulle vetrate. A vederli di fianco, l’uno accanto all’altro, mi ricordavano una spiaggia dell’oceano, con il mare aperto e l’orizzonte troppo lontano. Casermoni bianchi in fila, balene arenate fra laterizi. Sul citofono soltanto il cognome di lei.
– Dorme.
– Dorme?
– Si, abbiamo provato a tenerlo sveglio. Ma è crollato.
– Ah.
– Vieni, puoi stare in cucina.
Giulia aspettava. Lasciò che il battito del metronomo mi venisse incontro, come lo scodinzolio di un cane. Su un tavolino al centro della sala il pendolo oscillava e senza rendermene conto regolai il fiatone sui 60 battiti al minuto. La stanza era gialla. Le librerie partivano dal pavimento e toccavano il soffitto, alcuni libri di traverso, incastrati. Odore di legno e tabacco. Due ragazze stavano attorno a un tavolo, arrotolando le gambe mentre le dita sottili tamburellavano. Si girarono nello stesso momento. La pelle tesa sotto gli zigomi, non un filo di trucco. Una si passava continuamente la mano sul pantalone, come se lo stesse stirando. Salutai Nino che riprese la penna scivolata a terra come un pezzo mancante della propria anatomia e iniziò a leggere i suoi appunti sottovoce, muovendo a mo’di bacchetta d’orchestra quella Bic nera tutta mangiucchiata. Nell’aria frusciavano gli attacchi e le pause del pezzo.
Giulia lo fissava seria trattenendo l’aria e il naso diventava sempre più simile a una freccia di ossa e carne rivolta verso il basso, finché un colpo di tosse non le grattò la gola. Gli occhi di Nino si posarono sulle giovani donne rannicchiate come bambine.
Giulia disse: – Noi iniziamo, tu, se vuoi, fatti un caffè.
Era il segnale. Dovevo andarmene e lasciarli provare. Non c’erano porte interne. Qualcosa di fluido, quasi un’intuizione geometrica immaginarsi il resto della casa. L’atrio aperto lasciava intravedere uno spigolo ciliegia. Forse la cucina. Dall’intonaco rosso spuntava una palma, dipinta a mano, con foglie larghe che si allungavano fino a prendere tutta la parete. Mi feci spazio fra le tazze della colazione e gli avanzi della cena lasciando scorrere l’acqua prima di riempire nuovamente la caffettiera. Nino iniziò a leggere con una voce che non gli avevo mai sentito prima. Profonda, baritonale.
L’occhio si dice ch’è la prima porta per la qual l’intelletto intende e gusta:
la seconda è l’udir con voce scorta,
che fa la mente nostra esser robusta.
La veranda è aperta e non si vede nessuno camminare per strada. Tommaso dorme, proprio non ne vuole sapere di aprire gli occhi. Lo sorveglio a vista, ho paura di non sentire il pianto. Di là il metronomo è una mitraglia che trapassa ad uno ad uno i pensieri. Gli sono passata accanto un attimo fa, li ho quasi sfiorati e ho scoperto di esser diventata invisibile. Non c’entro con quella storia che raccontano, forse è questo il punto. Allora mi metto a spiarli dal cono d’ombra della camera da letto. Mi tolgo le scarpe e scivolo sul letto accanto al bambino. Qualcosa luccica fra le pieghe tenere del collo: è una collana con piccole pietre di giada. Penso ai denti, a quei punteruoli nella carne e mi sembra proprio una tortura attrezzarsi alla vita.
Nel Genesis la santa Bibbia narra
come Dio volse provar l’ubidienza
del patriarca Abram, sposo di Sara,
e per un agnol gli parlò in presenza.
Allor Abram gli sua orecchi sbarra,
inginocchiato con gran reverenza,
avendo il suo disio tutto disposto
di voler far quanto gli fosse imposto.
Un urlo. Un urlo mi fa sobbalzare come qualcuno che all’improvviso mi strattona. In un silenzio che si taglia a fette loro sono immobili, esattamente come li ho lasciati. Non c’è traccia dell’urlo. Ma io lo sento nell’aria, lo annuso. E’ la stanza che sta per esplodere.
