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poesie ::: prose ::: altre

Daniele Bellomi

Al lavoro

al lavoro, allora, adesso,
in parte sulle informità, col protocollo della spedizione
che non fa mai ritorno oltre il raggio stabilito.

*

al lavoro perché belli
e proni, e per questo dannati, come dipendenti
moderati e umani, plastici, al collaudo, intervenire
docili sempre, a non sbagliare montaggio sul quale
incatenarsi.

*

al lavoro sulle matrici implose
dei conti correnti o dei bilanci mai in grado, mai
possibili al quadrare, tenendo un profilo prudente
nella spesa, mai il successo che rende uniformi
o investe come verbo attivo ma sul finanziario
e non stradale, ma il mai successo, l’interesse
che per nessuno paga.

*

al lavoro senza sosta o definitiva
riposizione del corpo sempre automunito,
ripiegato sui comandi alla scansione dei prodotti
e magazzini.

*

al lavoro con due mani sulle leve
che le muovono sin dal primo giorno, due mani
ancora proprie per il freddo che perdura e non
indora, con il caldo degli stabili deserti e balneari,
vogando la sabbia via dal vento.

*

al lavoro con nessuna parte o patente,
ma con il tasso esperienziale dello scavo, così che
i candidati non possano arrivarci al proprio posto,
bloccati fra le righe del parcheggio aziendale,
in equilibrio sulle macchine dei dirigenti. perché
sappiano almeno dove il corpo si ripone, di quale
grazia o gratificazione si presume.

*

al lavoro soltanto arrangiandosi,
cercando di non muoversi troppo, di non creare
sospetto con pause molto lunghe, farle nascoste,
furtive, perché nessuno abbia di che lamentarsi,
così che niente ci sia di che ridire.

*

al lavoro, allora, e basta, perché
sia una volta sola l’annullarsi, perché non venga
in mente alla sera di dare un’occhiata a qualcosa,
che non ci si accorga mai dell’infiltrazione lenta,
dal soffitto, che si allarga come se nulla succedesse,
come se nulla fosse per com’è, ma solo una volta
vederla, questo. e basta.

— — — * — — —

– trou(sse) (i, v)

tutto dipende da cosa intendi per non sfigurarti. con sadismo. hai esagerato con l’ombretto. di conseguenza il tagliarsi, o il tagliare. come il rimmel sulle ciglia, il motore di un trapano si svela nella percussione. di certo non ha la reattività di una dinamo. un motore elettrico a corrente continua, se lo fai girare, produce energia sufficiente a errori di valutazione da parte degli addetti ai lavori ma non al livello di una dinamo. aprire la trousse, farsi un buco all’altezza del sopracciglio, le automutilazioni inflitte da omaccioni tatuati e crivellati come scolapasta. pedalare è diventato difficilissimo, dopo l’asportazione del tallone della ballerina. sta sulle punte in maniera impeccabile. passiamo alle pareti. per fare un buco nel muro, indipendentemente dalla presenza di numerosi elementi di valore del gesto tecnico e atletico nei tentativi di fuga dal carcere, dato che in certi casi basta anche un cucchiaio per creare una voragine, la cosa meno pratica sono le forbici da lamiera. molto dipende dallo spessore umano. le forbici da lamiera non vanno bene per i peli superflui.

*

il motore del braccio meccanico si è smontato dal trapano nuovo, non ancora dissaldato dai poli. mi piace. un tempo mi serviva ad azionare quelle pistoline con cui si fanno i buchi per le orecchie. non ho il tester ma una piccola lampadina da tre watt e un altro trapano da genocidio a cui avvitare la testa del motore cordless e farlo girare come una bicicletta, ma non si accende. forse dovrei dare qualche pedalata. metto le dita nella presa di corrente. il piede rimane incastrato nei raggi della ruota posteriore, innescando il distaccamento dei raggi. ospedale. un’altra cosa: la lampadina della dinamo della mia bicicletta ha un solo filo che la fa accendere; dunque, se voglio svitarla per testare il motore del trapano portatile devo, dopo aver provato la qualità di conduzione elettrica del mio braccio sinistro, attaccare il mono filo da bici a un solo polo, azzeccandolo. pare che per accendere questo tipo di lampadina non ci sia verso. ops, l’ho appena fulminata inserendola nel jump start caricabatterie. me ne resta solo un’altra che funziona con doppio filo, ma come farla accendere dalla dinamo della bicicletta (che si aziona con un solo filo)? quanto ancora dovrò pedalare con le gambe a brandelli? fino a che punto verrà premiata l’interposizione del corpo al flusso di corrente?

