Epos e new epic – Is there an epic in those texts?
ovvero
Il senso dell’ovvio: come mai Omero non è Wu Ming.
di Daniele Ventre
“Il realismo è la ricerca di una rappresentazione per quanto possibile “oggettiva” del mondo, vicina al (tangibile, materialissimo) “compromesso percettivo” chiamato “realtà”; presuppone quindi un lavoro sulla denotazione, sui significati principali e condivisi. Quando descrivo una scena di miseria avvilente, e cerco di trasmettere con precisione tale avvilimento, sto gettando un ponte verso il lettore, mi rivolgo a quella parte di lui – quella parte di noi tutti – che trova avvilente la miseria. L’epica è invece legata alla connotazione: è il risultato di un lavoro sul tono, sui sensi figurati, sugli attributi affettivi delle parole, sul vasto e multiforme riverberare dei significati, tutti i significati del racconto. Al lettore sto gettando un altro ponte, qui mi rivolgo al suo desiderio, desiderio di spazio, di scarti e differenze, di scontro, sorpresa, avventura”.
Così suona l’ormai famosissima distinzione fra realismo ed epica, instaurata da Wu Ming 1 (alias Roberto Bui) nel suo New Italian Epic: una distinzione non certo rigida, per due ovvie ragioni addotte da Wu Ming stesso, visto che esiste, nel cinema come nella letteratura, un realismo epico, e visto che la spontanea tendenza (neurologicamente radicata) del linguaggio umano a essere metafora e connessione archetipica rende di fatto impossibile, in principio -e forse, almeno in certi casi, di principio-, la denotazione pura, come si evince dalle analisi condotte da Furio Jesi sul meccanismo mitopoietico (1) -e se dovessimo portare all’estremo le conseguenze del ragionamento, se ne dovrebbe inferire, con Goodman più che con Derrida (2), che la realtà non è tanto un compromesso percettivo, quanto piuttosto la sommatoria di costruzioni nominal-metaforiche “opportune”, cioè operativamente funzionali o in qualche modo “trincerate” nel sistema di un sentire comune primario, di specie (3).
La denotazione pura (o meglio, la denotazione quanto più pura possibile) sembra allora tornare, di nuovo, nel linguaggio (mondo), opportunamente costruito, della descrizione controllabile e controllata dell’esperienza -nel testo scientifico, che per altro, nel suo costituirsi come esposizione di una forma di conoscenza e del controllo di questa forma di conoscenza, cova anch’esso l’epica “dormiente” tessuta dal dominio della metafora dell’avventura intellettuale, e così basta l’intervento dell’immaginario poetico di un Lucrezio per ridestare ai fasti dell’ “epica” tout court le ambagi di quell’avventura.
Ma per quel che ci riguarda, appare ormai evidente, a questo punto, fino a che livello il termine “epica”, nell’accezione wuminghiana o lutherblissettiana, dilaghi e svapori nel regno degli enti dai confini sfocati, in un mondo di penombra -ma forse la penombra si addice all’epica quanto il lutto ad Elettra nella sua versione hofmannsthaliana. Questo almeno è quanto ci si trova a constatare, una volta che la denotazione si sia palesata come costruzione contesta di metafore in stato di latenza (dormizione apparente del senso, del connotativo), rispetto all’immaginazione vigile della one-shot image metaphor che contraddistingue gli usi non ordinarii (poetici) del linguaggio (4). Di fatto sembra che il termine epica, e il corrispettivo concetto di new epic, possa dilatarsi ancor più che nei venerandi e terribili Discorsi del poema eroico del Tasso, che definiva poeti epici anche i cinque grandi romanzieri greci tardoantichi (Caritone, Senofonte Efesio, Longo Sofista, Achille Tazio, Eliodoro, sui quali dovremo tornare), allora da poco cooptati nel canone letterario. Questi confini incerti fanno sì che al new epic siano accostabili i romanzi (fra storia, fantascienza e fantasy) di un Valerio Evangelisti, i libri inchiesta come Gomorra di Roberto Saviano, o certi filoni del noir e del giallo, fra i più esposti mediaticamente, in barba al lancio della rivoluzione senza volto che Wu Ming proclama, fin nel nome (senza nome).
Forse allora il termine “epica” andrebbe qui sostituito in prima battuta, almeno negli orientamenti programmatici, col più banale “letteratura”, il programma del new epic essendo non altro che la proposta di riletterarizzare profondamente il narrato, di ridestare le metafore e i sensi dormienti nella narrazione di consumo usurata, trasformandola di nuovo in discorso di riuso, in vista dell’instaurazione di uno specifico ponte comunicativo col fruitore. Non potrebbe essere altrimenti, anche perché quella di “epico” è una qualifica dai connotati storicamente assai forti e definiti, al di là della sua, usurata e derivativa, accezione ordinaria: inteso nel suo senso tecnico, “epico” è il mito (racconto orale almeno nella sua matrice) che si articola in parole-versi composte di moduli formulari (dagli epē dell’aedo greco ai reči del guslar serbocroato), e comporta una sistematica esecuzione improvvisa accompagnata da una più o meno complessa attivazione verbomotoria; in un secondo momento, “epica” è qualsiasi forma letteraria non più orale, che in un contesto per lo più (ma non solo) aurale, conservi almeno in parte alcuni connotati dell’oralità primaria, e cioè il racconto tradizionale e la similarità che domina, jakobsonianamente parlando (5), la direttrice metaforica e il parallelismo verbale tipici della poesia (prevalenti anche nell’epica, a dispetto delle pur ampie digressioni metonimiche che talora vi si rinvengono), rispetto alla tendenziale contiguità e alla direttrice metonimica che orienta la prosa. In questo senso, l’unico vero new epic (embrionale) esistente al mondo al giorno d’oggi (se escludiamo le epopee viventi tibetane ancora in fase di accrezione) è il rap improvviso del violento sottobosco urbano. Fuori della definizione storicamente propria di epica, esiste davvero soltanto la possibilità di tecnicizzazione del mito (magari anche solo allo scopo di sfruttamento di una risorsa editoriale). La tentazione di rievocare i miti, o addirittura di provare a crearne in laboratorio, è forte: gli stessi membri di Luther Blissett e Wu Ming l’hanno sentita, subita e abbracciata, come schiettamente confessano (6). Ma resta il fatto che al di là delle disposizioni esteriori dei membri del discorso, non esistono miti in prosa, se non come miti in contesti di degrado, di imborghesimento (come nei romanzieri greci tardoantichi, riscrittori prosastici dell’epos ad uso delle scuole di retorica), o di alter-giunzione ironizzante, nella migliore delle ipotesi (come l’Ulisse joyciano). Soprattutto, in assenza del mito come mappa metaforica tradizionale permanentemente riattivabile in positivo come innesco potenziale di one-shot image metaphors, le ombre, ironizzate o degradate, dei miti non possono essere più evocate come forze capaci di inscrivere e orientare l’esperienza comune in attive forme archetipiche di senso. Solo l’epos tradizionale (organismo verbomotorio di parole-versi) può senza mediazione, all’istante, dire goodmanianamente di sé stesso, rovesciando in toto il verso della Gita citato da Oppenheimer ad Alamogordo: “ecco, io ora sono vita, costruttrice di mondi”.
Il New Italian Epic non può dire di sé la stessa cosa -né in sostanza presume di poterlo dire. Il Luhter Blisset Project e il Wu Ming Project hanno costituito un momento d’innovazione del fare (para-)letterario dei nostri anni (7); il trait-d’union implicito fra la storia letterarizzata del Thomas Muentzer di Q e l’idealità intercomunitaria del mondo extraletterario del subcomandante Marcos ne definisce il connotato più nobile. Tuttavia, criticamente parlando, l’etichetta epic cade, nel momento in cui cade operativamente (al di là dei connotati mediali e formali del poema epico) la possibilità di costruire, su una trama di direttrici metaforiche attive e ordinate nella narrazione, un mondo di esperienza orientato sul mito autentico, e non su un mito surrogatorio, (re-)inventato vuoi dalla politica, vuoi dall’editoria. L’epica sottende in ultima analisi una dimensione antropologica che non appartiene all’uomo occidentale del XXI secolo (anche se in certo modo appartiene ancora nel concreto agli indios del Chiapas); soprattutto, l’epica come tale non è new né antica. Come fenomeno culturale è sì il prodotto di una circostanza storica, ma di per sé stessa è senza tempo.
Certo, alcune superficiali analogie toccano il cuore di chi si avvicina al fenomeno del new epic considerandolo superficialmente:
- l’epos in origine non ha autori riconoscibili. Il cantore epico, nel contesto tribale di una cultura pervasa di oralità, è connotato da un’autorialità debole, o meglio diffusa nel gruppo, ma egli stesso rimane anonimo (in cinese mandarino si direbbe wu ming): così i Wu Ming rinunciano alla firma
- le culture orali attribuiscono il loro corpus epico a un autore che è egli stesso mito e spesso ha un nome parlante allusivo alla natura della sua autorialità (Omero, Bogan, Valmiki, Vyasa): così Wu Ming e Luther Blissett sono nomi fittizi che contraddistinguono un gruppo di autori;
- l’improvvisazione orale, come performance nell’immediato, conserva i connotati dell’irrevocabile verbum (8) Molti aspetti dell’attività di Wu Ming hanno una connotazione simile (la rupe Tarpea, al posto della rupe del Taigeto, in una conferenza, errore che lascia traccia nel documento multimediale conservato sul sito, e non è più correggibile)
- Infine, il mito e l’epos tendono, per quanto riguarda la forma di trasmissione e i contenuti che sono loro propri, all’ibridazione mediale (9): i poemi omerici vivono fra oralità e scrittura per almeno tre secoli a partire dall’epoca in cui verosimilmente si colloca la loro prima redazione scritta (750-725 a.C.) (10); inoltre, Polifemo lo si trova nel poema, nel teatro, nella pittura vascolare (11); è appena il caso di ricordare la complessità dell’ibridazione mediale che contraddistingue l’attività di Wu Ming.
Peraltro, ognuno di questi punti presenta dei contraltari antropologici assai netti, che evidenziano in che misura le analogie superficiali nascondano un’intima incommensurabilità, un abisso che è difficile sondare:
- L’epos non ha autori riconoscibili; tuttavia, ogni singola performance di canto epico si concreta nella creazione improvvisa, da parte di un singolo cantore, di poemi epici episodiali assai lunghi, all’interno di un corpus di miti che sono il prodotto di una dimensione cognitiva specifica (quella delle civiltà orali) a partire dal rapporto con le forze naturali percepite ipso facto come ierofanie (segnatamente, i fenomeni celesti; in sottordine, le altre manifestazioni del potere della natura); ogni singolo cantore ricrea il mito ricantandolo in un nuovo originale a ogni nuova performance, così che la tradizione appare, nel contempo, fluida e rigida; i romanzi di Wu Ming sono opera cosciente di gruppo, e sono opera scritta: non implicano certo la committenza diretta da parte del fruitore, né quell’interloquire pragmatico e presenziale del cantore col suo pubblico; i romanzi del cosiddetto new epic sono al massimo grado prodotti della scrittura nella sua dimensione contemporanea, tesa come il funambolo di nietzscheana memoria, fra una dimensione di iperpresenza, amplificata dalla multimedialità, e quella differanza-differenza-differimento di derridiana memoria che al conato iperpresenzialista dello scrittore fa in qualche modo da specchio oscuro; la curiosa e paradossale vicinanza-lontananza fra autore e fruitore (un rapporto simile a quello fra Apollo e Diomede nella battaglia del V libro dell’Iliade (12), fra confidenza estrema e trascendente distanza), connota sia l’aedo sia l’autore Wu Ming, ma per ragioni diverse e diametralmente opposte;
- il nome Wu Ming è frutto di una rivoluzione senza volto, che con riferimento allo slogan del subcomandante Marcos, immagina (secondo modalità al limite dell’utopia) un autore socialmente diffuso: ma questa ridefinizione dell’autore ideale e del pubblico ideale è, appunto, una rivolta all’editoria industriale e alla sua iperindividualizzazione dell’autore, che diventa un divo (e la cui qualità letteraria è indifferente) -e però, fra la costituzione del super-autore (o della band scrittoria), e la creazione editoriale (fittizia) dell’autore-divo, esiste un’intima consonanza e una strutturale contiguità, nell’artificialità pianificata del processo di creazione dell’autorialità come figura in qualche modo ipostatizzata, riformulazione industriale della creazione umanistica dell’ethos (e non è un caso se alcune “firme” dell’autorialità “divistica”, o comunque di chiara fama, come Lucarelli ed Evangelisti e Saviano, abbiano finito per fiancheggiare il new epic, pur trattandosi comunque di “firme” “buone”, “benevole”, con il connotato nettissimo -sia detto col massimo affetto- di probiviri e padri nobili della scrittura di massa; in questo modo, però il cosiddetto new epic rischia nella sostanza di rilanciare all’infinito il paradosso dell’autore-nome, proprio dell’editoria mercantile smerciatrice di romanzi seriali); viceversa, l’autore epico primordiale, più o meno mito egli stesso, ha il connotato di una funzione sociale tradizionale, nel contesto di una società essenzialmente conservatrice e conservativa, e il nome parlante allude alla contiguità col divino o alla funzione del cantore nella tribù, visto che fra l’altro Bojan è figlio del dio Veles, Omero è colui che canta nelle riunioni pubbliche (secondo l’etimo greco) (13), o semplicemente il recitatore, secondo un minoritario etimo semitico (14), Vyasa è il ripartitore, colui che ha disposto in ordine gli inni vedici e il grande poema (il Mahabharata) a partire dal nucleo originario di 8600 shlokas (17200 versi), il canto di Jaya -il caso di Valmiki e di Vyasa rappresenta l’estremo limite che il poeta primordiale può raggiungere, entrando a far parte, circolarmente, della storia che canta, così che Omero, Vyasa, Valmiki, Bojan devono definirsi non tanto come autori fittizi, né come autori ideali, ma come veri e propri autori intra-finzionali, consacrati da tradizioni secolari -caratteristica che non appartiene quasi per nulla a Wu Ming, e che tocca solo epidermicamente e tangenzialmente Luther Blissett, protagonista occasionale di leggende metropolitane, in ogni caso non certo figlie di tradizioni plurisecolari (15);
- il cantore epico tradizionale padroneggia le memorie culturali del suo gruppo tribale con la nitidezza che gli viene da un apprendistato artigianale di più di un decennio; la sua funzione è perciò sacralizzata, come quella del fabbro, e contigua alla magia e al sacerdozio (16); provate a tagliare su Wu Ming questa dimensione tribale e i paradossi esplodono, ovviamente;
- infine, l’ibridazione mediale dell’epos, nella sua forma più autentica, è figlia di una spontanea transizione di fase fra oralità e scrittura che riguarda un’intera società, e si traduce poi nel tempo in una diffusa prosasticizzazione della letteratura; l’ibridazione mediale del new epic è espressione di una pianificazione editoriale e autoriale fluida, ma deliberata.