Iddio disse: “Togli il tuo figliuolo unigenito Isac, il qual tu ami, di lui fammi sacrificio,
cammina per la selva aspra e deserta
e fammi sol del tuo figliolo offerta”.
Nino nomina quella parola e Giulia diventa una maschera di dolore. Sacrificio. Due rughe partono spedite dalla fronte, vanno a graffiare le guance con un solco obliquo e profondo. Spietato come la storia che raccontano. La bocca spalancata resta muta per alleggerire il peso di quella parola. Non più un suono eppure io lo vedo l’urlo di Sara. Il gesto estremo di sputare in un fiato solo tutta l’angoscia di madre.
Già son tre giorni che andaron via
nel cor mi sento battere un martello;
e ‘l lor partirsi senza farmi motto
m’ha di dolor la mente e ‘l corpo rotto.
O patriarca Abram, signor mio caro,
o dolce Isaac mio, più non vi veggio:
il riso m’è tornato in pianto amaro,
e, come donna, vo cercando il peggio.
Tommaso si sveglia come per rispondere al richiamo della voce materna. Ha occhi liquidi ancora assonnati. Andiamo in su e in giù, dalla camera da letto al bagno, in quel corridoio stretto. Non posso fare a meno di osservarli.
Le ragazze ora si muovono. Posano dei libri sul tavolo, a turno. Le braccia eseguono movimenti esatti, procedendo a scatti. La prima appoggia un libro al centro. La seconda ne mette sopra un altro. Di nuovo la prima, poi ancora la seconda. Una, due, tre, quattro volte. L’una dopo l’altra. Costruiscono una pila di libri. Con lo stesso ritmo poi la disfano. Il senso sottile mi sfugge. Cammino allora più lentamente, cullando Tommaso con sobbalzi veloci. Il metronomo dà il tempo, continuano a impilare libri come gradini di una scala. Conto sei torri. Alla settima Giulia apre un libro sulla cima e una figura di carta si alza dalle pagine bianche. L’ombra di un pastore sulla parete, netta e scura nella lucentezza ambrata del mattino. Dura il tempo del corridoio. Nino legge con la sua Bic nera che volteggia nell’aria e io seguo incantata parole e disegni danzare a ritmo di quattro quarti.
Inizia a spazientirsi. Prendo un giochino, provo a muoverlo. Nulla. Non funziona, è furbo. Intanto buoi, alberi, angeli si aprono come origami e restano in equilibrio nei miei occhi. Provo a mimare le piccole scosse del passeggino. Tommaso mugola appena, impotente, pronto a strillare. Andiamo avanti così, io e il bambino e loro, con queste attività parallele a pochi metri gli uni dagli altri, finché non capisco.
Più volte ho ripensato a quelle torri di libri, al loro movimento come a un eterno ritorno. Al tempo di una storia in cui volevo entrare in punta di piedi. Ho sperato che Tommaso trattenesse il pianto fino alla fine. Ma l’ultima cosa è stato il Monte Moriah con l’ombra di Abramo che faceva strada a Isacco nella salita. Quando una delle ragazze ha disteso il collo sulla pila di libri, cippo sacrificale, il bambino ha iniziato a urlare. Mi sono infilata in fretta e furia il marsupio e sono corsa giù per le scale inseguita da battiti metallici che diventavano sempre più flebili.
Alle tredici le due ragazze non c’erano più. Tutto era in ordine. Le ombre sulla parete erano svanite. Ma il metronomo continuava a ticchettarmi nella testa. Via Carnelutti con il sole di mezzogiorno appariva ancora più desolata e l’odore di asfalto bruciato si appiccicava alle ruote. Quella via non apparteneva a chi l’aveva progettata. Pisanova era di chi abitava i casermoni squadrati, di chi colorava le pareti, toglieva le porte. L’idea che il teatro vivesse lì, fra catrame e acciaio, mi rendeva elettrica. Ai lati della strada si ostinavano dei ciuffi radi, fra lattine arrugginite e buste di plastica la gramigna resisteva.
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questa ragazza farà strada
La memoria e le sue stanze, socchiuse nell’unica porta.
maestro forlani non sbaglia un colpo
bersaglio pieno
c.