*

che facciamo? qualche agente chimico? qualche bomba batteriologica? qualche residuo delle fantomatiche armi di distruzione di massa irachene? come faccio a farmi disegnare sulla schiena la grande barriera corallina australiana, con tanto di dettagli, a grandezza naturale, devo cercare uno bravo? dipende cosa intendi per tagliare. se devi fare dei fori di grosso diametro, ci sono le frese a tazza. vanno bene per il piercing spinale e al bacino. se devi tagliare tanto, almeno per un quantitativo similare a quello richiesto dal mercante di venezia, ci sono le roditrici. se vuoi sforacchiarti tutte le altre zone del corpo, esistono innumerevoli punte di tutte le dimensioni. se invece ti vuoi tagliare, dipende dallo spessore della porzione. se è fine puoi chiedere le frese che trovi in ferramenta, però deve essere specializzata in articoli per metalmeccanico. le frese che sto utilizzando per i chiodi nelle mani sono abbastanza care, perciò ti consiglio di comprare un seghetto alternativo. se ne acquisti uno non-di-marca non spendi più di venti euro.

— — — * — — —

– a-void (i)

1. to evolve, use a condominium every day, signal

2. strife, drying, cracking, now violating neurons

3. working faster, sure, don’t know, some water

4. experiments, inflating one packet, diluted

5. powders, always in a generous amount of

6. failure, tear, corrosion, delay your climax

7. with food supplement, meaning decomposed

8. concentrated milk proteins, human kidneys,

9. reduction in weight, immerging yourself

10. inthe harvest, and to regenerate, precious

11. sorrow, a way to avoid advertising, the only

12. metabolism, in mind, starving, to be taken

13. before meals, system allowing us to eliminate

14. the amount of simulation, filtering the message

15. i am particularly stubborn on the word ‘art’.

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4 Commenti

  1. Daniele, la serie “Al lavoro” mi convince molto – per struttura e, diciamo così, un “senso del verso” che accusa molto bene nella quantità e negli ictus quanto già suggerito dalle riprese anaforiche, e necessitato più che mai dal tema, e da una spinta esplorativa contraria all’epifania, al momento “strappato” e “diverso” e “privilegiato”. si resta nella materia opaca e vischiosa dell’ordinario e la si rende dicibile, significativa. Notevole, complimenti.

    ps.

    Ho notato anche altrove che hai molta “fiducia” nel progetto, nello sviluppo seriale dei testi. Cosa che apprezzo, anche avendo lavorato (personalmente e fin ora) in maniera quasi opposta. Ne intuisco le ragioni ma sarei felice di ascoltarti su questo punto.

    un saluto,

    f.t.

  2. @ fabio: grazie di nuovo.

    “dopo le prime battute la materia diventa insensibile
    o sensibile incerta privata rischiosa privilegiata declinazione”

    Due versi di Adriano Spatola, del miglior Spatola, probabilmente (quello de “La composizione del testo”), mi aiutano a dare spiegazione sia di ciò che riguarda “Al lavoro” sia di ciò che interessa l’area delle cosiddette “pratiche di scrittura” che porto avanti da un po’.

    Per le poesie, o meglio, la prima “serie”: il realismo di ritorno che interessa “Al lavoro” (ma non solo, dato che è presente in molta della poesia recente che mi è capitato di leggere) corre lo stesso rischio di “esaurimento” in cui è finita la lirica tout-court. Penso che la deriva verso il “celebrativo” renda davvero questa materia “insensibile” e, ancor peggio, “privata” e “privilegiata”: in fin dei conti, tradendola. Meglio tenersi qualche residuato di forza epistemica piuttosto che perdere pure quello, credo.

    Per quanto riguarda le serie in sé e per sé (non parlerei, comunque, di vera e propria “serialità”) penso invece che questo modo di procedere derivi da una sovrabbondanza di stimoli a cui sono sottoposto/mi sottopongo, a seconda dei casi. Questo mi porta poi a dover “riattivare” e “completare” (brutta parola, lo ammetto: il più possibile in senso lato, comunque) il lavoro svolto soltanto in alcune direzioni, mettendone da parte altre (a volte in maniera drastica). Dopodiché mi accorgo che questa attività, pur con i suoi limiti (un riduzionismo eccessivo, a volte) ha dei vantaggi anche rispetto alla postura che tento di portare avanti scrivendo: è questo che, rende la selezione di testi presente in questo post un po’ diseguale e, forse, non chiara. Mi pare che questo lavoro ripaghi, almeno in parte, la fiducia che gli viene data.
    Spero di essere stato esauriente: spero anche di non esserlo stato troppo. :D