Appare evidente che il problema del new epic è solo un sottoinsieme del più ampio problema posto da chi ravvisa nell’era dell’informazione il ritorno del tribalismo arcaico. In sostanza, le forme autoriali di Wu Ming e di Luther Blissett, esprimono la tecnicizzazione del mito dell’autore primordiale. In sé rappresentano la parodia e la reductio ad absurdum dell’autore-divo e sono essi stessi meta-letteratura, meta-discorso di rottura proiettato in quell’area indefinita e nevralgica tesa fra l’autorialità e l’editoria; la tensione a una coupure épistèmique che non è riuscita ad inverarsi pienamente. Un fenomeno interessantissimo, che non andrebbe certo guardato con le precomprensioni un po’ troppo ingenerose di un Ferroni (si veda passim il suo Scritture a perdere); tuttavia la denominazione di epic che contraddistingue l’operazione è, antropologicamente parlando, un’usurpazione non troppo felice; la dicotomia epica vs. realismo, che ne costituisce il punto archimedico, mostra un’intima autocontraddittorietà, proprio a partire dalle scaltrite premesse teoriche da cui muove. Forse allora “epica”, perché tesa a rivitalizzare l’usura che ha il termine nel linguaggio ordinario? Nei fatti, il lettore-target specifico di Q o di Altai rischia invece di far precipitare nell’usura anche il senso tecnico (e più proprio) del termine. Come abbiamo già accennato, la trasformazione della storia in avventura, in meraviglioso, in spazio del desiderio, assimila piuttosto i romanzi del new epic ai romanzieri greci d’amore e d’avventura che popolarono con la loro produzione (in gran parte perduta), la letteratura greca nell’età della prosa che va dal I secolo a.C. al III-IV secolo d.C. Quei romanzi, lungi dal costituire, secondo la ben nota formula di Hegel, l’epopea di un mondo borghese, erano piuttosto il surrogato dell’epica, della tragedia e della commedia nell’età della prosa -e tuttavia, se si esclude il solo Achille Tazio, i romanzieri greci risentono, dietro le quinte, di tutta una congerie di ierofanie e miti minori, quando non rispecchiano le nuove grandi costruzioni di senso che segnano una svolta della civiltà tardoantica, come nel caso di un Eliodoro di Emesa, con il suo quasi-epos prosastico di sapore neoplatonico. Anche nel dietro le quinte del new epic meglio riuscito agiscono al più abbozzi di figure archetipiche calati in una riscrittura della storia che non può autenticamente farsi spazio del desiderio e dell’avventura -a meno di non ridursi a lusus e illusione. Manca a quelle figure archetipiche soggiacenti la possibilità antropologica di esprimere un mito, perché la disillusione del mondo, la Entgötterung della Natura, è ormai un dato imprescindibile della coscienza culturale del nostro tempo. Epica, in qualunque accezione la si intenda, non si dà senza mitopoiesi genuina, anche solo riflessa (quella di un Pavese, per esempio): epica non si dà senza metafore e archetipi collassati in forme narrative, in azioni e attanti, che coinvolgano, a un livello profondo, la totalità dell’esperienza umana come costruzione e attuazione di senso nel contesto dell’universo in cui l’esperienza umana va in scena.
La nuova narrativa (così avrebbe dovuto meglio chiamarsi: new fiction, o forse meglio new pulp), ha avuto senza dubbio il merito, per qualche anno durante gli ultimi quindici, di ridefinire i crismi distintivi dell’autorialità e di puntare a far sì che generi “paraletterari” potessero sempre più avvicinarsi a rivestire il ruolo di “opere popolari e di stile” a cui un noto aforisma delle Scorciatoie di Umberto Saba auspicava. Ma ben presto il mercato editoriale ha metabolizzato anche questa forma di opposizione, il cui potere propulsivo si è venuto esaurendo piuttosto in fretta, in tutte le direzioni e per tutte le filiazioni e associazioni indicate.
Forse soltanto in séguito a mutamenti epocali che muteranno radicalmente gli attuali, già decadenti, sistemi di riferimento della nostra civiltà, magari al margine delle città in rovina, le condizioni antropologiche alla radice del mito, ricombinatesi nelle performance verbomotorie dei rappers o di una loro evoluzione futura quale che sia, daranno origine a un vero (new) epic, che non sarà solo italiano. Ma questa è teoria della letteratura trasformata in hard science fiction: un terreno ancor più sdrucciolevole e speculativo di quello su cui mi sono finora avventurato.
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(1) Rimando qui alle pp. 3-5 di Wu Ming 1, New Italian Epic 2.0 (scaricabile qui http://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf e alle note relative, contenenti i riferimenti alle osservazioni di Furio Iesi a cui abbiamo alluso.
(2) Si fa qui riferimento alle implicazioni di fondo della filosofia di Nelson Goodman per come appare tratteggiata in opere quali La struttura dell’apparenza. Il peso del costruttivismo nominalistico di Goodman sull’idea dei dati percettivi essenziali appare ben espresso nelle parole che si possono leggere a p. 22 dell’introduzione di G. Hellman all’opera di Goodman in questione: “tutta la percezione è penetrata dalla selezione e dalla classificazione, che a loro volta si sono determinate attraverso un complesso di eredità, abitudini, preferenze, predisposizioni, pregiudizi. Perfino gli asserti fenomenici che intendono descrivere, fra le sensazioni grezze, le più grezze, non sono né libere da influenze formative di questo tipo, né incorregibili”.
(3) “Operativamente funzionali”, cioè capaci di predisporre un’operazione di controllo empirico ripetibile, e dunque intersoggettiva, in un senso affine a quello che si rinviene nel contesto della filosofia operativistica di P. Bridgman: “trincerate”, cioè stabilizzate in una tradizione di metodo documentata, nel senso in cui lo sono le predicazioni trincerate proprie degli enunciati dotati di proiettabilità (capacità predittiva), secondo la definizione di Nelson Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni, ed. ital. Bari 1985, p. 108 s.
(4) Cfr. a tal proposito, Vito Evola, “La metafora come carrefour cognitivo del pensiero e del linguaggio”, in Vie della metafora: linguistica, filosofia, psicologia, a cura di Claudia Casadio, Sulmona, 2008, pp. 55-80. Cfr. in specie le pp. 62 ss.
(5) L’ovvio riferimento è a Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, 1966, pp. 39-45.
(6) Circa la tecnicizzazione del mito e le tentazioni accluse, si veda quanto detto sub titulo FRANKENSTEIN A FRANKENHAUSEN al seguente link http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giap6_IXa.htm : “Perché il problema è anche: chi è l’artefice della mitopoiesi, l’evocatore, lo sciamano, l’ostetrico? Spetta a un intero movimento, comunità o classe sociale maneggiare i miti e mantenerli vivi. Nessun gruppo separato può auto-incaricarsi di questo. Noi, invece, finimmo per diventare “funzionari” alla manipolazione delle metafore e all’evocazione dei miti. La nostra divenne una quasi-specializzazione. Eravamo una cellula agit-prop. Eravamo spin doctors”
(7) Il (para-) fra parentesi non è insulto o deminutio, ma solo completezza classificatoria.
(8) Cfr. Walter Burkert, “Irrevocabile verbum, Spuren mündlichen Erzählens in der Odyssee”, in Festschrif fur Rudolf Schenda in 65. Geburtstag, hrsg. U. Bunold-Bigler Bern. 1995, pp. 147-158, sui tic compositivi dei poemi omerici che denunziano l’autocorrezione in diretta dell’aedo. Per quanto riguarda il wuminghiano errore della rupe Tarpea, chi avrà pazienza se lo cerchi sul sito-archivio wumingfoundation.com e nel mondo virutale afferente. A me difetta al momento la pazienza di rispulciare le conferenze e il sito alla ricerca del riferimento perduto. Ma assicuro l’esigente lettore che c’è.
(9) Nel senso di Gabriele Frasca, La lettera che muore -La letteratura nel reticolo mediale, Roma, 2005, p. 90 s.
(10) Mi autocito per comodità: Omero, Iliade, trad. a cura di Daniele Ventre, pref. di Luigi Spina, Messina, 2010, e in particolare la Nota del traduttore, p. 423 e nn. rell. Lo giuro, non è narcisismo, è solo sopravvivenza, visto che la bibliografia e la querelle in merito è semplicemente abissale.
(11) Cfr. sulla pittura vascolare e sulle varianti omeriche che attesta, Steven Lowenstam, “Talking vases: the relationship between the Homeric poems and archaic representation of epic myth”, in Transaction of Philological American Association, 127, 1997, pp. 21-76.
(12) Il passo che testimonia l’ambivalente trascendenza degli dèi, e che fa da medium comparationis nel mio discorso, è ovviamente Iliade, trad. cit., V 431-442:
…Ma balzò allora su Enea, Diomede, quel forte nel grido,
conscio com’era che Apollo su lui protendeva le braccia;
non venerava nemmeno il gran dio, ma desiderava
sempre d’uccidere Enea e spogliarlo d’armi gloriose.
E per tre volte balzò, nell’impeto di trucidarlo,
lo ricacciò per tre volte Apollo col fulgido scudo.
Quando l’eroe s’avventò per la quarta, simile a un dio,
terribilmente gridando, Apollo l’arciere gli disse:
“Medita bene, Tidide, ritirati, non concepire
opere degne di dèi, poiché mai fu pari la stirpe
degli immortali e di quelli che strisciano sopra la terra!”.
(13) Sull’etimo greco di Omero, cfr. lo splendido articolo di Gregory Nagy, Homer’s name revisited, in La langue poétique indoeuropéenne, edd. G.-J. Pinault et D. Petit, Louvain-Paris 2006, pp. 317-330.
(14) Sull’etimo semitico di Omero, cfr. la dubitosa ipotesi di Martin L. West in The East Face of Helicon, Oxford, 1997, p. 622 in nota. West ha ritrattato la sua asserzione, giudicata troppo avventurosa, in The invention of Homer, Classical Quarterly, 1999, pp. 374, in nota. Incidentalmente osserverò che all’idea di Omero semitico nuoce oltremodo il ciarpame accozzato da Raoul Schrott nel supplemento culturale del 2001 della Frankfurter Allgemeine Zeitung -in barba a tutte le conquiste dell’oralistica, per Schrott Omero sarebbe un copista-amanuense burocrate assiro, castrato. Non so da quale deteriore rigurgito postmoderno d’incubo prussiano sia rampollata una simile idea. Come che sia, forse sbaglierò, ma ho ragione di credere che se il probabile poeta autore (orale) della maggior parte dei versi dell’Iliade (interpolazioni escluse) sapesse delle diverse menomazioni attribuitegli da mitografi e pseudofilologi, sceglierebbe piuttosto d’essere cieco.
(15) Si veda il link di cui alla nota (6), sub titulo: LA NOTTE CHE BLISSETT DIROTTÒ UN AUTOBUS.
(16) Sulle funzioni molteplici del poeta-sacerdote indoeuropeo, con particolare attenzione al sodalizio greco-indoiranico, si veda l’articolo di Giacomo Benedetti al seguente link: http://www.humnet.unipi.it/slifo/articolo%20Benedetti.pdf
I commenti a questo post sono chiusi
-));
“la spontanea tendenza (neurologicamente radicata) del linguaggio umano a essere metafora e connessione archetipica”
vorrei capire se possibile questo concetto di connessione archetipica cui tende il linguaggio.
