carta st[r]amp[al]ata n.43
di Fabrizio Tonello
C’è un burlone che si aggira per le redazioni italiane. Un astuto militante per i diritti umani, probabilmente iscritto ad Amnesty International, Human Rights Watch e altre organizzazioni consimili. Il simpatico falsario è riuscito a piazzare un lungo articolo, “Le tre lezioni dell’11 settembre” sulla pagina degli editoriali della Stampa di domenica scorsa, diffondendo le tesi care a tutti i veri democratici: “Non si può vincere il terrorismo solo con gli eserciti”, il concetto di global war on terror è una cazzata, occorre “coinvolgere attivamente le società civili per sviluppare il dialogo tra civiltà e culture diverse”, dobbiamo “migliorare i meccanismi di integrazione all’interno delle nostre società multiculturali” (già echeggiano le urla di Borghezio e i grugniti di Bossi mentre il dentista Calderoli impugna minacciosamente il trapano).
L’illuminato opinionista criticava, inoltre, i “regimi dittatoriali e sanguinari” del Medio Oriente, che l’Occidente aveva “cinicamente accettato” di sostenere. Per fortuna, “questi patti sono stati irreversibilmente spazzati via dal vento delle rivoluzioni arabe”. Insomma: un editoriale che avrebbe potuto ben figurare sul Manifesto. L’anonimo collaboratore della Stampa ha però voluto esagerare e, invece di ricorrere a uno pseudonimo, si è firmato “Franco Frattini, ministro degli Esteri”.
Frattini? Quel Frattini? Il sorridente personaggio comparso decine di volte a fianco di Gheddafi con la sua aria da parrucchiere, anzi da Hair Stylist, come direbbero a Washington? Il Frattini che, nel 2004 criticava Prodi perché “fa finta di dimenticare che la vera apertura a Gheddafi è venuta da Berlusconi. Quando Berlusconi voleva rimuovere l’ embargo europeo sulla Libia, non ho sentito mezza parola di Prodi su questa posizione della presidenza italiana” (Repubblica, 3 gennaio 2004).
Come si sa, l’embargo fu poi effettivamente cancellato, dando l’avvio a una serie di incontri, abbracci e baciamano culminati nella visita del dittatore libico a Roma, l’anno scorso. Fu in quella occasione che, parlando del simpatico colonnello accompagnato dalle sue amazzoni, l’autentico Frattini disse: “Gheddafi ci apre le porte in tutta l’Africa” (la Stampa, 2 settembre 2010) aggiungendo poi che chi criticava il leader libico per la sua frase su “islamizzare l’Europa” era semplicemente “gente che non capisce la politica internazionale”.
Il Frattini-Frattini (quello che rischia sempre di restare fuori dalle riunioni internazionali perché gli uscieri lo scambiano per il coiffeur di Angela Merkel) ha una lunga storia di ammirazione per il capataz di Tripoli, di cui vantava fino a 7 mesi fa le capacità di innovare sul piano della teoria e della pratica politica: “Faccio l’esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama dei congressi provinciali del popolo: distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi” (Corriere della sera, 22 febbraio 2011).
Altro che Montesquieu! Chi ha bisogno di Rousseau? Tocqueville, chi era costui? Il filosofo politico da studiare è Gheddafi, che cerca “una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi” e uno in cui funzioni “lo sfogatoio della base popolare”. Ecco, come mai Thomas Jefferson, James Madison e John Stuart Mill nel gettare le basi del costituzionalismo moderno non avevano pensato allo “sfogatoio”?
Meno di un mese dopo, l’autentico Frattini, posando per un attimo l’asciugacapelli, dichiarava al Sole-24 ore: “Gheddafi non si può mandare via”. E, interpretando con la consueta abilità la situazione sul terreno, aggiungeva: “La Cirenaica è ormai di nuovo quasi completamente nelle mani di Tripoli” (16 marzo 2011). Su Repubblica (23 giugno), l’attivissimo ministro degli Esteri, faceva poi sapere che era necessario uno stop «umanitario immediato delle ostilità» in Libia, per creare corridoi che aiutino la popolazione sottoposta ai bombardamenti di Gheddafi soprattutto nelle zone di Misurata e delle “montagne occidentali” (la geografia non è mai stata il suo forte).
Come si vede, il Frattini-Frattini ha cercato di salvare l’amicone del Caimano anche quando la Nato stava bombardando le sue milizie da settimane e settimane: vi sembra possibile che proprio lui, neanche tre mesi dopo, abbia definito quello di Gheddafi un regime “dittatoriale e sanguinario”, con cui l’Occidente aveva “cinicamente accettato” patti di ogni genere? Certo che no: suvvia, compagno editorialista, la burla è durata abbastanza. Se sei Luciano Canfora o Nicola Tranfaglia, firmati con nome e cognome.
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Frattini di cazzate ne ha dette e fatte tante. Ma bisogna riconoscere che quello sulle “montagne occidentali” non è uno strafalcione. Certo, “montagna occidentale” è il termine “ufficiale” con cui Gheddafi denominava il Gebel Nefusa, la catena montuosa posta effettivamente ad occidente e da cui è, di fatto, partita l’offensiva decisiva che è giunta fino a Tripoli. Non usava il termine “Nefusa” perché è il nome della popolazione berbera che lo abita, e a Gheddafi viene l’orticaria quando sente parlare di libici che non siano arabi. Il campione dell'”africanità” è infatti in realtà filo-asiatico (l’Arabia è infatti in Asia). Insomma, anche se lo ritiene un dittatore sanguinario, Frattini non rifugge dal ricorrere al suo stesso linguaggio…