  3. Caro Daniele,

    non si è mai troppo esaurienti, per fortuna. qualche considerazione in ordine sparso:

    mi citi davvero un grande Spatola, dal quale volentieri ti ripalleggio: “oppure guarda come il testo si serve del corpo / guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica” (La composizione del testo, 1).
    un problema della poesia, e della scrittura in generale, è in effetti è sempre quello della “postura”, della “posizione”: interpreto così la questione dell’eventuale “realismo di ritorno”, di cui in verità il tuo testo non mi sembra particolarmente soffrire (nonostante la modalità di sviluppo “a tema”, e il tema stesso prescelto, comportassero questo rischio). è, io credo, la stessa latente soggettività che vi opera e che nomina ed elenca, “senza parte o patente” ma secondo “il tasso esperenziale dello scavo” – e dunque senza che si vada a decorare o a estetizzare un sapere in tutto precedente alla concreta pratica testuale – è questo elemento, dicevo, che ti allontana quanto basta dalla postura frontale e assertiva e quasi sempre oratoria tipica di ciò che io almeno intendo come “realismo di ritorno” (e al quale preferisco la dicitura “restituzione della realtà”, che Alessandro Baldacci ha con molta precisione escogitato per avvicinare l’opera di Mesa).

    il rischio di “estetizzare” (secondo l’accezione che ho dato al verbo, e che traggo sempre da Mesa: asserire in versi un sapere tutto precedente all’atto concreto della scrittura, facendo della scrittura un pretesto), può in effetti rientrare dalla finestra proprio nel momento in cui si deve – per non perdere, ché non va persa – la possibile “forza epistemica”, “completare”, come dici, il lavoro: in una direzione adesso determinata, direzione che i tratti retorici unificanti della “serie” possono appunto esporre al rischio di cui sopra. si è insomma schiacciati proprio dalla conoscenza acquisita scrivendo e dalla prospettiva che questa stessa conoscenza ha aperto, e che impone, allora, di essere percorsa, pena lo smarrimento stesso di tale conoscenza. stabilire chi riesca a farlo senza incorrere nella estetizzazione è operazione critica complicata; qui, senza uscire dall’impressionismo di queste mie note, mi sembra di poter affermare che uno dei punti di forza di questi testi sia proprio il riuscire a smarcarsi da questo rischio.

    ma spero di non essere stato chiaro, cosicché tu possa bellamente ignorare questo mio sproloquio ;-)

    un saluto,

    f.

  4. Caro Fabio,

    qualche replica, o meglio, qualche annotazione sulle cose dette (non solo è impossibile essere esaurienti, ma a volte anche essere chiari su tutto, per cui mi limito ad alcune precisazioni-estensioni sul “già detto” e sul “da dire”).

    Credo che il palleggio spatoliano potrebbe continuare ancora per molto (le sue “aurorali esplosioni” in contrasto a “slabbrate sgraziate monodiche alternative” o, ancora, la chiusa della “composizione”, probabilmente uno dei momenti migliori del nostro secondo Novecento): ecco, almeno fino all’intervento della gendarmerie.

    Sulla “postura” ci hai preso, mi pare chiaro (espressione che preferisco a “posizione”, forse perché mi restituisce il “corporeo” nella sua sfumatura): è un problema che interessa, come è evidente, ottima parte del contemporaneo e della compagine testuale con cui abbiamo a che fare.

    Per via del genere e delle modalità compositive di “Al lavoro”, in parte per la “rigidità” del materiale utilizzato (tema, ripetizioni, scansione alternata ma “non-alternativa”, se mi passi il termine), in parte per una questione che mi preme specificare sulla “postura” (un’idea dell'”omissione” che ogni scrittura si porta dietro: una tendenza che ogni tanto, se esasperata, può portare a risultati migliori rispetto a quelli che si ottengono sotto l'”ansia del dire”), in parte anche per la qualifica che il testo assume su di sé, a scadere nella maniera ci si mette molto poco, probabilmente non ce ne si accorge.

    I rischi, in questo caso particolare, sono esattamente correlati alla disposizione del testo: allo stesso modo, la ripetizione forse aiuta a distenderlo a sufficienza, a equilibrare il rischio di una “pre-estetizzazione” con quello invece contrario, più che del “realismo di ritorno”, del “ritorno al realismo” (che è un’estetizzazione sul dopo, sul materiale testuale già in sclerosi, cristallizzato), di cui tanta poesia, anche di autori giovani, pare non poter fare a meno. Di qui, una soggettività che nel testo è latente ma è anche latenza essa stessa, che lavora meglio sotto traccia e che probabilmente non ha altre vie che questa.

    Niente, queste cose qui sopra penso che estendano alcuni dei punti affrontati precedentemente: mi piacerebbe, dato che ci siamo, sapere cosa ne pensi degli altri due testi.

    Saluti,

    Daniele

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