Il ragionamento leggibile alla base dell’interpretazione di Jesi sulla dimensione metaforica che agisce alla nascita degli archetipi e dei mitologemi è tra le righe questo: la metafora ha un radicamento corporeo nelle basi del sensorio sin dal periodo postnatale. Per esempio, il bambino associa al tepore la sensazione di sicurezza del contatto con la madre, e al freddo la sensazione di abbandono. Così si strutturano progressivamente associazioni concettuali archetipiche: per esempio amore-calore; rifiuto-freddo.
Ehm… non è che per caso si sta confondendo Jesi con Lakoff?
In New Italian Epic la confusione terminologica è tanta, e riguarda non solo il concetto di epica: riguarda anche quello di allegoria, quello di realismo, quello di letteratura (identificata tout court con la narrazione), quello della leggibilità, quello del postmoderno, così come riguarda la stessa periodizzazione storica (anzi, la storia) …
Ma io ho già dato …
A onor del vero, va riconosciuto il cambiamento in corso nel collettivo Wu Ming, molto più interessati all’elaborazione di pensiero sul conflitto sociale che alla letteratura (riconoscendo anche, se ho inteso bene, la loro sconfitta in merito all’idea di scardinarla dall’interno) … Questo percorso ha dei risvolti interessanti, con risultati potenzialmente importanti …
NeGa
domando a daniele se non vede nel “fenomeno” dei meme internettiani (http://knowyourmeme.com/) una forma peculiare di epica.
credo che sul mito sarebbe il caso di invitare alla tavola anche Jung e Hillman… cosa sono diventati gli dèi? Non sono proprio stati “spacciati”…
Sul mito greco non sfugga il geniale Ciclo di Percy Jackson dove si dice una cosa semplice: il luogo privilegiato del mito è il cuore dell’impero, del potere globale (delle immagini, aggiungerei io) ancora oggi: l’America.
Ancora: Wu Ming si confronta con un paradosso: in Italia non si può avere letteratura o arte (si pensi al cinema) fantatica, onirica, perturbata dalle visioni, perché realismo e verisimiglianza, dimensione del politico, del socio-politico, oscuri sensi di colpi sui popri “viaggi mentali” sono lì ad ostacolare ciò che si può ostacolare.
Ecco che Wu Ming, per esempio, Lucarelli, Evangelisti DEVONO essere connotati politicamente, il che ci può far felici ma… aggiungo una postilla: c’è una sotterranea corrente “magica”, mitopoietica, della letteratura italiana (in prosa), questa sì a mio piccolo avviso DAVVERO rivoluzionaria: due nomi: Anna Maria Ortese e Nico Orengo (a cui aggiungo anche Ermanno Cavazzoni)…
va bè,”nino,passa un crodino”
http://68.192.71.156/music/Led%20Zeppelin/Untitled/01%20The%20Lemon%20Song.mp3
@ Diamonds
epigrafico, gnomico, mitico! Come i cinici antichi, con un solo movimento infrangi tutte le teorie del movimento… (hai voluto far questo? o pubblicizzi il brand?)
Poi si dice che non c’è più mito… e la pubblicità?
“il vero pericolo è che nel tentativo di ritrarre la normalità lo scrittore sia costretto a scrivere il romanzo della società anziché il romanzo dell’uomo”
(A Humble Remonstrance, di Robert Louis Stevenson).
Questo è quanto l’immenso scozzese scrisse in una sorta di polemica letteraria che contrapponeva la narrativa pura al romanzo introspettivo tipico di alcuni francesi (tipo Zola) e della maggior parte dei “mitici” russi.
Dopo tanti anni, ci si augura che chi legge riesca a farlo con identico piacere tanto con L’isola del tesoro quanto con I demoni.
@ Gherardo Bortolotti
I meme al più possono essere i tratti combinabili di una ipertestualità internettiana che potrebbe un giorno diventare epica.
Lo diverrebbe nel momento in cui il villaggio globale trovasse il suo centro di senso e lo drammatizzasse in un corpus narrativo che fosse poi aperto, come una specie di wikipedia, agli interventi esterni, e fosse al tempo stesso soggetto a moderazione e editing organico da una o più persone.
L’ipertesto, coeso, modulare e strutturato come narrazione, sarebbe a quel punto espressione di un autore virtuale identificabile col sito e con la funzione mediale del webmaster. Allora avreste nell’età dell’informazione un prodotto epico, quale che ne sia la forma esteriore (verso o prosa en artiste). I memi ne sarebbero i tratti compositivi di fondo. Ma dovrebbe essere: 1) un testo o un testo con musica e non un misto transmediale di immagini e parole; 2) una realizzazione contigua ai drammi della dimensione culturale della noosfera umana veicolata e tradotta in rete.
Insomma, si dovrebbe assistere alla riproposizione nel nuovo medium di un’ampia area dei complessi intrecci dei memi extra-web organati in una costruzione testuale aperta.
@ Tom: chiarisco: io sono partito dalla citazione di Jesi fatta da WuMing.
Avrei dovuto dirlo, ma la contiguità con Lakoff nel mio discorso c’è senz’altro.
Ho sviluppato in senso (parzialmente) affine al pensiero di Lakoff gli spunti jesiani di partenza.
@ daniele ventre
giusto specificare, altrimenti si fa confusione. Nella risposta a carmelo delle 01:35, bisognerebbe sostituire “Il ragionamento di Jesi è questo” con “il ragionamento di Lakoff è questo”. Altrimenti si scrive una cosa falsa.
Caro Tom, il fatto è che anche Jesi parla a suo modo, fra le righe, di radicamento corporeo della metafora. Lakoff sviluppa il concetto di embodiment della mente, e della metafora, in altra maniera, autonomamente.
Correggere l’articolo sarebbe un conto. Cambiare un post fra i commenti sarebbe a mio modo di vedere poco corretto da parte mia, visto che a quel punto i suoi posts di chiarimento non avrebbero più ragion d’essere.
Piuttosto, avrei dovuto parlare dell’idea di radicamento corporeo della metafora intuita nelle indagini di Jesi sugli archetipi e sui miti, e sviluppata pienamente da Lakoff, con l’ausilio di osservazioni tratte dalle neuroscienze. Il fatto è che a me premeva parlare d’altro. Il tema della corporeità della metafora è assai interessante, ma apre anche un abisso che avrebbe dilatato il tutto a dismisura. Lo spazio dei commenti serve appunto a richiamare in modo più approfondito delle tematiche che in un articolo, per questioni di intellegibilità (già messa spesso a dura prova), restano per forza di cosa confinate nel vago o nella catena di citazioni inespresse.
“Manca a quelle figure archetipiche soggiacenti la possibilità antropologica di esprimere un mito, perché la disillusione del mondo, la Entgötterung della Natura, è ormai un dato imprescindibile della coscienza culturale del nostro tempo.” di fronte a un’affrmazion così categorica non è semplice replicare. Ma mi chiedo come mai in un testo così attento a puntellare immagini e affermazioni con un’erudizione ammirevole, proprio questo dato che mi sembra estremamente soggettivo venga dato per tratto assunto del nostro zeitgeist.
Può chi pensa così giudicare testi prodotti (o letti, credo che tutto sommato la simmetria regga) da chi sente altrimenti in modo condivisibile da entrambi?
direi “post-Apotropaico” Enrico(grazie)
http://makossy.web.elte.hu/Scissor%20Sisters%20-%20I%20Don%27t%20Feel%20Like%20Dancing.mp3
La sdivinizzazione della natura (ed eventualmente l’esigenza di un recupero del sacro che non sia mero tecnicismo ierolatrico da simonia confessionale) è un fil rouge che collega pensatori diversissimi, dal positivismo logico all’esistenzialismo alla fenomenologia, da Reichenbach a Heidegger. Il tema ontologico-epistemologico della Entgoetterung è strettamente incrociato con quello etico-sociologico della secolarizzazione. Il disincanto del mondo di cui parla Max Weber, è la causa-effetto di matrice psicologico-percettiva (esperienziale) che fa da trait d’union fra secolarizzazione e sdivinizzazione. Alla base del processo di disincanto-sdivinizzazione-secolarizzazione ci sono cause molteplici: al di là della radice giudaico-cristiana del fenomeno (chi crede in un dio trascendente ha già in parte sdivinizzato il mondo), le radici del fenomeno vanno dal mutamento dei media di conservazione dell’informazione (superamento dell’oralità, dell’auralità, approdo alla scrittura e alla stampa, infine alla video-scrittura e alla multimedialità), al connesso sviluppo delle visioni scientifiche del mondo, a partire dai processi fattuali dell’evoluzione storico-sociale concreta. Questo credo che sia un dato culturale condivisibile da chiunque. Gli archetipi, questi nostri daimones latenti, dunque, sono rimasti. La religiosità antica e medievale, che presumeva di agirli, è stata smascherata. Una nuova dimensione, cosciente, del numinoso, è ancora di là da venire. Gli archetipi ora agiscono su di noi senza di noi: al massimo, la psicoterapia può aiutarci a convivere con loro, la poesia può ragionarci per brevi istanti (se il mercato non le tarpa le ali), la filosofia ce ne può dare ragione (e forse può indicare una via, attraverso un grumo terapico-esorcistico-evocatorio di poesia e psicologia). Quanto alla nuova dimensione del numinoso, temo però che non saranno i testi del New Italian Pulp (ex Epic), pur con tutta l’indubbia vitalità culturale dei loro autori, a restituircela, in un modo o nell’altro: ed è quella dimensione l’unica in rapporto alla quale potrebbe nascere di nuovo un’epica.
Non so se ho risposto soddisfacendo alle condizioni del modo condivisibile di giudicare. Credo però di aver additato categorie di giudizio effettivamente condivise.
@ daniele ventre
C’è però una cosa che mi sfugge. Penso che a partire da Jesi – e finanche ad arrivare a Wuming, da quanto leggo – non si possa non essere d’accordo sul fatto che per noi moderni è pressoché impossibile accedere al mito esperito dagli antichi. Ma tra la “sdivinizzazione”, la “secolarizzazione”, la scomposizione razionale del mito, etc. e la sua surrettizia evocazione c’è forse la domanda jesiana per antonomasia. Vale a dire: partendo da un’accezione letterale di mito come racconto, come narrazione propulsiva, di cui nessuno – antico o moderno, individuo o comunità – può fare a meno, è possibile trovare una via che reinfonda vita e forza coinvolgente alle narrazioni, senza che questo sfoci nella tecnicizzazione del mito stesso (in questo caso nella letteratura a tesi)? E’ possibile proporre vecchie storie e antichi archetipi in nuove declinazioni, che facciano tornare in superficie il rimosso storico, sfruttando visuali azzardate, o, come piace dire ad alcuni, “sguardi obliqui”, su storie che si sono consolidate e finanche sclerotizzate nell’immaginario? Non si tratta tanto di trovare “una nuova dimensione, cosciente, del numinoso”, quanto piuttosto, più terra terra, capire cosa farsene dei miti/racconti, dei quali comunque continuiamo ad avere bisogno. O dobbiamo aspettare la rovina delle città e delle civiltà, il ritorno a un implausibile grado zero delle “condizioni antropologiche”, perché tanto nel frattempo, tra metabolizzazioni dell’onnivoro mercato e sovrastrutture mentali moderne c’è ben poco da fare? Mi sembra molto rischioso (o molto facile) rimandare il problema al termine della “decadenza”, se non altro perché così ci si approssima pericolosamente alla prospettiva di un certo fascismo tradizionalista, il quale da sempre pronostica (e auspica) proprio questo. E anche qui, ho il presentimento che sia ancora Jesi a tornare utile.
“Gli archetipi ora agiscono su di noi senza di noi”… c’è un sottofondo davvero tragico nella sua, Daniele, prosa ultraacculturata, forse anch’essa sottoposta ad archetipo: quale? ci sarebbe da chiedere. Tragica, perché arriva forse al punto di “sottrarre il soggetto” (sottrarre il soggetto patico). La letteratura – penso – OLTRE le sue “boutade” metaletterarie (sempre così difficilmente comprensive delle ricerche individuali e di ciò che si scopre SENZA CERCARLO), penso sia un tentativo di schiudere la dimensione del numinoso o dell’altrove, del “mondo più grande” (del reale e della mente), e che sia anche “lotta con l’angelo” o con la brutale sordità del mondo (il “vaffanculo” finale di Gomorra). Insomma sia il campo dell’utopia… che sia riuscita o meno, in fondo. Dico: che importa un’etichetta come New Epic o altre?
Sinceramente! Rispetto alla prassi letteraria, ai suoi fantasmi e alle sue visioni? Dopodiché lei fa benissimo, Daniele, a dire: ma l’epica è un’altra cosa… e ne ha tutte le ragioni… la teoria (metaletteraria) in fondo però sbaglia sempre il suo bersaglio, perché il bersaglio è infinitamente vario e mobile…
Grazie per la risposta, Daniele. Mi sembra promettente questa “triangolazione” tra numinoso, archetipale e demonico che non lascia spazio alla percezione del divino come espresso nell’epica classica. L’interessante, per me, è andare in cerca delle forme nuove, più che mostrare barrate le vie vecchie: quando sfoglio il Libro Rosso di Jung, per esempio, posso ben dire che vedo all’opera “numinoso, archetipale e demonico” anche se, ovviamente, non divino in senso classico.
