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Arna’s Children di Juliano Mer-Khamis

Arna’s Children [ 2003 ]
di Juliano Mer-Khamis [ 1958 – 2011 ]
www.arna.info

Freedom Theatre You Tube Channel

di Orsola Puecher

La donna provata dalla chemioterapia, con la kefiah a coprire la testa dai radi capelli bianchi e il cartello in mano DOWN WITH THE OCCUPATION, sulla strada polverosa fra le auto ferme al posto di blocco dei soldati israeliani, che inerme dice loro con coraggio “Lasciateli andare… smettetela di torturali!“ è Arna Mer-Khamis.

Il documentario Arna’s children è stato girato da suo figlio Juliano Mer-Khamis, attore e regista, direttore del ⇨ Freedom Theatre di Jenin, che fieramente si definiva palestinese e israeliano insieme, ucciso il 4 aprile 2011 da un commando armato mascherato. Solo pochissimi giorni prima di Vittorio Arrigoni. Nelle sue profetiche parole, “E’ pericoloso!”, che concludono l’intervista del dicembre 2010, nel gesto che le accompagna agitando la mano, la coscienza che la morte spesso può essere il destino dello “scandalo” delle utopie e dei sogni.
 

 
Il Freedom Theatre dopo la morte di Juliano Mer-Khamis ha cercato di continuare l’attività, chiedendo la protezione della polizia palestinese, con nuove produzioni e proseguendo la scuola di recitazione per i ragazzi, ma il 27 luglio scorso nella notte c’è stata ⇨ un’irruzione dei militari israeliani con l’arresto di alcuni suoi membri e poi di nuovo il ⇨ 22 agosto. E’ questa persecuzione a doppio fronte il segno di quanto possa far paura il cambiamento delle coscienze, di quanto si abbia interesse a reprimere e minacciare una nuova prospettiva culturale, di quanto si consideri pericolosa questa resistenza non violenta che al posto delle armi ha le idee. Di quanto si temano gli “operatori di pace“.

Il film Arna’s children è la storia di un gruppo di bambini del campo profughi di Jenin e del progetto educativo di Arna Mer-Khamis per offrire loro attraverso l’attività teatrale uno spicchio di umanità, una valvola per sfogare la loro rabbia repressa e il loro dolore: rappresentandoli, recitandoli, in un antico meccanismo di catarsi che cerca di portare alla luce i loro conflitti quotidiani, di incanalare offesa e odio. Ma è anche la storia di un’isola di gioco, di diritto alla dolcezza, alla felicità, all’arte, perché delle guerre i bambini sono le vittime più dimenticate. E i bambini saranno i grandi di domani.
Juliano dal 1989, aiutando la madre, segue con la macchina da presa l’attività quotidiana dello Stone Theatre per sei anni.
Questa esperienza diventa un punto di riferimento nei territori occupati. Riceve premi e finanziamenti.
Con la morte di Arna, nel ‘95, tutto finisce.
Nel 2002 i carri armati israeliani radono al suolo il campo di Jenin.
I bambini di Arna sono cresciuti.
Pochi giorni dopo la terribile rappresaglia Juliano torna al campo.

Sono ritornato sulle rovine di Jenin con la mia macchina da presa per vedere cosa fosse successo ai bambini che ho conosciuto e amato… il mio film cerca di raccontare le loro storie e di capire le loro scelte.

Il documentario è costruito attraverso l’accostamento dei flashback delle prime riprese del 1989 con quelle della situazione presente, lucidamente, senza nulla nascondere. Soffrendo insieme alla sofferenza che si filma. Interrogandosi insieme alle domande che sorgono.
Rivediamo Alla dal viso paffuto e gli occhi consapevoli, che amava tanto dipingere con i pennelli e ora impugna armi al loro posto… Ashraf e il suo sorriso, che nella recita era il principe che voleva catturare il sole, quando racconta come all’inzio fosse sospettoso che degli israeliani facessero tutto quello per loro, fino a pensare che fossero delle spie e di quanto invece la conoscenza reciproca avesse costruito un rapporto di fiducia, “Arna per me è come una madre e tu come un fratello…” e poi subito il suo video d’addio ufficiale da martire kamikaze. Il dolore composto della madre. Ma anche Zakariya, combattente della Seconda Intifada, il volto segnato di cicatrici, l’unico superstite dei bambini di Arna, che ha scelto di deporre le armi e ora, dopo la morte di Juliano, anima e prosegue l’attività del Freedom Theatre.
Immagini, episodi che restano scolpiti per l’assoluta anti retorica del modo di raccontarli. E non è cosa frequente.

