Nuovi autismi 4 – Un posto fisso
di Giacomo Sartori
Quello che mi piacerebbe sarebbe un lavoro che finisce alle cinque. Uno si dà da fare tutta la mattina, a mezzogiorno fa la pausa pranzo, e poi tra una cosa e l’altra vengono subito le diciassette, e ha finito di sgobbare. Uscendo dalla sede lavorativa inspirerei profondamente. Guarderei le case e mi direi: questa è la città dove abito, la città dove lavoro. Questa è la mia città, mi direi, ben sapendo che sono io che appartengo alla città, non la città che appartiene a me: in genere le città vivono più a lungo delle persone. Ma si dice così, e allora mi conformerei. L’etimologia del sostantivo lavoro è spudoratamente aristocratica, però io avrei il sentimento di aver devoluto il dovuto alla società, di aver contribuito con la mia dose quotidiana di costruttiva operosità. L’inverno sarebbe già buio, ma l’estate ci sarebbero ancora diverse ore di luce. Del resto anche l’illuminazione artificiale delle serate invernali ha il suo fascino. Le persone avvolgono i loro misteri sotto i cappotti, diventano ancora più attrattive, e i locali pubblici acquistano un’aurea di accogliente rifugio a cui è arduo resistere. E se fosse venerdì sarebbe ancora meglio: avrei la soave cognizione che se ne riparlerebbe solo la settimana seguente. Mi manca parecchio questo senso di libertà dal lavoro. Ma non è che sia contro il lavoro, intendiamoci: penso anzi che l’affaccendarsi lavorativo sia il modo più efficace per non pensare alla morte, che per noi occidentali è il modo più tranquillo per vivere. O meglio, quando si è bambini per non pensare alla morte si gioca, poi quando si è grandi si lavora (da anziani ci si barcamena alla meno peggio, tanto ormai si è un po’ storditi, o comunque rassegnati). Molte persone sono persuase di lavorare solo per guadagnarsi da vivere, ma si sbagliano di grosso. Anch’io come tutti lavoro per togliermi di torno il pensiero ossessivo del mio personale decesso, e anche per dirmi che non sono completamente inutile, che merito che gli altri non mi mettano al bando o addirittura in prigione. Non sono più contro il lavoro, anche se a dire la verità in una fase della mia esistenza lo sono stato: erano altri tempi, l’ingenuità impazzava. Adesso so bene che lavoro per non dare adito ai cattivi pensieri. A ben guardare il problema sta proprio qui: per non correre alcun rischio sgobbo sempre. Invece che alle diciassette finisco alle ventidue, alle ventiquattro, alle due e trenta del giorno dopo. Anche il sabato e la domenica. Ma non mi lamento del lavoro in sé, non è questo. Anche perché come sono organizzato io nessuno mi sta con il fiato sul collo: posso pur sempre incantarmi col naso all’insù, dare una sbirciata nel paesaggio polare del frigo, schiacciarmi un punto nero davanti allo specchio. Però mi piacerebbe pur sempre finire alle cinque, e essere pago di quello ho fatto. Oggi ho sbrigato una bella pila di fragranti incartamenti, mi direi. Oggi ho sfornato un numero tot di lucidi pezzi senza alcun difetto, mi direi se invece fossi impiegato in una fabbrica. Secondo me le persone che si lamentano del lavoro biasimano in realtà la loro strategia per dimenticare la morte. Farebbero meglio a dirsi che devono cambiare tattica: per esempio drogarsi, o suicidarsi. E naturalmente mi delizierebbe avere dei colleghi, che discorsi. A nessuno piacerebbe lavorare in un ufficio in mezzo al deserto, nella più silicatica solitudine. Dei colleghi con i loro difetti, e magari anche un po’ noiosi, se non addirittura importuni, ma pur sempre persone con le quali scambiare quattro chiacchiere solidali. L’uomo ha bisogno di discorsi solidali, ormai lo dicono tutti i libri. A me mancano drammaticamente gli scambi verbali solidali. Come è immaginabile dentro di me solidarizzo con me stesso, ma non è la stessa cosa: da soli è facilissimo cadere nella circolarità, nell’ossessione. Del resto anche la passeggiata mattutina alla volta della sede lavorativa avrebbe la sua suggestività: l’aria che attraverserei sarebbe frizzante e ancora incolume. Entrando dal portone sospenderei i miei pensieri usuali, come si chiude una scatola piena di ragni, mi dedicherei alle preoccupazioni lavorative. Sarebbe ogni giorno un piccolo e festoso funerale di tutti i dubbi esistenziali, di tutte le fissazioni. Il mio naso riconoscerebbe gli odori abituali, pedissequi ma anche schietti (intrinsecamente rassicuranti), la mia bocca esprimerebbe saluti per molti versi rituali. Prenderei posto dietro a una scrivania, o dietro a un bancone, o davanti a uno schermo, quello insomma che mi chiederebbero di fare. Attenderei le diciassette come si attendono le gioie minute, le uniche certe.