Idem direi anche per il citato Hillman, che più palesemente si arrampica verso la vetta dell’Olimpo; se chiamiamo in causa Percy Jackson o gli American Gods ci rendiamo conto che abbiamo a che fare con materiale riciclato (nulla di male, anzi però; basta saperlo) anche se non privo di spunti. Mentre Alan Moore si spinge spesso più in là, e forse intravede davvero in modo nuovo qualcosa. Siamo ben oltre il velo della parodia dove gli dei sono confinati secondo la linea ripresa e rimarcata da Calasso.
Scusa se prendo in prestito i tuoi pensieri per i miei e trascuro di argomentare sul NIE, ma ho trovato altri temi in gioco, per me più interessanti.
Rispondo in ordine sparso.
Relativamente all’etichetta epic e a quanto detto da tom e in parte anche da enrico.
Non è una questione di decadenza, ma della nostra obbiettiva perifericità.
Non so se avete mai letto la tetralogia fantascientifica di Ilium, di Dan Simmons.
In questa tetralogia si incrociano: 1) la ridefinizione fantascientifica, in termini di postumanesimo e di estropianesimo, degli dèi della mitologia greca, fra immagine dell’infomorfo, modificazioni genetiche, regressione storica, manipolazione delle strutture fondamentali della materia -un evidente rappresentarsi della trasformazione del mito in tecnica, attraverso l’immagine che consente a un’élite spietata di trasformarsi in un gruppo di creature mitiche; 2) la ridefinizione negli stessi termini dell’immaginario shakespeariano; 3) l’immagine finale del robot senziente che si umanizza attraverso l’assunzione del mito nella sua forma originaria (il robot che fa da maestro ai bimbi della civiltà umana rinascente, cantando l’Iliade); 4) il tema dell’artificialità del conflitto fra civiltà, e il tema della riconciliazione; 5) il tema dell’Ulisse multiforme proiettato nel molteplice paradosso dei piani temporali, e destinato a non tornare.
Ora, l’opera di Dan Simmons è fantascienza, con tutti i punti di debolezza di un genere essenzialmente più vicino all’ambito del paraletterario, che alla letteratura come tale. Tuttavia è riuscito a evocare temi fondamentali, conservando gli schematismi e i memi popolari del paraletterario fantascientifico, pur attraverso incoerenze e nel contesto di un medium letterario che noi definiremmo volgare e vulgato. Ha incrociato il vecchio mito fondazionale del passato, con la fantascienza, che Hertha von Dechend identificava con la nuova possibilità del mito come orizzonte (un mito del progetto e non della memoria).
Con tutti i suoi limiti di scrittura di puro intrattenimento o di scrittura popolare, Dan Simmons (che approda alla sua tetralogia dopo lunghissima documentazione, filologica ma anche linguistica, diretta) riesce ad attuare un’operazione che mette in scena, centuplicati, gli incubi e i miti e gli involucri vuoti dei miti che intorbidano l’immaginario collettivo dell’èra della genetica e dell’ibridazione uomo-macchina.
Questo intreccio di orizzonti di mito potrebbe, dico potrebbe, somigliare a un new epic (ma nemmeno Dan Simmons è epica, come non lo è realmente nemmeno Evangelisti, l’unico che alla tipologia di operazione simmonsiana si avvicini). Non credo che la stessa cosa possa dirsi per quello che io mi ostino a ribattezzare new pulp, e che ha il solo pregio di portare la nostra scrittura popolare al livello di quella del mondo anglosassone (o per lo meno di provarci).
Quanto all’epica, riprendo quel che ha detto Paolo S. Jung e Hillman sono la via per una riconsacrazione non malsana del panorama ontologico in cui siamo rampollati. In realtà le tematiche hillmaniane e junghiane restano volutamente in ombra, qui non se ne parla, ma sono lo sfondo implicito in cui si muovono le argomentazioni che ho cercato di presentare. Dunque, parlandone non si trascura nulla. Si tocca il nodo che NIE lascia in ombra.
@Ventre
Mi perdoni, ma le sue dissertazioni mi risultano non solo incomprensibili, ma perfino abbastanza inutili. Risalire alle implicazioni storico-filosofiche del genere epico per ribattere al Nie significa tirare in ballo tutta una serie di argomentazioni che non toccano il nucleo del discorso: la proposta di un nuovo modello per la narrativa. Mi sembra una constatazione del tutto banale affermare che l’accezione di “epico”, di “romanzo” e quant’altro in Wu Ming differiscono ampiamente dalle accezioni originarie di quei termini.
Siamo in un’altra epoca storica. Oggi occorre confrontarsi con le opere e i generi attuali. All’interno del NIE ci sono molte affermazioni rischiose (io condivido pochissimo di quel documento), ma soprattutto c’è una proposta. Il suo discorso mi pare balzano almeno quanto il suo linguaggio.
@ laserta
Forse non ha letto il sottotitolo. In ogni caso, se trova il tempo di leggere qualcosa che crede inutile e di commentarlo, almeno si compri un vocabolario.
Beh, pensavo fosse un sottotitolo ironico. Uno non scrive tutta quella sbobba per dire delle ovvietà. Per questa ragione, e perché mi interessa il discorso sul romanzo italiano, ho letto il suo articolo. Ebbene, alla fine erano proprio ovvietà. E mi dispiace.
Ovviamente conosco il significato delle parole che lei usa: il problema, tuttavia, sta nell’insieme, attorcigliato, fumoso, ridondante…
Per carità, liberissimo di scrivere come vuole, ma spero solo non parli così anche nella vita reale. Se una volta ci prendessimo un caffè, per dire, sarebbe dura per me starle dietro…
Non ci siamo capiti.
Spesso l’ovvio non è così ovvio, se si dichiara “epico” un certo modo di narrare che è in effetti non altro che narrativa pulp. Il NIE era solo il pretesto per cominciare un certo tipo di discorso che non si chiude qui. Le mie dissertazioni e gli articoli (postifilosofia, Masaniello, New Epic) sarebbero certo inutili, se in giro non ci fossero postfilosofi deleteri, pseudostorici che scambiano eroi popolari per mafiosi (dopo che il governo ha mutato i mafiosi in eroi) e romanzieri che vogliono rompere con l’editoria e l’accademia, ma poi si dànno un tono editorial-accademico con certe denominazioni. Certo, ognuno è liberissimo di considerare inutile e fumoso e ridondante quello che vuole. D’altro canto, si potrebbe pensare che forse è l’oggetto del contendere a essere coperto di fumo e attediato da ridondanze.
Le auguro di trovare in altri luoghi cose meno ovvie dette con più limpidezza.
adesso ho capito. e sono perfettamente d’accordo.
ci voleva tanto?
con la massima simpatia e rispetto.
Semplicemente, alle volte sono stanco di ripetere ciò che è veramente ovvio a persone che cominciano a porsi in modo non gradevole.
Anche questo è un dato ovvio.
P. s.
Fra le cose ovvie, preciso che l’articolo su Masaniello che ho messo online non è mio, ma ovviamente è di Silvana D’Alessio.
@ daniele ventre
ho l’impressione che l’obiezione di laserta non sia infondata. Se il problema è terminologico posso anche capire la sua critica all’uso imporprio della parola “epic”. Ma da quel che leggo l’uso improprio – o “lato” – del termine è precisamente la premessa del discorso sul NIE. In effetti se il testo da lei preso in esame si fosse intitolato NEW PULP le questioni di merito sollevate rimarrebbero ancora tutte sul tavolo. Insomma, al di là della dissertazione storico-terminologica, mi sembra che il critico e l’autore in questo caso parlino due lingue diverse (e non mi riferisco al grado di comprensibilità e di erudizione linguistica, sia chiaro).
Quanto al voler rompere con l’editoria e l’accademia, siamo sicuri che sia questo l’intento dichiarato dai neo-epici? Per quel poco che leggo direi proprio di no. L’editoria è senz’altro parte in causa, non ci piove, e il contesto accademico è quello in cui nasce il discorso che pretendono di fare (a meno che, ovviamente, non dichiarino il falso). Ribadisco che qualcosa continua a sfuggirmi. Sarà forse un limite mio.
@ Tom
Il problema degli intenti di questi autori è effettivamente complesso.
Io mi attengo ad alcuni dati fondamentali.
I primi progetti che si coagulano nel new epic sembrano proporsi come formulazione di una autorialità alternativa.
Wu Ming potrebbe essere considerata, a detta dei suoi componenti, una band o un’orchestra. Lo slogan “questa è una rivoluzione senza volto” fa capo al subcomandante Marcos, il quale ribadisce che tutti gli indios sono Marcos, e tutti gli oppressi nel mondo sono indios. Quella di Marcos (che si distingue altresì per una grande capacità oratoria, comunicativa, letteraria), è una leadership diffusa: dunque una forma alternativa di leadership, una leadership non potenzialmente totalizzante e non potenzialmente dispotica.
Tale contiguità porta il progetto Wu Ming e in prospettiva il nucleo duro del new epic, a definire una forma di autorialità diffusa, una possibilità di nuova strategia di lettura scrittura… che naufraga nel momento immediatamente successivo, attraverso la fattuale ricerca di una istituzionalizzazione di qualche tipo.
Quanto al contesto accademico, Wu Ming 1 mostra competenze accademiche, si presenta all’accademia con un discorso di rottura che per questioni operative e per il fattore campo finisce inevitabilmente per vincolarlo alla produzione critica di accademia. Ma l’accademia, nella persona di Ferroni, lo rifiuta.
La questione storico-terminologica implica un dettaglio: WuMing e tutto quel che ne è seguito aveva la potenzialità di creare uno spazio nuovo. L’autoproclamazione dell’etichetta in un contesto improvviso li ha gettati alla rupe scitica dei vincoli accademico-editoriali usuali: chiamandosi epici o neoepici si accoglie sotterraneamente il morbo della speranza della legittimazione elitaria, senza nemmeno accorgersene.
Allora, tutto quello che sembra ovvio non è così ovvio. Tutto quello che sembra terminologia esteriore non è così esteriore.
@ daniele ventre
Grazie del chiarimento. Ora colgo meglio certe implicazioni del discorso.
Tuttavia ho l’impressione che ci sia un’angustia interpretativa. Provo a spiegarmi. Al di là di quelli che siano gli intenti – reali, presunti o dedotti – di wuming et alii, in generale non sono convinto che avere a che fare con ambiti accademici denoti una “ricerca di istituzionalizzazione”. Non nella società attuale, nella quale moltissimo di ciò che è critica, attività comunicativa, discorso sulla letteratura, etc. si produce a prescindere dall’ambito accademico e casomai con esso dialoga a corrente alternata. Non credo cioè che si possa ragionare solo in termini di dentro o fuori l’accademia e di pro o contro l’accademia.
Per altro, mi chiedo se sia corretto identificare tutta l’accademia con Ferroni. L’accademia è grande.
Ma soprattutto, nonostante io concordi con il fatto che l’etichetta finisce facilmente per tradire (o svilire) le premesse che la producono, c’è un dato temporale che mi pare non far quadrare il ragionamento. A suo tempo seguii un poco il dibattito sul NIE, tra le pagine stampate e la rete. E mi pare che sia progressivamente andato scemando. Forse per un limite intrinseco (se non ricordo male il pamphlet sul NIE assumeva uno sguardo retrospettivo, e non propositivo), o forse per un fisiologico calo d’interesse. Sta di fatto che non mi pare che i neo-epici per primi abbiano continuato a battere su quel tasto. Anzi, direi che l’hanno pressoché abbandonato. Dunque i casi sono due: o hanno rinunciato molto presto alla “speranza della legittimazione elitaria”, oppure fin dall’inizio miravano a qualcos’altro. Ed è qui che – al di là, come dicevo, degli intenti intimi, di cui confesso mi interessa poco – riscontro una differenza di linguaggio, una incomprensione evidente tra il critico e l’autore. In altre parole faccio davvero fatica a pensare che qualcuno misuri il proprio agire letterario sul gradimento di Ferroni (sia detto senza offesa) o di chi per lui, e si muova di conseguenza. Se davvero la visuale fosse così ristretta allora direi che non ci sarebbe nemmeno bisogno di spendere tante parole.
Il (para-) fra parentesi non è insulto o deminutio, ma solo completezza classificatoria
con tutti i punti di debolezza di un genere essenzialmente più vicino all’ambito del paraletterario, che alla letteratura come tale
Con tutti i suoi limiti di scrittura di puro intrattenimento o di scrittura popolare
se si dichiara “epico” un certo modo di narrare che è in effetti non altro che narrativa pulp
Non credo che la stessa cosa possa dirsi per quello che io mi ostino a ribattezzare new pulp, e che ha il solo pregio di portare la nostra scrittura popolare al livello di quella del mondo anglosassone
Mi sembra una progressione svilente e diminuente ci sia. Pulp del resto si riferiva alla bassa qualità della carta. Proprio per chiarezza classificatoria, vorrei capire quali sono i criteri oggettivi che permettono di separare la letteratura dalla paraletteratura.
@ marco
…ma anche dei più modesti criteri soggettivi sarebbero meglio di niente.
