l’attesa
di Chiara Valerio
L’attesa è quel che le cose non hanno: la facoltà di abbandonarsi. Le cose non si abbandonano. L’attesa non vuole niente, non si rappresenta niente, si riposa. Ci sono prose, in forma narrativa o saggistica, che contengono al loro interno la definizione di ciò che per l’autore esiste, di ciò che per l’autore compone e colora il mondo, dentro e contro le parole. L’attesa (et. al/ edizioni, 2011) di Ginevra Bompiani da questo punto di vista, è esemplare. In quattro sezioni e un’iniziale “nota tardiva” – dove l’autrice specifica che questa è una edizione parzialmente riveduta del testo originale pubblicato per i tipi di Feltrinelli nel 1988 –, Ginevra Bompiani fa la sua dichiarazione di ontologia e di poetica. Esiste solo quello che aspettiamo. L’inatteso, l’ospite, esiste solo in quanto non corrispondente all’atteso. La non corrispondenza di atteso e ospite è il tempo nel quale decidere che accoglienza riservare. Ogni estraneo è un’attesa tradita. Ogni ospite sorprende la nostra impreparazione, e misura la nostra umanità sul tempo che intercorre fra la rinuncia alle rappresentazioni che l’hanno preceduto e il benvenuto sulla porta.
L’attesa ha il passo del saggio e la tensione della narrativa. È attraverso i libri che Bompiani procede, dimostra, confuta, racconta. È attraverso un’elencazione di figure, personaggi, storie e antipodi che Bompiani trasforma la lettura di questo libro piuttosto una visione. L’attesa si vede e si sente molto più di quanto sia detta, e questo vedere è sentire è fatto attraverso le parole intrecciate che, come i vinci di una cesta, vanno componendo uno spazio. Ginevra Bompiani costruisce infatti casse acustiche nelle quali ci si riconosce oppure ci si perde, nelle quali si sta, si è accolti, per un momento, per occasione o per sempre, perché la sua è una scrittura, per la quale, utilizzando parole di Marina Cvetaeva, la testa trae profitto dal cuore. Così chi legge beccheggia tra “attesa” e “sorpresa”, “attesa” e “compimento”, “prigione” e “ripetizione”, “rappresentazione” ed “espressione”, “miracolo” e “morte”, “amore” e “ombra”, “riconoscimento” e “assenza”. Non è questo miracoloso riconoscimento dell’altro come lo stesso, che l’amore festeggia?
Con una traslazione del principio di indeterminazione di Heisenberg – è impossibile conoscere contemporaneamente e mediante osservazione la posizione e la velocità di una particella in moto – penso che Bompiani, in questo libro, abbia raccontato, l’impossibilità di conoscere, contemporaneamente e mediante osservazione, desiderio e attenzione, il “quando” e il “chi” di colui che arriva, il “come” e il “chi”, il “quando” e il “come” privi di soggetto. Bompiani passa, con un filo rosso e spesso, per Valery, Wittgenstein, Borges, Caproni, per la morte di un Calvino mai nominato, per Henry James e Stevenson, per Kafka e Novalis, per Leonora Carrington e Tasso, per quelle parole, di avventura, perdita, sovrapposizione e sfasamento che tutte ci hanno cullato nell’idea che non solo qualcosa sarebbe accaduto, ma che qualcuno sarebbe accaduto. Perché l’attesa, al contrario del presente, è lo spazio della vita, la stanza dei sentimenti, il pozzo delle condoglianze. Perché, nonostante nell’attesa il corpo sia deposto – come pure ha osservato Woolf – i fantasmi, gli spiriti, le parole si comportano come i corpi – negli spazi conchiusi si moltiplicano, vivono. L’attesa, come il desiderio, è uno dei luoghi in cui il pensiero batte più accanitamente contro i muri del linguaggio. L’attesa è l’intervallo, di tempo e spazio, tra il passato di quello che avrebbe potuto essere e il futuro di ciò che potrebbe. L’attesa non è il presente indicativo dello stare al mondo, ma l’imperfetto che è contemporaneamente un tempo e uno stato. Con l’abilità e la fede – fosse pure solo fede narrativa – di qualcuno a cui sia stato chiesto di aggiungere ai tarocchi una carta che da sola possa contenere la vocazione e la tensione di una vita, Bompiani aggiunge l’atteso. Montale d’altronde ha scritto L’attesa è lunga, e il mio sogno di te non è finito.
G. Bompiani, L’attesa, et al./ edizioni (2011), pp. 102, eu. 12.
a latere
In Chi non ha il suo Minotauro? di Marguerite Yourcenar, Teseo e Autolico sono in strada, come due giovanotti in strada, confabulano. Giunge Arianna. Teseo dice “Aspettavo te,” Arianna risponde “Non aspettavi me, aspettavi quella che doveva arrivare.” Per questo breve dialogo, letto molto prima di capire, quando solo mi sembrava divertente e sbruffone, scritto per il gusto mio di ripeterlo agli amici incontrati in giro, le mie attese sono pure presenti. E le mie rappresentazioni narrative non si quietano davanti all’ospite né davanti all’atteso. L’atteso e l’ospite si scambiano, si perdono, si ritrovano. Stanno. Per questo motivo il mio senso di realtà è perduto e le mie attese sono sempre affollate. Spesso affollate dalle rappresentazioni distopiche, sfasate, iterate, della stessa cosa. (…) lo stato di attesa è (…) un imparare ad abitare la propria casa sopportandola: sia questa casa il sé o il mondo.
Chi è oggi un seduttore? (…) i seduttori sono diventati gli oggetti. Essi infatti hanno tutte le qualità necessarie: sono fermi, sono indolenti, non amano, non vogliono e sicuramente si annoiano. Per questo ispirano desideri immoderati. Oggi siamo tutti sedotti dagli oggetti e solo da loro. In loro speriamo perché ci cambino la vita, ci diano la felicità tanto sognata, ci siano fedeli e leali. Da loro vogliamo tutto. Proprio da loro, che non possono darci niente, perché non hanno niente, se non un gran silenzio, finché qualcosa come un palcoscenico non presta loro una voce. Come i seduttori. (G. Bompiani, Seduzione in Parola di donna, Ponte alle Grazie, 2011). Gli oggetti seducono ma non hanno abbandono. Qual è la differenza tra seduzione e abbandono, o qual è la differenza tra cosa e oggetto?
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Belli e insinuanti, il tema e il commento. Perché l’attesa è una categoria storicamente calunniata, stoltamente assimilata all’inerzia, al vuoto, al mutismo o alla pazienza. Al contrario è uno spazio dinamico, desiderante, fatto di aspettative o di terrore, insieme sogno e scongiuro, fantasia o maledizione. E’ un territorio paramitico, che ci proietta fuori dal tempo e dallo spazio, perché l’attesa, a seconda di ciò che aspetti, o temi, azzera il tempo e lo spazio, accelera il cuore o paralizza la mente. L’attesa coinvolge nel suo dominio il corpo e l’anima, darti gioia o malattia, senso di vita o infezione lentissima.
L’attesa è capace di occuparti anche quando non aspetti nulla, e ciò la rende un sentimento assoluto. E resistente al mercato, che tuttavia la presidia per funzionalizzarla al consumo dell’oggetto.
Anche per questo , da sempre, io mi sento arruolata sotto la bandiera attiva dell’attesa. Senza Godot, naturalmente.
Bello. Grazie.
Liz
La citazione dell’incipit dell’articolo è suadente e interessante, che se per me l’attesa forse è qualcosa di diverso. Ma io soffro d’ansia, quindi non conta.