[l’immagine: Takahiro Shimoda]
la «costruttiva operosità» che dici è proprio gaddiana: mi ha irresistibilmente ricordato il racconto Quando il Girolamo ha smesso, nell’Adalgisa: «… bentosto invece si rivelavano animati da una bonarietà operosa e conclusiva, in un tramestio senza scampo funzionari impareggiabili di Babilonia».
Il lavoro come sudario e come liberazione. Il lavoro impiegatizio che non stravolge i ritmi. Non quello scriteriato e “nuovo” dei call center dove posso trovare una signorina che mi risponde alle quattro del mattina. L’operosità milanese, Gadda fa capolino, ma si ritrae immediatamente.
l’importante è che sia una cosa veloce
http://www.youtube.com/watch?v=1rJh61CHPzc
Terribile..
Non mi convince molto questo testo.
Mi chiedo, cosa c’è oltre l’espressione di un desiderio, e perché il condizionale non è mai corretto dall’indicativo? perché accontentarsi di questo minimalismo senza prospettive altre? non mi è piaciuto questo scritto.
Quando lavoravo, senza orari, e magari uscivo, per un motivo qualsiasi, alle cinque, mi sembrava di essere una detenuta in ora d’aria…il peggio fu dover andare a lavorare di domenica, prendere il treno, raggiungere la città dove lavoravo e che ora mi è estranea…detesto il lavoro, dicevo spesso che mi ci recavo senza che i carabinieri mi ci costringessero…ora non lavoro, però non ho soldi: è un brutto ricatto, lavorare per i soldi, o la borsa o la vita…ma il senso di costrizione è davvero insopportabile, come fanno tutti a tollerarlo, come ho fatto io per lunghi 20 anni???
Mi barcameno, anch’io con lo stesso problema, lo faccio per “togliermi di torno il pensiero ossessivo del mio personale decesso”..
Ma sì, credo che in questo pezzo ci sia molta verità. Non è, per chi lamenta il minimalismo, una summa teleologica delle nostre esistenze, dice piuttosto una verità fondamentale, che lavorare può essere qualcosa più di un mezzo di sostentamento, che l’obiettivo della piena occupazione deve essere rimesso al centro dell’iniziativa politica.
E soprattuto lo dice bene, molto meglio di come sarei in grado di dire io.
Lamentarsi del proprio lavoro è un delitto, specie di questi tempi.
E’ un delitto, dover purtropo dire: “Lamentarsi del proprio lavoro è un delitto, specie di questi tempi.”
C’è un orizzonte di acuta sofferenza, ma anche lo sforzo di riconoscere una possibile salvezza nell’operosità umana. Mi sembra molto vero questo testo.
Mi pare che, a parte la cosa gaddiana di Sparz in cui non mi addentro perché non ci prendo, solo Vincenzo Cucinotta, secondo me, ha letto questo autismo. Sarei contento di poter continuare così con questa veste di uomo provinciale che par vivere appena, lentissimamente, tenendo gli orari. E’ tratta da Coversione al Codice, di Giovanni Boine. E’ uno scritto inquietante, quello di Boine, che fa i conti con la sua religiosità, ma anche con la sua condizione di proprietario terriero rimasto senza terre, e intellettuale senza reddito. Uscire dal lavoro alle diciassette non come tempo dunque, ma come ricerca di cantuccio. Di nuovo Boine diceva: bisogno di sistema.
kafka quando leggeva le sue cose agli amici era preso da violentissimi accessi di riso, al punto da soffocarsi;
come dire, c’è anche la comicità, anche quando non è sbandierata; ma forse ha ragione Roberta, c’è anche il dolore;
ah, il gigante Gadda, Sparz!
Kafka era uno che terminava di lavorare alle diciasette.
pensavo appunto anche a lui, naturalmente