Prima di tutto i passi ripresi da Marco vengono da contesti diversi del discorso e dei commenti. Due di questi si riferiscono a Dan Simmons e non a Wu Ming. Sono motivati, perché a leggersi le cose di Dan Simmons si rimane ammirati per la complessità dell’universo finzionale, ma alle volte i finali, almeno in parte, sono deboli. Non che uno cerchi l’apoteosi, ma insomma…
Comunque, io una definizione più o meno oggettiva di paraletteratura ce l’avrei.
Si parta dalle basi della teoria della metafora concettuale (Lakoff, Johnson, Koevecses et alii) e dall’idea, ad essa legata, che le metafore sottendano una mappatura concettuale di associazioni semantiche radicate nel linguaggio ordinario.
Le mappature dei domini concettuali collegati fra loro, sottese ai sistemi di metafore, implicano associazioni espressive che sul piano linguistico possono essere più o meno ordinarie, più o meno centrali o periferiche. Anche nel loro orientamento vettoriale, le relazioni fra i sèmi (e potremmo dire i mèmi) impliciti dei domini concettuali conoscono configurazioni più o meno centrali o periferiche.
In opposizione alle mappature dei domini concettuali sottesi alle metafore più centrali, secondo le relazioni orientate vettorialmente in base agli indirizzi più centrali, esistono metafore meno usuali, meno ordinarie, periferiche, e ci sono le cosiddette one-shot image metaphors di cui sopra nell’articolo, che implicano l’innesco di nuove associazioni espressive, collegate alla dinamica di rottura dell’attesa che definisce la poesia come “irruzione nell’inarticolato”, o almeno come innovazione espressiva (in termini molto spicci).
Lo strutturarsi di metafore ordinarie secondo mappature di domini concettuali centrali e usuali, secondo ordinamenti relazionali usuali, nel contesto di relazioni archetipali coattive (ad esempio: il forte combattente che uccide il nemico, dell’altra civiltà, sicuramente cattivo e comunque inferiore) all’interno di una macchina di fabbricazione del consenso (à la Herman & Chomsky) che opera una tecnicizzazione del mito (à la Kerenyi e à la Jesi), definisce la paraletteratura e la lettura d’evasione nei suoi differenti livelli: l’immaginario dell’estetismo di massa (romanzo rosa), del correttore dell’errore sociale rappresentato dal delitto (romanzo giallo), del conquistatore di nuove frontiere tecnico-scientifiche (fantascienza), del superuomo di massa (fumetto del super-eroe), della pansessualità a buon mercato (pornografia), del lirismo sentimentale seriale (musica leggera) etc.
Ciò che conta per definire questo ambito produttivo, medialmente ibrido (letteratura, cinema musica), nelle sue forme più oneste (giallo fantascienza), più melense (romanzo rosa, canzonetta), più oscene (pornografia), è il parametro della tendenza a soddisfare l’attesa, a racquietare il fruitore, previa l’applicazione dei modelli di propaganda del marketing, per cui l’azione plasmatrice del lettore-spettatore-uditore, nella paraletteratura, avviene in sede extraletteraria (extracinematografica, extramusicale), attraverso una programmazione sociale attuantesi nelle dinamiche massificatorie del marketing. So che sembra gergaccio da scuola francofortese di ripiego, ma ora come ora non so “sintetizzarlo” meglio.
Prendiamo la famosa metafora dell’amore come viaggio, con tutte le sue mappature sottostanti. Una canzonetta dirà cosacce del tipo: “è una crociera alle maldive/il viaggio del nostro amore” (mi si passi per buono l’esempio); un romanzo rosa avrà immagini del tipo: “Jennifer aveva attraversato le tempeste del loro amore contrastato senza mai cedere alla marea…” etc.
ma prendiamo un’immagine del tipo:
“come agognata appare la terra al naufrago, che dopo lunga lotta contro i marosi guadagna la sponda e si lascia andare esausto sul lido, le membra intrise di sale, vinte dalla dolente fatica; a lui è gioia il riposo scampato il pericolo, dopo che la veloce nave s’è infranta per l’ira di Poseidone; così a lei appariva porto agognato l’abbraccio dello sposo”.
La mappa “amore-viaggio” sembra apparentemente trattata in modo scontato, ma nel contesto della narrazione in cui appare questa similitudine, Penelope è il naufrago errante e Odisseo è il porto. Il rovesciamento dell’immagine usuale, unito al rovesciamento dei ruoli nella similitudine, determina delle microfratture nell’attesa del fruitore, con un effetto straniante subliminale. Siamo però nel contesto della tradizione e della mappa concettuale ordinaria della metafora, al momento di fondazione di una civiltà letteraria. Questo, ovviamente, è l’epos.
Poniamo che invece si dica:
“giungono i vascelli erranti pigramente bordeggiando e ti recano spezie e tesori da ogni confine, lì tutto è calma e voluttà…”
Quest’immagine di sapore approssimativamente baudelairiano rampolla in un sistema volutamente periferico di one-shot image metaphors, che definiscono il linguaggio straniante della lirica.
E si potrebbe continuare per ore con esempi che hanno in comune un dato: l’azione plasmatrice è interna al messaggio, vive di una sua opaca trasparenza, e non è meccanicamente eterodiretta dall’ingranaggio del modello di propaganda, pur essendo storicamente determinata. Un messaggio che sia capace di formare il fruitore per sua costituzione intrinseca e non per il luogo mediatico in cui è espresso o per una decisione di marketing, un messaggio pragmaticamente non esocentrato, con strutture di mapping metaforico non ordinario, è un messaggio letterario: colpisce basso, come un enunciato vivo dell’immediata dialogicità, ma è in sé complesso e non immediato, come il frutto studiato di una pratica d’artigianato vissuta con l’immedesimazione e la partecipazione di una condizione esistenziale.
Esiste poi una situazione a parte, che si crea quando coscienze più avvertite manipolano il mapping concettuale metaforico-archetipico ordinario per tentare di attuare uno slittamento di prospettiva. Penso a operazioni a vario titolo più complesse della paraletteratura, come quelle di Wu Ming, di Dan Simmons, di un Battiato, di una Carmen Consoli, di un Saviano (cito volutamente in ordine sparso materiali eterogeneissimi). Operazioni siffatte si muovono sì nel mondo dei modelli di propaganda, degli archetipi di consumo, delle metafore ordinarie, ma lo fanno con intenzioni e strumenti culturali poeticamente o criticamente orientati, senza uscire nettamente dal centro del continente delle metafore usuali, a volte per scelta espressa. Stanno tesi fra poesia e prodotto paraletterario, a definire un immaginario pre-poetico, avendo una ragion d’essere nel tentativo di rivitalizzare il sottobosco dell’immaginario. Quello che si è voluto retrospettivamente chiamare new epic, e che è new pulp (e so benissimo da che pulp-ito viene il pulp e soprattutto da che legno), ha una cittadinanza in quest’area a sé, che non è una forma di transizione fra paraletteratura e letteratura (se non nella misura in cui l’effetto plasmatore del loro messaggio è parzialmente endocentrato, ma non al livello netto della poesia come tale), ma è la più autentica dimensione delle forme preletterarie da cui la letteratura potrebbe germogliare, così come nel mondo latino arcaico le formule allitterative e assonanti dei carmina (leggi, formule, proverbi, filastrocche, fabulae) dànno luogo alle strutture della prima letteratura latina.
Così almeno credo che si possa argomentare conseguenzialmente.
Non ho seguito tutta la discussione nei commenti, ma ho letto l’intervento di Ventre e l’ho apprezzato. Innanzitutto, perché prende sul serio il discorso teorico letterario dei wu-ming, e elabora osservazioni critiche in un’ottica specialistica, senza dare per scontato che tra i due mondi (studiosi di epica antica e scrittori contemporanei) ci sia una sorta d’incomunicabilità pregiudiziale. Penso che ci sia tutto da guadagnare da un tipo di discussione così.
Sarebbe ovviamente interessante sapere che cosa ne pensino i wu-ming di una tale lettura.
Qui, però, m’interessava ricordare un caso eclatante: la riscrittura di Baricco dell’Iliade. Nell’introduzione al suo testo, Baricco scrive – cito a memoria – “Ho pensato di mettere tra parentesi gli dèi.” Ora, si può riscrivere un testo epico come l’Iliade mettendo tra parentesi – come figure irrilevanti – gli dèi? Questo è solo una delle domande, che mi sono sorte, da non specialista. E mi sono chiesto allora perché mai Baricco non fu fatto a pezzi dagli specialisti.
Intendo dire, ben venga che uno scrittore contemporaneo si appropri creativamente di categorie o testi della letteratura antica, ma sarebbe interessante che lo facesse in modo consapevole, senza eludere il dialogo con gli studiosi. E allo stesso modo, sarebbe interessante che gli studiosi non eludano, aloro volta, occasioni di confronto a partire da queste “appropriazioni”.
In conclusione, a quando un pezzo sull’Iliade di Baricco?
Caro Andrea Inglese, vuoi davvero un pezzo pieno di invettive?
Daniele, va bene tutto, e sarei pronto a discutere ed approfondire, ma se mi citi Carmen Consoli mi cadono le braccia. E’ un pacco senza possibilità d’appello. Dal punto di vista meramente compositivo ha molto più da dire Gigi d’Alessio (e ho detto tutto). Questo per dire che spesso il gusto personale – quello ingovernabile, quasi irrazionale – sbaraglia anche la più profonda delle analisi.
Detto ciò se siamo consapevoli della paraletterarietà di buona parte della letteratura “laureata” possiamo proseguire argomentando sicuri di non perderci in cascami analitici che, in fondo, appartengono ai pregiudizi del secolo scorso.
In fondo Petrarca era convinto di restare nella memoria dei posteri per la sua opera in latino, mica per quelle “poesiole” raccolte nel canzoniere.
@ daniele ventre
facendo la tara agli aspetti più tecnici della sua definizione (per limiti miei), trovo interessante il fatto che lei individui un’area intermedia consapevolmente frequentata da certi autori (in questo caso i new pulp, stando alla nuova etichetta). Soprattutto trovo interessante che la si individui come area del condizionale, cioè come “la più autentica dimensione delle forme preletterarie da cui la letteratura potrebbe germogliare”. Proprio questa possibilità, anche se fosse destinata a rimanere perennemente frustrata e inespressa, secondo me travalica qualunque etichetta si voglia coniare. E soprattutto mi sembra che con questa constatazione ci si avvicini – finalmente, mi permetto – al merito di certi discorsi “neo-epici”. I quali in definitiva, a ragione o a torto, a me paiono ruotare su un punto: la possibilità di costruire racconto, metafore, suggestioni, per una comunità, intorno ai quali la comunità stessa (non certo intesa in senso organistico o ancestrale, e fatta salva la irrimediabile e innegabile distanza dall’epos antico) possa ritrovarsi. Questo appunto potrebbe portare a riscrivere il racconto della guerra di Troia, ma non già a riscriverne velleitariamente il poema eliminando gli déi (tanto per marcare una differenza tra le tante possibili). E’ probabile che anche questa mia definizione sia parziale, anzi lo è senz’altro, cionondimeno a me pare la motivazione collocabile a monte di molte scelte, incluso il rapporto a corrente alternata con l’accademia.
Chiedo venia per il refuso: è saltata una sillaba in “organicistico”.
@ Gianni Biondillo,
Non è che esprimessi sempre e solo gusti personali, facevo esempi a caso. Non è questione di cascami analitici. Io ritengo che si possa definire paraletteratura, in senso stretto, e in senso più lato paracultura, un testo o un’operazione musicale o cinematografica che obbedisce a una logica esteriore alla validità del messaggio e si orienta a plasmare il pubblico su questa logica esteriore vedendo il pubblico stesso come puro consumatore: di qui i connotati esteriori di 1) uso del discorso di consumo; 2) banalità del mapping metaforico; 3) conferma dell’attesa (la paraletteratura è conservatrice).
Per usare un concetto fuzzy (che sicuramente susciterà vespai) la pre-letteratura, il cinema popolare di qualità e la canzone leggera di qualità sono una dimensione a parte, la penombra della letteratura. Il che ne fa un prodotto di fruizione dotato di una sua dignitas e di una sua creatività. Esiste un’osmosi fra forme pre-letterarie e letteratura, uno scambio nei due sensi. Aggiungo che mentre pre-letterario non è un termine gravido di connotazioni negative, paraletterario è senz’altro un termine (s)valutativo. La letteratura e la preletteratura hanno in certo modo l’uomo come fine. La distinzione si pone in termini di grado e di livello. La paraletteratura è Verfuehrung, traviamento. Il suo centro è fuori del messaggio e il suo fine è fuori del destinatario. Il rapporto che c’è, per esempio, fra Gadda, un buon noir e un giallo seriale, è lo stesso che intercorre, per usare una metafora enologica, fra un rosso di montalcino d’annata, un decoroso vino in bottiglia e la cocacola.
P. s.
Io credo che le operazioni alla Baricco siano più nell’orbita del paraletterario che del preletterario.
@ Tom
Il condizionale è un fattore di distinzione essenziale. Una bella fiaba raccontata al focolare è preletteratura. Un romanzo di fantascienza con un universo finzionale coerente e originale o un buon noir sono l’evoluzione della bella fiaba nell’età dell’informazione. Ma una bella fiaba non è L’uomo senza qualità.
Io della bella fiaba non farei mai a meno, intendiamoci.
