Solution 196-213. United States of Palestine-Israel
Se non fosse il sesto volume della serie Solution curata dallo scrittore Ingo Niermann per Sternberg Press, il titolo di questo libro sarebbe sufficiente a fare esplodere qualsiasi conversazione senza neppure bisogno di aprirlo. Ma ricollocandolo nel contesto delle soluzioni paradossali proposte per la Scozia, Dubai, il Giappone, l’America e soprattutto per la Germania – con il libro dello stesso Niermann sulla Grande Piramide tedesca, la tomba più monumentale del mondo – le parole assumono immediatamente un senso più mite.
«Le soluzioni in questo libro usano il pensiero e l’invenzione come tattiche critiche al fine di destabilizzare le solite identità antagoniste e di suggerire nuove alleanze e nuovi orizzonti» spiega il curatore, Joshua Simon. «Se si pensa al fatto che Theodor Hertzl, il padre fondatore del Sionismo, era uno sceneggiatore romantico, è facile vedere Israele come una fantasia gettata sul palcoscenico della storia». Un “décor” che prevedeva l’espulsione dei palestinesi, l’afflusso di ebrei e la costruzione di scenografici insediamenti turriti – prosegue Simon – e che ha creato una realtà fatta di occupazione e di separazione, i due elementi chiave dell’evoluzione storica della regione.
Per smantellare la rigidità dello schema geopolitico originato da questi elementi il ricorso al diritto internazionale, alla diplomazia e alla forza militare si è rivelato ugualmente inutile. L’esigenza politica di uscire dai vincoli che si sono cristallizzati negli ultimi decenni diventa sempre più urgente, e la risposta di questo libro appartiene a un genere molto diffuso nei circuiti globali dell’arte e della cultura, dalle mostre e dalle riviste ai dipartimenti universitari. Alla pura analisi critica viene sostituita una collezione di nuove narrazioni, differenti nella forma e in diverso grado paradossali, utopiche, metaforiche. Come in un padiglione di una qualche Biennale, autori spesso serissimi, attivisti, professori, mischiati a scrittori, cineasti, artisti vengono sollecitati ad abbandonare il piano letterale del discorso e a proporre un progetto o un’idea, indipendentemente dalla loro relazione con il reale. Quella che viene richiesta è una performance, uno sconfinamento più o meno profondo nel simbolico.
Tra le 18 soluzioni per gli “United States of Palestine-Israel” quelle di Ingo Niermann interpretano in maniera più esuberante di qualunque altra il ruolo provocatorio e immaginifico evocato da Joshua Simon: costruire insediamenti riservati a gay e lesbiche palestinesi su territorio israeliano servirebbe a mettere alla prova lo sciovinismo palestinese e contemporaneamente l’eterna immagine di Israele come unico paladino a difesa delle libertà civili in medioriente. O, meglio ancora, la fondazione di un secondo stato Israelo-palestinese speculare al primo su territorio tedesco abbatterebbe in un colpo solo lo spopolamento in Germania e la pressione demografica in Israele, trasfigurando lo stato nazione in una nazione-mondo.
Il Jewish Renaissance Movement in Poland dell’artista e attivista Yael Bartana è un progetto visionario iniziato nel 2007, ora in esposizione nel padiglione polacco alla Biennale di Venezia: una trilogia video che utilizza il classico linguaggio della propaganda anni Trenta allo scopo di riportare 3 milioni di ebrei in Polonia, sperimentando un incontro in grado di procurare nuovo ossigeno a una società europea sempre più reazionaria e soprattutto agli stessi ebrei finalmente trasferiti al di fuori dei confini israeliani e delle loro dinamiche opprimenti.
Ma la maggior parte delle proposte lavora all’interno dei confini, producendo scenari in cui a essere decostruiti sono i meccanismi della discriminazione. Noam Yuran pensa a uno stato ebraico in cui tutti i cittadini “di sinistra” si convertano burocraticamente all’islam, boicottando in questo modo la schedatura governativa dei cittadini per “affiliazione nazionale”, che identifica i potenziali nemici (arabi) in base all’etnia e gli amici ebrei secondo l’appartenenza religiosa. Sari Hanafi si spinge a concettualizzare un nuovo modello di stato-nazione fondato sulla flessibilità dei confini e della cittadinanza, negando perciò il principio territoriale che esclude il ritorno dei rifugiati. Nel “Decolonizing architecture” di Alessandro Petti, Sandi Hilal ed Eyal Weizman, si sperimentano nuovi modi di abitare e riutilizzare le costruzioni degli insediamenti sgomberati. Asma Agbarieh-Zahalka tenta di costruire un’alleanza solida tra lavoratori ebrei e palestinesi contro le forze del capitale, che hanno concentrato la ricchezza nazionale nelle mani di pochissime famiglie, e lo stesso Joshua Simon insieme a Ohad Meromi immagina di ripopolare i Kibbutz in rovina e trasformarli in laboratori di vita comune in vista della transizione anticapitalista: tentativi questi di svincolare il problema dalle strettoie etniche, religiose e securitarie per ricondurlo al discorso di classe e alle questioni proprietarie, cioè al diritto dei rifugiati del 1948 e del 1967.
Di fronte a un sostrato critico radicale come quello contenuto in questo libro, dove la politica israeliana viene apertamente equiparata all’apartheid sudafricana, e in cui Arielle Azoulay dichiara in modo esplicito che “i cittadini di origine ebrea hanno trasformato la cittadinanza in una proprietà personale”, viene da chiedersi quale sia l’utilità del ricorso al simbolico, e quali gli elementi che hanno sancito il successo di un format che tende nella maggior parte dei casi a stemperare la forza degli argomenti, a nasconderli in una trama allusiva, associativa, nella sfera della smartness a scapito della chiarezza.
Perché a un certo punto si è deciso che un’idea creativa è più costruttiva di un discorso razionalmente articolato? Perché un gruppo sempre più esteso di intellettuali politicamente impegnati, pur consci del costante affievolirsi del proprio ruolo e dell’influenza che riescono a esercitare sulla società, scelgono di affidarsi a una stratificazione di linguaggi sempre più autoreferenziali? Sono domande che in un momento storico come questo, in cui l’industria culturale novecentesca agonizza riversando le sue ultime energie in sistemi di scuole ed eventi completamente asserviti a un marketing a sua volta boccheggiante, vanno poste senza tregua.
Joshua Simon (ed.), Solution 196-213. United States of Palestine and Israel, 2011 Sternberg Press
[pubblicato su Domus, sett. 2011]
bello, bello