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10 Commenti

  1. perdonatemi, ma con mia grande sorpresa il link collegato al mio nome è cambiato, sarà sicuramente un brutto scherzo da collegamento, quindi lo lascio qui per esteso

    http://www.alternativenews.org/english/index.php/topics/news/3810-israel-targets-vittorio-arrigone-school-in-embattled-jordan-valley

    racconta di un’altra piccola scuola intitolata a Vittorio. I lavori per la realizzazione del piccolo edificio nel villaggio di Ras Al Auja, iniziarono appena 10 giorni dopo l’uccisione dell’attivista italiano, ma lo scorso 11 settembre (brutta data evidentemente) è stato raso al suolo.
    Sono piccole notizie che però, credo, debbano essere divulgate non meno e quanto gli errori della controparte fondamentalista e palestinese per tracciare un reale quadro di quanto e come due popoli siano entrambi sotto scacco, per il volere di chi? e a danno di chi? con la responsabilità di chi?
    forse anche la nostra?

  2. i paesi nelle condizioni della palestina o forse anche peggio sono molti, ormai, troppi, in molte latitudini della terra, anche se si parla solo di alcuni di essi, legati ai nomi e alle vicende di coloro che sono addirittura morti con e per l’idea di salvaguardare non solo un pezzo di terra, ma la vita che in quella terra s’insedia, senza altro potere che quello di vivere. Purtroppo non si è raggiunto ancora un livello di wellfare globale ma solo un warfare che vorrebbe creare il bello per pochi e il nulla per altri con le stesse storie vecchie quanto è vecchio il colonialismo. Ciò che manca è davvero la capacità di sognare e sognare così forte che la vita diventi teatro della vita e della morte così come l’ha scritto il libro in cui tutti noi siamo comparse, nessuno attore principale o regista, se non in sogno, un brevissimo sogno senza potere, se non quello di sognare. Grazie.f.f.

  3. Il Freedom Theatre di Jenin continua a resistere e rappresenta Aspettando Godot. Il 10 settembre gli allievi dell’attivista ucciso e co-fondatore del Freedom Theatre, Juliano Mer Khamis, con la regia di Alon Udi, per la prima volta rappresentano la commedia di Samuel Beckett: uno spettacolo maturo e serio, in cui monologhi e pensieri interiori prendono il posto dell’ azione.
    E’ stato un progetto difficile, nato dal dolore dopo l’assassinio di Mer-Khamis e caratterizzato da attacchi ripetuti al Teatro e al suo staff da parte dell’esercito israeliano.
    Il regista Udi Alon racconta a ⇨ Alternative Information Center il significato di Aspettando Godot, la nascita del progetto e le sue aspettative per il futuro.

    Da dove è nata l’idea di rappresentare Aspettando Godot?

    Eravamo tutti in lutto dopo l’assassinio di Juliano e abbiamo voluto preparare qualcosa che fosse triste e rappresentasse i nostri sentimenti. Il mio modo di interpretare Godot riguarda il modo di trovare speranza e significato in situazioni senza senso; questo è il modo in cui ci siamo sentiti e ho pensato che avessimo il diritto al lutto. Aspettando Godot è anche il progetto di diploma degli studenti e volevamo mettere in scena uno spettacolo molto serio con un testo profondo, monologhi e contenuti. Abbiamo voluto assumerci la piena responsabilità perché Jule era solito parlare molto di responsabilità, così abbiamo voluto mostrare il suo duro lavoro, non semplicemente rappresentare una commedia. E in qualche modo Godot sta restituendo questo, in qualche modo abbiamo percepito che in Godot c’è qualcosa sui nostri rapporti così fragili, così caduchi. Quello che è importante sono i piccoli gesti, non quelli grandi, perché di solito vogliamo essere rivoluzionari, siamo alla ricerca di grandi gesti, ma penso che abbiamo anche diritto a piccoli gesti.
    Siamo deboli, non siamo forti. Si può dire che siamo rivoluzionari, ma siamo così fragili. Non sappiamo chi ha ucciso Juliano, abbiamo nemici ovunque, facciamo fatica a restare vivi, ma c’è qualcosa di bello perché attraverso questa fragilità possiamo creare qualcosa di potente capendo questo e pensando in modo diverso. Ho imparato molto su come lavorare dalla fragilità.

    E’ stato difficile preparare lo spettacolo?