@ daniele ventre
Si figuri che le fiabe sono tra le cose che preferisco. Anche se, stando alla sua distinzione, dovrei aggiungere “pereletterariamente parlando”.
Però, a conti fatti, devo confessare che non resto persuaso dell’efficacia delle definizioni proposte, a fronte della loro innegabile legittimità. Forse perché ritengo che ogni definizione finisca per restringere, inquadrare, quindi incanalare una realtà creativa che rimane per forza di cose sempre sfuggente e mobile. Se esiste l’osmosi, se il “rosso di Montalcino” Gadda scrive una detective story, lavorando su un genere paraletterario quasi per antonomasia (sempre in base alla sua definizione) e innestandoci sopra il lavoro linguistico e drammaturgico che conosciamo, mi pare che proprio questo dimostri la labilità dei confini e delle definizioni, e confermi invece l’importanza delle gradazioni e dei livelli, appunto, nonché della fantasia e del talento, sempre in grado di tradire e rompere i cliché e le gabbie dei generi e delle classificazioni. In definitiva la mia impressione è che si cerchi di trovare la definizione ontologica (mi si passi il termine) della letteratura, dell’arte, e di ciò che non lo è. Esercizio la cui legittimità, ripeto, non ho motivo di mettere in discussione, ma che mi sembra lasciare un po’ il tempo che trova. In altri termini, non ne percepisco l’utilità, se non quella di stabilire, appunto, in base a un qualche criterio eso-letterario, ciò che è nobile e ciò che per definizione non può esserlo.
Ipotizzavo infatti che ai sedicenti neo-epici o neo-pulp questo tipo di discorso e di confronto interessi assai poco. Da qui la mia affermazione sulle due lingue diverse parlate dal critico e dall’autore, e quindi anche dall’autore che prova a farsi critico (nel caso del NIE mancando il bersaglio o più probabilmente puntando a un bersaglio diverso).
E’ innegabile che la paraletteratura (così come l’ha definita Ventre) è funzionale al mercato, che chiede un prodotto standard e un lettore degradato a consumatore, per poter realizzare grandi profitti sfruttando le conomie di scala.
Un prodotto del genere esige la riduzione degli autori a semplici tecnici in grado di asssecondare le “attese” de consumatori, ovvero i pruriti piu’ o meno indotti. Ma esige anche la scomparsa dei critici.
A complicare le cose poi, è l’infinita proliferazione di “scrittori” e di libri prodotti.
ma il problema per un lettore non è la paraletteratura facilmente individuabile e quindi evitabile. Il problema è la pseudo letteratura questo mare di libri che vengono pubblicati ogni giorno che pretendono di essere delle opere letterarie.
@ carmelo
quindi stai proponendo l’introduzione di una quarta classificazione. Così avremmo: letteratura, preletteratura, paraletteratura e pseudoletteratura. Secondo me, sforzandosi si potrebbe anche trovarne una quinta, e chissà mai, una sesta.
mah per la verità io non propongo un bel niente, giacchè se ne avessi la pretesa sarei un perfetto cretino non avendo nessuna competenza al riguardo.
Da lettore metto in fila dei fatti:
Ogni anno viene pubblicata una quantità spaventosa di libri
Di fronte a questo mare il lettore è èerduto.
Allora auspico editori che puntino alla qualità (quindi al lettore) e non alla quantità (e quindi al consumatore)
auspico dei critici che facciano per l’appunto della critica e non della promozione separando la letteratura da tutto il resto, gli scrittori dagli scribacchini.
Auspico un ritorno alla lettura visto che ormai tutti scrivono e nessuno legge.
Il proliferare di scuole di scrittura e di editori che pubblicano qualsiasi cosa è nauseante non ti pare?
a dire il vero sarebbe bellissimo che ci fossero delle scuole di lettura, mi iscriverei subito
Non credo che le denominazioni si moltiplichino.
La pseudoletteratura e la paraletteratura si indentificano. La paraletteratura è inseribile nel più vasto ambito della paracultura, fatta di film di cassetta, narrativa di consumo, canzonette.
Quella che ho chiamato preletteratura, e che si inserisce nel più vasto ambito della subcultura, è costituita da forme di scrittura, di musica, di cinematografia, che si servono dei materiali della paracultura, ma sottendono livelli meta-narrativi e auto-riflessivi, dunque non sono totalmente esocentrati quanto al messaggio. La preletteratura e la subcultura sono fenomeni con una certa dignità perché sono l’embrione potenziale dei materiali che possono diventare poetici e letterari. Nel mondo della subcultura o della cultura popolare di qualità ci sono moltissime sfumature.
La vera e propria letteratura ovviamente è un’altra cosa.
Comprendiamoci: l’uomo che la paracultura contribuisce a formare è un burattino del mercato. L’obbiettivo intrinseco della paracultura è il proprio azzeramento, in una con l’azzeramento della coscienza del consumatore.
La preletteratura, o meglio la letteratura d’evasione (ad es. il noir scritto bene) è una cosa diversa. Risponde alla logica della lust zu fabulieren inserita in una politica aziendale non totalizzante del mercato culturale. Non vuole formare un uomo, è antropologicamente adiafora, ma assolve a un compito specifico, quello del lusus. Ha illustri precedenti: il romanzo greco che ho citato prima è lusus in questo senso. Fare buon lusus contro il cattivo gioco (della paracultura) è un’arte nobile e difficile. Il primo a codificarla esplicitamente sul piano retorico (e dunque stilistico e critico-letterario) in età antica è stato Ermogene di Tarso, nel suo De ideis (Delle forme di stile). Faccio un esempio concreto. Potremmo dire che le opere migliori dell’autoproclamato NIE appartengono, secondo me, a quest’arte nobile e difficile (spero che nessuno si offenda). La tipologia limite di quest’universo ampio e variegato la si potrebbe rinvenire in opere come quelle di un Tolkien (al di là se piacciano o meno, sono espressione di un progetto narrativo assai complesso). Esiste poi un’altra tipologia della preletteratura, ed è il libro inchiesta à la Saviano.
Infine c’è la letteratura, che ribadisco non essere una forma trascendente dell’iperuranio, avendo essa caratteristiche che ho cercato di definire. L’uomo che la letteratura vuole formare (il che non implica un impegno etico diretto dell’artista, né un manzonismo rifritto) è un uomo cognitivamente riorientato verso la riappropriazione della propria coscienza, cognitività e umanità.
L’uomo della preletteratura e e l’uomo della letteratura possono coincidere, sono due momenti diversi della stessa natura di fruitore di testi. L’uomo della paraletteratura fa parte di una dimensione antropologica degradata, deumanizzata.
Dunque, se capisco bene, e provando a riprendere ciò che si affermava nel post originario, la “new fiction” italiana (a me pare la definizione più azzeccata) avrebbe avuto buone possibilità di assurgere a letteratura o quanto meno di produrre “opere popolari e di stile”. Tuttavia questa potenzialità sarebbe stata bruciata dalla metabolizzazione del mercato e di conseguenza la spinta iniziale si sarebbe esaurita.
Ecco, sull’esaurimento della forza d’impatto mi trovo abbastanza d’accordo. Non sono persuaso invece che la colpa possa essere attribuita esclusivamente al solito mercato. Se non stiamo parlando di paraletteratura nel senso più deteriore del termine, ma di preletteratura (laddove “l’uomo della preletteratura e l’uomo della letteratura possono coincidere, sono due momenti diversi della stessa natura di fruitore di testi”), allora mi sembra troppo semplice trovare la motivazione del calo propulsivo nelle dinamiche commerciali. Non solo perché esse sono date per assunte ab origine, ma anche perché il successo commerciale varia parecchio da autore ad autore e perfino da testo a testo. Mi chiedo se non ci sia dell’altro, che ancora non è stato scavato fuori.
Aggiungo un ultimo appunto. Trovo sinceramente che definire l’uomo della paraletteratura “parte di una dimensione antropologica degradata, deumanizzata”, sia decisamente eccessivo. E’ vero che certa pessima narrativa fa male alla salute, ma, suvvia, è ben altro ciò che degrada e deumanizza. Insomma consiglierei di non sopravvalutare troppo la letteratura in tutte le sue declinazioni positive e negative (pre, para, pseudo, o che dir si voglia).
La paraletteratura è parte di una dimensione degradata, non è la sua causa, né esaurisce le cause del degrado. Ma resta che lo sia.
Curioso che in un blog culturale si affermi continuamente che sì, la letteratura la letteratura, ma poi non è che la letteratura sia così importante.
In sostanza, cerchiamo di non cadere in contraddizioni performative.
L’altro problema è stato scavato: mi pare di averlo detto che sì, Evangelisti o Luther Blisset sono gradevoli da leggere, sul piano della costruzione del testo operano con coscienza, sono anche orientati a strutturare il messaggio in un certo modo, però il mapping del dominio concettuale delle loro metafore è tendenzialmente scontato.
Basta mettere l’uno accanto all’altro alcuni romanzi contigui per capirci: Il nome della Rosa, il Pendolo di Foucault e Baudolino (ambientazione storica, o ambientazione di “interesse” storico*, con pregnanza dell’aspetto segnico-religioso-filosofico) e il ciclo dei romanzi di Eymeric (ambientazione storica o di interesse storico, con pregnanza dell’aspetto segnico-religioso-filosofico), per notare la differenza.
*”Interesse” storico: varie forme di interfacciamento fra dimensione storica e modernità tecnologica nel corso della trama.
Si poteva giungere più velocemente a questa conclusione. Del resto è già del tutto criticamente, metodoligicamente ed epistemologicamente infondata l’opposizione che dovrebbe reggere il ragionamento di Wu Ming “nuova epica VS realismo”.
“Il cimitero di Praga” è new epic?
@ daniele ventre
Quindi, secondo lei il motivo del riassorbimento della new fiction nella routine di mercato e il suo progressivo disinnesco è dovuto al fatto che “il mapping del dominio concettuale delle loro metafore è tendenzialmente scontato”? Capisco bene?
Avevo iniziato a comporre una risposta venerdì pomeriggio, ma la sera e il weekend non ho avuto tempo e la discussione è andata avanti. Pazienza, in media commento una volta ogni due anni, vi beccate questo rant.
Certamente il lettore avveduto non si aspetterà da The Greek Tycoon’s Reprobate Mistress le stesse cose che si aspetta da Madame Bovary, ma impiegare contrapposizioni di questo tipo per giustificare una separazione netta fra due campi – letteratura e paraletteratura – rimane (per me) fuorviante e dannoso.
1) Il discorso sulla metafora mi sembra una riformulazione del concetto Shlovskiano di straniamento come caratteristica del linguaggio artistico contrapposto a quello ordinario, ossificato ed automatizzato. Ma ogni discorso su innovazione e scarto dipende dalla corretta conoscenza del contesto. Leggendo Chandler e Hammett oggi riusciamo a ritrovare come creazioni originali quei personaggi i cui tratti caratteristici sono stati ripresi e permutati all’infinito, o non possiamo fare a meno di percepirli come archetipi o stereotipi?
Viceversa, se leggendo i suoi contemporanei scopriamo che parecchie espressioni di Shakespeare che all’orecchio moderno suonano ardite e originali erano in realtà moneta corrente, questo non cambia almeno un pochino la percezione della sua opera?
2) La sua definizione delle letterature di genere come paraletterature sfiora la petizione di principio. I generi commerciali nascono dalla promessa “se ti è piaciuto x, prova y” ma si espandono assorbendo narrazioni percepite come contigue, finendo per offrire spazio ad opere molto diverse tra loro, che in altri momenti sarebbero pubblicate altrove o magari non pubblicate affatto. Trova spazio l’autore che cerca di creare un prodotto che incontra i gusti del pubblico, quello assolutamente originale idiosincratico ed endodiretto la cui poetica viene apprezzata magari solo da un ristretto gruppo di affezionati, l’autore che scrive in un genere perché in esso vi trova strutture o possibilità o predecessori o influenze a lui congeniali, and everything in between.
Una determinata opera potrà poi appartenere a molteplici generi contemporaneamente o presentare più livelli di lettura ma autori midlist o di nicchia non hanno grandi margini per intervenire sul marketing dei propri libri.
Naturalmente piegarsi a convenzioni generiche e pressioni esogene può avere effetti negativi: Tremor of Forgery, che ha al centro un crimine ma delle aspettative del giallo o thriller non conserva nulla, è forse il capolavoro di Patricia Highsmith, mentre col proseguire dei Ripley la qualità cala decisamente.
Ma Tremor of Forgery è anche un esempio di come le convenzioni di un genere possano essere accettate nella misura in cui facilitano un altro tipo di discorso, reinventate o persino ignorate del tutto.
Visto che cita la Scuola di Francoforte, rispondo con una battuta (non mia, ammetto): Adorno vede arte e letteratura come alcuni maschi vedono l’altro sesso: esistono solo Madonne e Puttane.
3) Prendiamo “Il Latrato” di Ingeborg Bachmann. E’ un racconto dell’orrore; non Splatter, Gotico o Lovecraftiano, ma del tutto contiguo in strategie ed atmosfere ad alcune storie di Shirley Jackson.
La dissonanza fra la percezione degli avvenimenti del lettore e quella dei personaggi, una narrazione che si sofferma su passaggi che evocano subliminalmente direzioni o interpretazioni mai però concretizzate e definite univocamente nel testo, un elemento di contrappunto al limite fra fisiologico e psicologico e fra realistico e simbolico (il latrato nelle orecchie della vecchia signora Jordan), un finale con brusco cambiamento di punto di vista e l’ effetto complessivo che non ha a che fare con la paura ma con l’orrore “morale”.
A questo punto:
a) Un sentiero per il lago è finito in paludi paraletterarie;
b) Il Latrato è riconoscibile come letteratura perché ha un effetto sul lettore che trascende da aspettative, inquadramenti e connessioni, siano l’ascrivibilità a un dato genere piuttosto che la posizione all’interno dell’opera di una determinata autrice.
Ora, se Il Latrato fosse stato pubblicato anonimo su una rivista di genere, sarebbe stato ancora riconoscibile come letteratura? Anche fosse così, se ne sarebbe accorto qualcuno?
Se la letteratura cade nella foresta e nessuno è lì a sentire, è ancora letteratura?
Dico questo perché nella mia babele di biblioteca ogni volta che cerco un libro devo spostarne cento, e ultimamente i libri della Bachmann sono finiti addosso a quelli di Joanna Russ, abbinamento che trovo particolarmente intrigante. Rigirando il suo paragone Musiliano, per me l’autrice di The Female Man e We Who Are About To… (che sarebbe davvero ridicolo liquidare come avvincenti narrazioni fantascientifiche o “fiabe”) può tranquillamente stare accanto all’autrice di Malina e del Caso Franza senza alcun complesso d’ inferiorità. L’ intelligenza, l’originalità, la passione, la ferocia temperata da arguzia e ironia, la sicurezza con cui la Russ piega la lingua alle sue esigenze – dall’ orgia impressionista e sinestetica di And Chaos Died (il primo e meno maturo dei romanzi, ma anche quello in cui si percepisce il “guarda! senza mani” del giovane autore consapevole dei propri mezzi) alla quadrifonia di voci che si avvicendano senza soluzione di continuità in The Female Man, allo stile più misurato ma pieno di microfratture destabilizzanti di We Who Are About To…
Quando la Russ è morta ad aprile in maggioranza i necrologi si sono limitati a un paio di righe del tipo “Morta Joanna Russ, importante autrice di fantascienza femminista, ha portato le donne nello spazio”.
(sigh)
Super Sad Love Story di Shteyngart offre un convincente spaccato dell’ America moderna, un acuta osservazione del mondo giovanile, un brillante ritratto di un inusuale rapporto di coppia, il tutto condito da quell’ intelligente citazionismo postmoderno e ironico che da Woody Allen a George Orwell strizza l’occhio a destra a manca, insomma tutte quelle cose che ci si può aspettare da una qualsiasi puntata di Friends, ma rese sulla pagina in perfetto stile paraculo alla Eggers/Foer. Si svolge in un futuro prossimo distopico, ma scopro che per molti non è davvero fantascienza “because it speaks to the human condition”.
Non mi interessa fare proselitismo o imporre le mie valutazioni critiche. Semplicemente nel cortocircuito che scaturisce dal paragone fra la Russ e Shteyngart – e nel fatto che persone peraltro colte e intelligenti continuino a pronunciare varianti della frase virgolettata – la divisione fra letteratura e paraletteratura per me crolla senza possibilità d’appello.
E non ho mai avuto da pentirmi della decisione di gettare a mare quella bussola inaffidabile, perché i percorsi ne hanno guadagnato su entrambe le sponde.
E’ grazie ad un autore come M John Harrison che ho scoperto Elizabeth Bowen, Rosamond Lehmann, Mina Loy, Olive Moore, grandi autrici moderniste di cui non ho letto una riga durante il corso di laurea in Letteratura Inglese.
Ed è grazie a Ray Davis, un blogger dai gusti meravigliosamente idiosincratici che ho incontrato per il comune interesse in autori come Russ o Harrison, che ho scoperto Frederick Rolfe, Laura Riding e Barbara Comyns, o saputo che Djuna Barnes non ha scritto solo Nightwood.
C’è poi l’altra faccia della medaglia: la prevedibilità, pur in assenza di investigatori e robot, di parecchie cose presentate, discusse e a volte premiate come letteratura.
Il romanzo di Ricciarelli che ha vinto lo Strega nel 2004, letto qualche mese fa, è gradevole ma non mi sembra presentare scarti significativi rispetto a esempi medi di letteratura di genere.
Ed è il quarto in una serie di libri in pochi mesi – gli altri di Kate Grenville, Jeanette Turner Hospital e Jane Urqhart, sono stati finalisti ai principali premi letterari australiano e canadese – il cui “mapping del dominio concettuale delle metafore” è sorprendentemente simile. Storie diverse sì, ma simili strategie nello sguardo sui personaggi, l’organizzazione dei conflitti, l’intreccio dei motivi, un certo modo di usare il flashforward, alcune set pieces, attività tecnico/manuali che assurgono a Dingsymbol (eh, sì, tessere richiede pazienza, la fotografia si colloca fra realtà, arte e finzione, e non parliamo dell’ingegneria/i treni/il progresso!) e non c’è molto che si faccia ricordare in modo particolare.
Piuttosto che declassare a paraletteratura tutto ciò che non è L’Uomo Senza Qualità o rimpiangere i bei tempi andati in cui si pubblicavano solo capolavori e le avanguardie erano mainstream, preferisco allora pensare a una linea continua che va dalla letteratura alla Letteratura, da quello che rimane in superficie a quello che mi scuote nel profondo (perdonate le frasi fatte).
E anche se la differenza probabilmente dipende dalla quantità e qualità di ambizioni racchiuse in un testo e dall’efficacia con cui esse sono realizzate, astrarre regole specifiche e univoche non mi sembra possibile; di certo non lascio decidere per me alle classificazioni – siano imposte, accolte, combattute o quant’altro – del mercato, e non credo che i buoni e i puri stiano solo da una parte.
Tornando in topic, magari può interessare l’iniziativa della Canongate:
http://www.themyths.co.uk/
Esempi di letteratura che dialogano col materiale mitico in maniera feconda mi vengono in mente, sia in “alto” che in “basso”, ma dovessi indicare un trionfo della letteratura per confutare questa frase:
Fuori della definizione storicamente propria di epica, esiste davvero soltanto la possibilità di tecnicizzazione del mito
provando che per ogni formulazione teorica a priori è rischiosa, per quanto convincente e ragionevole possa sembrare, ci sarebbe un autore per bambini (eh eh), un tipo che di fronte alle spinte a rendere la sua opera più popolare ha smesso di scrivere per dieci anni, e questo piccolo libro in via di ripubblicazione:
http://www.nybooks.com/books/imprints/classics/red-shift/
Ad onor del vero, Marco, Daniele interpone fra la Letteratura e la ParaLetteratura, la PreLetteratura. Una sorta di terra di mezzo che può divenire germinativa di Letteratura tout cour. (e tra l’altro è un discorso che si avvicina a certe cose che lessi a suo tempo scritte da WM4).
Ma, seguendo il tuo (per me) sacrosanto discorso, e utilizzando l’esempio enologico di Daniele, quello che conta è capire se il Brunello di Montalcino è tale in quanto fatto di uve selezionate che lavorate con cautela ottengono il nettare, o se la sempliche etichettatura basta a suggestionare il palato (non è nuovo il caso di degustatori bendati che hanno preso cantonate memorabili). Si diventa vino d’annata con la qualità, la serietà e l’inventiva, non con la rendita di posizione, al punto che vitigni dapprima poco considerati, col lavorio della terra e la passione si sono trasformati in vini nobili.
Per come la vedo io buona parte, la stragrande maggioranza di ciò che consideriamo di “genere” in media mi annoia. Però non dirò mai che un romanzo solo perché ha deciso di esistere dentro un immaginario fatto di astrovavi, o poliziotti, cataclismi, supereroi, o chissà cos’altro, di per sé perde la possibilità di divenire “Letteratura-e-basta”.
Il jazz, considerata espressione popolare e dozzinale al suo nascere, nel tempo ha costruito un linguaggio “indipendente” (ma non avulso) dalla musica culta e oggi molti jazzisti insegnano nei conservatori un patrimonio musicale davvero innovativo e “artistico”.
Ma più vicino a noi: cosa dire di un autore, Cormac McCarthy, nato come scrittore di “genere” (western) che ha saputo negli anni esplorare la sua voce interiore e che ci ha regalato, fra gli altri, un capolavoro come “The Road”. Romanzo indiscutibilmente “di genere” (apocalittico) che rispetta, anzi le conferma, le regole fondamentali di quel genere, eppure è riconosciuto dalla migliore critica mondiale come una pietra miliare della letteratura americana degli ultimi anni?
Infine, davvero di corsa: ma possiamo davvero credere che, al di là del’impasto linguistico, la capacità di organizzare universi coerenti e trame complesse, non sia anch’essa una caratteristica indiscutibilmente “letteraria”? (e lo dico da lettore di Proust, non di Ursula Le Guin.)
@ marco
Personalmente ritengo che quello che tu scrivi sia basilare e mi associo in toto. Avevo provato a dire qualcosa di simile, con minor perizia, nei miei interventi precedenti. Fatto salvo che ogni classificazione trova la propria (legittima) ratio, e constatando che storicamente letteratura alta e letteratura bassa sono sempre state osmotiche, bisogna chiedersi qual è l’utilità effettiva di una macro-classificazione che si collochi a monte delle “gradazioni” e dei “livelli” raggiunti dalla scrittura e dalla narrazione stesse, nonché del loro contesto. Se escludiamo il dover selezione un’antologia scolastica per i licei, in effetti una risposta c’è: le classificazioni le fa qualcuno. Qualcuno che sente la necessità di affiancare alla critica del testo la gerarchizzazione dei testi in base a criteri oggettivi, i quali serviranno a dividere ciò che è “Letteratura” da ciò che invece “è parte di una dimensione antropologica degradata”.
Ma Tom, però… chi davvero si può esimere dal giudizio di merito? (dal farlo, o dal riceverlo).
Non è questione di gerarchizzare i testi da un punto di vista. La questione è piuttosto quella di definire un tipo d’uomo.
Quando un Tremonti dice che la cultura non si mangia, e che con Dante non si incartano panini, è alla forza formatrice della letteratura e in generale della cultura che si riferisce.
Per inciso, io so bene che il Pasticciaccio e Cancroregina sono opere letterarie.
Quanto alla mia analisi, è vero che il concetto shlovskyano di ostranenie è sotteso a quello che ho scritto qui. Ma questo non credo sia una colpa. La paraletteratura, a differenza della letteratura di evasione (forse è più appropriato definirla così), è mero discorso di consumo, usa e getta. Lo stesso vale per la canzonetta alla D’Alessio e per il cinema di cassetta.
La gerarchia non è fatta “da qualcuno”; la distinzione è negli orientamenti di mercato e nelle diverse antropologie che definiscono.
Né è questione di etichetta: per il passato, è questione di peso storico-culturale; per il presente e il futuro, è questione di onestà intellettuale e volontà sperimentatrice.
@ daniele ventre
Certo, per le grandi opere del passato c’è il peso storico-culturale, che comunque, ne converrà, è appunto storicamente dato, quindi a sua volta mutevole, non necessariamente eterno. Chissà quante opere che oggi riteniamo grandi esempi di letteratura sopravvivranno al giudizio dei posteri? E quanti autori bistrattati sono invece stati recuperati postumi?
Per il presente “è questione di onestà intellettuale e volontà sperimentatrice”. Concordo. Ma né l’una né l’altra sono doti esclusive di ciò che da “qualcuno” (eh, sì) viene considerata Letteratura con la “L” maiuscola. C’è chi scrive per dare al lettore conferme e stereotipi, e chi scrive per sollevare questioni, porre domande sulla natura umana, proiettare una visione sul mondo. E questo avviene a vari livelli e con varie gradazioni a seconda dell’impegno, del talento, della perizia, nonché, ovviamente, del grado di onestà intellettuale e di volontà sperimentatrice dell’autore. In questo caso gradazione non fa rima con classificazione.
Infine si può pure collocare l’origine della distinzione “negli orientamenti di mercato”. Eppure anche la Letteratura con la “L” maiuscola è mercificata. Suppongo ad esempio che una parte non indifferente del fatturato di una casa editrice come Einaudi derivi proprio dal suo catalogo storico, composto dalla grande Letteratura con la “L” maiuscola. Dunque non è il mercato in sé e per sé che sancisce la distinzione, ma casomai quello che si ritrova di volta in volta nei testi, a valle di ogni classificazione e gerarchizzazione e, tanto più, di ogni tendenza di mercato.
Lei ha ragione in parte, secondo me. Per altri aspetti, sembra che giriamo in tondo.
Ovviamente, ogni libro, in quanto oggetto fisico che supporta informazioni, è prodotto per la vendita -poco importa se il libro è cartaceo o elettronico.
Ma ci sono libri che come sistemi segnici non sono stati prodotti come oggetti di intrattenimento di basso livello in vista della vendita a un pubblico tanto ampio quanto diseducato.