    E’ stato più che difficile, è stato impossibile. Quello che avete visto oggi è un miracolo. Prima di tutto eravamo tutti sotto shock, in una situazione di post-trauma, e contemporaneamente l’esercito israeliano ha arrestato Rami nel bel mezzo delle prove senza alcuna ragione. Quando si resero conto che non c’era motivo per la sua detenzione, invece di chiedere scusa hanno trovato stupidi pretesti solo per tenerlo in prigione per un mese. E ‘stato rilasciato cinque giorni prima dello spettacolo, quindi non abbiamo avuto abbastanza tempo per le prove.
    Ci siamo sentiti frustrati e nervosi. Prima che gli attori cominciassero la rappresentazione oggi ho sentito che era una vittoria anche solo perché tutto il gruppo è ancora qui insieme, con me, Rami e la figlia di Jule. Tutto questo è stato quasi troppo per me, e alla fine lo spettacolo è diventato così professionale. Ciò che Jule ci ha insegnato sempre era una combinazione di teoria, arte e azione: non basta essere solo politici e attivisti, perché se si è solo un attivista, tutto ciò che fai è la risposta allo stato di emergenza che l’oppressore mette in te, ma devi anche decidere ciò vuoi a prescindere dall’oppressore, per affrontare anche i tuoi problemi esistenziali. In un certo senso questa è una grande vittoria, è una vittoria per rimanere umani e per Jule era importante che ci fosse uno spirito professionale. E ‘un idea di Edward Said: Bisogna avere una cultura superiore. Ora mi sento così grato al popolo del campo profughi di Jenin che mi ha accolto e mi ha fatto sentire parte della loro famiglia: io sono israeliano e in questo momento non è facile essere un israeliano, soprattutto a Jenin, dove gli israeliani hanno fatto cose orribili.

    Qual è l’idea principale che Aspettando Godot vuole illustrare al pubblico?

    Parla molto dell’amicizia e della fedeltà in un momento in cui è impossibile avere l’amicizia e la fedeltà. Penso che ciò che è importante in Aspettando Godot è che è molto universale, ma allo stesso tempo è fondamentale per conservare il particolare, la lotta per la Palestina, la causa palestinese, nel contesto dei valori universali. In un certo senso credo che Juliano fosse una voce nel deserto fino a Tahrir Square e alla rivoluzione egiziana. Improvvisamente non ci siamo più sentiti come un’isola, ma di essere parte di un movimento universale, che non ha bisogno di guardare verso l’Occidente per i valori universali, perché adesso abbiamo l’Egitto e la Tunisia. Penso che Aspettando Godot parli molto dell’esistenza degli esseri umani nel mondo, ovunque. Allo stesso tempo, rappresenta la nostra anima, in quanto attori del Freedom Theatre e come palestinesi e israeliani che lottano per i diritti del popolo palestinese. Per questo motivo abbiamo deciso di rappresentarlo in dialetto palestinese e non in arabo classico, e così facendo percepiamo lo spettacolo come inerente alle nostre relazioni, le nostre lotte, i nostri problemi.
    Un altro elemento importante è che cerchiamo di portare nel nostro teatro lotte importanti come quella per l’emancipazione delle donne. Questa non è la prima volta che i personaggi principali del nostro spettacolo sono donne e in Aspettando Godot abbiamo costruito i personaggi sulla confusione di genere. Per esempio, Didi è una donna, ma è vestita come un uomo.
    Da un punto di vista più generale, noi crediamo in un unico grande stato bi-nazionale, ma non possiamo credere in questo dialogo che Israele sta cercando di condurre con i palestinesi usando denaro europeo. Crediamo di essere parte della lotta palestinese e che in questo luogo di uguaglianza gli ebrei sono i benvenuti. Penso che questo sia ciò che sta accadendo ora. Sono favorevole al boicottaggio, al disinvestimento e alle sanzioni contro Israele e facendo questo, sto conducendo un dialogo vero. Anche se molti israeliani dicono che io sono contro il dialogo perché sono per boicottare i loro prodotti, penso che solo mostrando solidarietà con i palestinesi è possibile avviare il dialogo vero, riconoscendo chi è l’oppressore e chi gli oppressi. Questo è la via attraverso la quale si può raggiungere l’idea di uno stato bi-nazionale per tutti. Questa è l’unico modo per distruggere la separazione della Green Line e avviare un vero dialogo tra di noi.
    Allo stesso tempo, qualcosa sta cambiando in Israele, negli ultimi tempi ci sono state manifestazioni e proteste, ma temo che escludano i diritti dei palestinesi a Tel Aviv, e che gli israeliani vogliano creare uno stato ebraico.

    A fine settembre farete un tour americano di Aspettando Godot. Quali sono le vostre aspettative?

    Faremo il tour di Aspettando Godot per tre settimane. Probabilmente dobbiamo cambiare il titolo dello spettacolo perché non abbiamo i diritti d’autore per usare quello originale. Stiamo pensando a While Waiting.
    Spero di rappresentarlo in molti luoghi, e spero in cinema e teatri, perché questi attori sono le voci giovani della Palestina e l’obiettivo principale del Freedom Theatre è quello di offrire un altro tipo di resistenza.

  4. Brava Orsola! Che si veda infine anche ciò che non si vede, o, meglio, che LorSignori non vogliono che si veda…
    Grazie.

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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