Alcuni di questi libri sono stati magari prodotti per l’intrattenimento, ma hanno dalla loro un’attenzione alla costruzione del messaggio, alla forma dell’intrattenimento, che ne fa operazioni culturali degne d’attenzione per come intrattengono la mente (lo stesso si potrebbe dire per canzoni e fumetti). Per esempio, poniamo che un classico tema da paraletteratura, da pulp fiction, come l’interazione fra uomo terrestre ed alieni, sia trattato in un romanzo in cui: 1) sia costruito un universo finzionale assai coerente e intrinsecamente contiguo all’immagine dell’universo che la scienza ci fornisce (penso a un Gregory Benford); oppure un universo finzionale iperparodico (penso a Douglas Addams); oppure un universo finzionale fondato su paradigmi alternativi calati in una temperie storica (penso a Valerio Evangelisti; 2) i personaggi siano complesse espressioni sociopsicologiche dell’universo finzionale; 3) esista una ricerca sul piano del linguaggio o una sistematica documentazione o entrambe. Un simile testo rappresenterebbe un livello assai alto di letteratura d’evasione.
Questo ragionamento toccherebbe ampie aree della produzione d’intrattenimento, dal libro ai materiali multimediali. Certi videogiochi di ruolo o d’azione hanno una tale pregnanza, come realizzazioni, da garantirsi una propria legittimazione come artigianato tecnico di alto livello, con una sua dimensione culturale autonoma -qualcuno ha addirittura indagato la loro struttura seriale come ultima espressione rimodulata e ri-mediata della serialità formulare dell’epos.
La letteratura come poesia, e in ultima analisi come costruzione segnica riflessa del bello (non starò qui a definire che cos’è) che ha come conseguenza possibile (anche se non deliberata) una cosciente riprogettazione cognitiva e/o esistenziale dell’autore e del fruitore (la poesia come creazione, nel senso più lato del poiein greco) è però obbiettivamente un’altra cosa. E non c’entrano le dispute sul canone. Poi il progetto letterario può essere più o meno riuscito, e indubbiamente una brutta poesia non vale nemmeno un millesimo di un buon esempio di letterarura di evasione.
@ Daniele Ventre
Sì, diciamo che riusciamo ad avvicinarci, forse anche a trovare un punto di contatto, ma poi “giriamo in tondo” perché rimaniamo in disaccordo su una prospettiva di fondo (ma del resto mica dobbiamo convincerci a vicenda). In sostanza io non la seguo quando dice:
“La letteratura come poesia, e in ultima analisi come costruzione segnica riflessa del bello (non starò qui a definire che cos’è) che ha come conseguenza possibile (anche se non deliberata) una cosciente riprogettazione cognitiva e/o esistenziale dell’autore e del fruitore (la poesia come creazione, nel senso più lato del poiein greco) è però obbiettivamente un’altra cosa.”
Non capisco cioè quel “obiettivamente”. Non capisco perché intrattenere non possa convivere con il poiein. Non capisco perché un esempio come quello da lei ipotizzato di un romanzo che preveda costruzione coerente di mondo, personaggi dalla psicologia complessa e non stereotipata, ricerca linguistica, non dovrebbe essere considerato letteratura e basta, senza vedersi appiccicare l’epiteto “d’evasione”, solo perché rispecchia un canone di genere (magari per sovvertirlo più o meno sottilmente).
Mi suonano tutti come assiomi aprioristici, o appunto classificazioni di cui non colgo l’utilità pratica, se non appunto nel voler stabilire – da parte di un soggetto storicamente determinato – cosa è “Letteratura” e cosa no. Sarà forse colpa di una formazione troppo “anglosassone”.
Su questa divergenza che al momento mi appare irriducibile, smetto di “girare” e passo la mano.
Mi sembrano, giuro senza amor di polemica, i residui di quel crocianesimo che nessun italiano riesce a spazzolarsi di dosso – anche se s’è fatto il viaggio a Francoforte (anzi, forse anche grazie a) – che ci fanno distinguere, discernere, separare – così, d’istinto, senza malevolezza – la poesia dalla prosa, l’architettura dall’edilizia, le arti maggiori dalle arti applicate, etc. etc. Al punto paradossale che il buon Benedetto raggrumava a pochi versi la parte davvero poetica e dirompente della Commedia, relegando il resto del poema a “struttura”. Ma senza “struttura” non c’è “poesia”, replicava Gramsci. E,d i più, la potenza suggestiva della Commedia sta proprio nella macchina, nella struttura, persino nel suo essere meccanismo d’intrattenimento. (un vero long seller, ad essere capziosi).
E’ interessante che lei presenti esempi dal genere fantascientifico, con cui sembra avere discreta familiarità, perché è il genere che può più facilmente disfarsi, in potenza almeno, di ogni tipo di tropo o cliché: lo spazio, i robot, i viaggi nel tempo, nulla di tutto questo è necessario o obbligato.
Non so se lei conosca la New Wave, quel movimento fantascientifico alla fine degli anni sessanta/inzio settanta contrassegnato da grande sperimentazione formale e contenutistica.
A metà anni ottanta si è scoperto che Ballard era sempre stato un autore di letteratura (o perlomeno così la pensano quasi tutti i critici inglesi).
Uno potrebbe pensare che anche poeti come Pamela Zoline, David Bunch o Thomas Disch (quest’ultimo ha ottenuto notevoli riconoscimenti nella sua carriera altra) portassero una sensibilità diversa rispetto a quella che lei chiama letteratura d’evasione.
E chissà, uno potrebbe supporre la stessa cosa di James Sallis, un autore di polizieschi che ha dedicato 15 anni ad un apprezzata traduzione di Queneau ed ha inoltre pubblicato traduzioni di poesie di Cendrars, Bonnefoy e Ponge, Pushkin e Lermontov, Hlasko e Neruda, oltre ad essere l’unico americano che conosco ad aver letto Landolfi in italiano.
Poi certo, Il Pasticciaccio, Cancroregina, Il Giorno della Civetta, ma l’accettazione di queste opere dipende molto da status e prestigio culturale dei loro autori. Il Pasticciaccio è stato pubblicato su Letteratura, non nel Giallo Mondadori.
A tutta quella parte del mio discorso che Biondillo ha ben sintetizzato con la metafora dello scambio di etichette lei non ha risposto.
Ingeborg Bachmann non si è prostituita accettando di lavorare per un genere commerciale come il radiodramma – e c’è un evidente continuità fra Il Buon Dio Di Manhattan e il resto della sua opera.
Alla domanda su cosa fosse più importante per lei fra prosa, poesia e radiodrammi rispose: “Per me sono tutte un unica cosa, attacchi e spedizioni che si muovono in quell’unica direzione, da diversi lati, con mezzi differenti”.
Il fatto che uno scrittore possa vedere in un genere quello che la Bachmann trovava nel radiodramma, l’apertura di possibilità espressive specifiche che gli interessa esplorare, non le viene mai, mai, mai in mente.
Ciò che caratterizza davvero la poesia è la tensione produttiva fra caratteristiche formali e contenuti semantici, in armonia o in contrappunto ma comunque uniti in maniera indissolubile in modo da ricreare un esperienza estetica e rinnovare la nostra percezione del mondo (nulla di male in un po’ di Skhlovsky).
E questa può benissimo essere una definizione per la grande letteratura, quella che aspira all’ arte. Io non ho problemi a dire che Simmons non raggiunge il livello dell’arte (ma sono sicuro che lui sia convinto di sì, visto il suo Ego, e di lavorare in quella direzione)
Se la metafora della linea continua è troppo semplice, proviamo questa successione:
carbone-grafite-diamante con impurità-diamante.
Allora per me (soggettivamente) We Who Are About To… di Joanna Russ, The Course of the Heart di M John Harrison e Red Shift di Alan Garner sono diamanti perfetti, tre visioni uniche e personali perseguite con ferocia e senza il minimo compromesso. Rimangono opere d’arte in qualunque modo lei aggiusti le sue definizioni.
L’idea che ognuna di queste opere possa essere considerata meno letteraria o meno artistica di un romanzo da lei citato che ho gradito anche per l’aspetto di intrattenimento – Il Pendolo di Foucault – mi sembra oggettivamente ridicola.
Il fatto che lei non riesca ad intrattenere neppure come thought experiment l’idea che si possano trovare opere simili al di fuori dei confini della Letteratura ufficiale mi dice moltissimo sui constraints endogeni che intervengono nella valutazioni artistiche della critica accademica.
Guardando l’altro giorno le classifiche, e sentendomi molto sconfortata da queste che sono anche frutto della crisi economica, la mente ha preso derive apocalittche estendendo il pensiero. Oggi sto piuttosto bene, grazie, ma quei pensieri neri non si sono dissolti in fuffa.
Partiamo dal mio punto di partenza. Dal fatto che i titoli più venduti oggi sono ciò che qualche anni fa avrebbe preso la veste del romanzo rosa (posso mitigare in “romanzo d’amore”) pubblicato da Sperling & Kupfer. Invece oggi viene presentata con la faccia garbata come romanzo-romanzo da editori come Feltrinelli, Garzanti, Neri Pozza. A aprire il trend, a ben vedere, è stata Adelphi e anche Einaudi qualche volta ci ha dato dentro con successo (Anime alla Deriva).
Chi compra questi prodotti vuole credere di leggere un “vero libro”, qualcosa che c’entra con la cultura. Invece questa “nuova “women’s fiction” è più povera di storia, ambientazioni, invenzione, personaggi, scrittura e così via di qualunque libro considerato di genere mediamente decente (e se mi citate Highmith, mi torna il mal di stomaco). Non solo i “noir” fighetti, ma anche il classico thrillerone mainstream e molto altro.
Mi pare la perfetta paraletteratura, come la chiama Daniele. E per usare un altro paragone gastronomico temo che tra un po’ la maggior parte non mangerà altro che i biscotti del Mulino Bianco che essendo puro prodotto industriale si spaccia per “mangia sano torna alla natura”.
E se da qualche parte rimane il negozietto che ti vende i biscottini fatti in casa con uova biologiche e ricetta della nonna, non cambia un h.
Per questo mi sembra importante – e davvero preoccupante – che si stia sempre più restringendo e insterilendo quell’area che Daniele chiama la preletteratura e che io – allargando lo sguardo- magari chiamerei semplicemente cultura popolare.
C’è sempre stata e soprattutto nella modernità una cultura sgorgata dal basso che ha nutrito una relazione vitale con quella “alta”. E questa sta morendo, facocitata e imbrigliata dal controllo immediato di ogni trend, dalla differenziazione del mercato su tanti pseudodifferenziati consumatori in target (che significa mirino).
@ helena
Sottoscrivo al 900% quello che hai detto nel tuo commento.
@ marco
Prendo esempio dal genere fantascientifico per una serie di ragioni.
La prima ragione è di natura antropologica. In uno dei miei testi di riferimento, Il mulino di Amleto di De Santillana e Dechend, che cito forse anche troppo spesso, si nota una contiguità forte fra fantascienza e mitopoiesi: una contiguità strutturale e in definitiva una sorta di coessenzialità: la fantascienza è il mito (ricordo del futuro) di una società che, a differenza delle società arcaiche, è proiettata verso l’idealizzazione (o meglio, mi si passi il termine, verso l’ideificazione) del futuro (anche filosoficamente: si vedano Teilhard de Chardin, Bloch, le nuove teologie che contaminano cristianesimo e programmi hegelo-marxisti blochiani e francofortesi, per non parlare di certe implicazioni delle teologie femministe). La fantascienza, dunque, è la nostra mitopoiesi.
La seconda ragione, strettamente legata alla prima, è che la fantascienza, in quanto mitopoiesi della civiltà scientifica, è uno dei pochi esempi di narrativa di genere ad aver toccato, in maniera massiccia e non solo per pochi esempi sparsi, l’ambito della letteratura. Lei cita Ballard; ma si potrebbe tornare all’astrofisico Gregory Benford, i cui romanzi (ad esempio Troughout a sea of suns), possono essere considerati anch’essi opera di letteratura e non di letteratura di evasione pura e semplice. Ma soprattutto, è nel contesto della fantascienza che si è arrivati letteralmente e fattualmente alla nuova epica, con esperimenti che definire estremi è dir poco, ma che in alcuni casi sono ampiamente riusciti.
Penso a opere come il grandioso poema Aniara di Harry Martinson (ed. ital. Scheiwiller, 2005, a cura di Maria Cristina Lombardi), o come al poema in esametri greci alla tardoantica (in parte ametri) di Jan Kresadlo, Astronautilia, il cui proemio (vv. 1-40 e oltre, per usare un modo di dire sf) può essere visionato qui
http://www.aoidoi.org/articles/vc/astronautilia.pdf.
o a Ray Bradbury, non solo con i suoi romanzi, ma anche con una raccolta di poesie in cui la fantascienza trova posto.
La fantascienza per me è il terreno dove la distinzione, diacronica e sincronica, fra paraletteratura, letteratura d’evasione (cultura popolare) e letteratura risulta più evidente che altrove.
E, per rispondere a gianni (biondillo), non è tanto un residuo di crocianesimo a farmi restaurare la distinzione, quanto piuttosto un problema di carattere cibernetico, in termini di complessità di sistema e di interazioni in rete. Ma ora devo dileguarmi per impellenti incombenze burocratiche di carattere pagatorio (bollette), dunque la precisazione cibernetica al prossimo intervento.