Note per un diario parigino
da Chiunque cerca chiunque
di
Francesco Forlani
Dodicesimo capitolo
Atmosphère, atmosphère
Succede ogni volta che salgo le scalette del Ponte che si apre un varco fra una sponda e l’altra del canale, e mica un ponte qualsiasi, ennò, proprio quello da cui si vede in controluce l’insegna dell’Hôtel du Nord, e tra il fogliame degli alberi che ne oscurano la vista, senti la voce, o così ti pare, dell’attrice francese per eccellenza, così potente, la voce, di lei che è minuta nel corpo com’è tradizione delle donne che alla vita hanno strappato a morsi pochi attimi di felicità, affamate di consapevolezza del modo di fare poesia che ha la vita, con il tempo che passa, che scorre, scorre, perfino quando l’acqua ti sembra ferma, immobile come quella del canale in cui ti specchi salendo le scale della passerella. Edith Piaf, penserete voi – je ne pense jamais, ripeteva Maigret- ma in realtà è Arletty la voce che vedi tra quelle stesse ringhiere di ferro battuto. Sì, è lei che urla al mondo intero, all’homme che gli sta di fronte: –Atmosphère, atmosphère ! Est-ce que j’ai une gueule d’atmosphère ?
Philippe Schlienger è davvero una forza della natura. Si è presentato alla riunione della Bête étrangère con gli impaginati che gli erano stati attribuiti e sono uno spettacolo. Rimaniamo tutti a bocca aperta. Patrick Chevaleyre invece ha scritto un testo che racconta di un pugile, cioè che racconta dell’allenatore di un pugile che all’angolo lo sta ad incitare, e quello cade, si rialza e lui gli grida di andare, di alzare la guardia, di colpire difendersi, colpire sotto la cintura sopra, e quello cade e non si rialza e l’altro lo sta ad incitare imperterrito anche quando non c’è più niente da fare. Quando finisce di leggere abbiamo le lacrime agli occhi. Ci incontriamo sempre da Alix quando c’è da fare il timone della rivista, nella Rue André del Sarte, ai piedi di Montmartre, Metrò Barbès diciottesimo arrondissement. Gonzalo e Sabine arrivano poco dopo, che si mangia ma soprattutto si beve vino, tanto vino, mentre Tommaso Cascella e Matteo Basilè le loro pagine ce le hanno già mandate pronte per la pubblicazione. Da quando ci ha raggiunto Jean Noel Forrestier, ci sentiamo tutti in una botte di ferro. Ha diretto per anni gli studi creativi delle più importanti riviste di moda e solo perché gli piace la bête immonde, così la chiama, ci insegna il mestiere. L’altra volta per esempio che impazzivamo sui formati di alcune fotografie, che mal si accordavano con il resto delle illustrazioni, lui le ha prese, le due immagini e tenendole dritte davanti a sé, per vederle allo stesso formato e capire l’equilibrio sulla pagina , ha semplicemente allontanato quella più grande fino a che non apparisse all’occhio della stessa identica dimensione della più piccola. Mo può pure sembrare na strunzata ma a me quella cosa mi ha emozionato, perché per quanto semplice possa essere se non te lo dice qualcuno col cazzo che ci arrivi da solo.
E così con le pagine di Francis e a seguire quelle di Michel abbiamo praticamente tutto. Manca solo Massimo. Siamo tutti in ginocchio ad ammirare le doppie pagine sparse lungo tutta la casa di Alix. quando alzo lo sguardo incrocio il suo che piange. E le chiedo, perché diavolo piangi?
Lei si fa più vicino. Alix è belga, le labbra rosse, i lineamenti dolcissimi, e mi sussurra come per non farsi sentire dagli altri: perché da quando ho smesso di piangere per il dolore, dalla morte di mia madre, piango solo quando sono felice. Piango perché mi chiedo subito fino a quando durerà.
Le indico le pagine che stiamo mettendo su e le faccio: – con queste ipotechiamo ogni attimo. Poi magari ci si abbandonerà, qualcuno andrà via, però, credimi Alix, questo rimarrà, scritto nero su bianco ogni volta che apriremo la rivista ci ricorderemo di quanto eravamo invincibili e felici.
Siamo un’armata Brancaleone,- così ci aveva definiti Vinicio Capossela durante la turné nel Salento, organizzata da Don Pasta- ma questo lo sapevamo già dalla prima volta che ci siamo visti tutti all’Atmosphère, redazione al completo, trenta persone di nazionalità diverse, dai Balcani alle Americhe con situazionisti, di ogni risma e talento a fare da servizio di disordine e distribuzione di alcolici.
Adesso che avevamo pure i soldi per la stampa chi cazzo ci avrebbe fermati!
Con la maxi colletta, e una piccola donazione di Chantal ci mancavano solo cinquecento franchi. Solo, si fa per dire, perché se non hai niente, cinquecento o diecimila è lo stesso, e noi non avevamo veramente più niente. Ho sentito, però a un certo punto, che qualcosa doveva succedere per forza – eravamo alla libreria di Aurelian Alizadeh sui Grands Boulevars, l’équipement de la pensée– ed ecco che mi guardo nelle tasche e mi trovo una moneta da cinque franchi. Di fronte c’è il Bureau de Tabac e chiedo a Patrick e Claudie come si fa per giocare a gratta e vinci. Non tanto a grattare ma come per vincere.
– Mais, enfin! dice Patrick che tutte le volte che me ne uscivo con qualcosa di stravagante lasciava che il suo lato cartesiano insorgesse con una voce profonda e grave. Questo durava pochi attimi, perché, un attimo dopo, l’anima spinoziana di Patrick sorpassava a sinistra quella del povero Descartes e non lo fermava più nessuno. Prendiamo così una cartella, quella del calcio, che bisogna grattare sulle maglie dei calciatori e se ti escono gli stessi numeri tre volte vinci. Ora lo so che non accade quasi mai però, diamine, che soddisfazione quando succede che la fortuna invece di mostrarti il culo con su la scritta ma allora sei proprio pirla! ti fa l’occhiolino e sussurra, vabbè mo e ci aveva esauditi che nessuno ci credeva. 5OO, da pagare sull’unghia. E non ce ne fregava una mazza che avessimo vinto solo cinquecento franchi. Solo ? Un cazzo, dico io perché se non hai niente, e ti servono cinquecento franchi che non ne vinci diecimila, manco ci pensi.A chacun à sa faim!
Camminiamo per i Boulevards che man mano che ci si avvicina a Republique ne incrociamo altri, da soli o in coppia, della banda e quando finalmente arriviamo da Souad – algerina, ogni volta che le chiedo cosa significhi Souad nella sua lingua, lei mi risponde, heureuse, chanceuse– all’Atmosphère, sul Canal St Martin, è tutto un suonare, cantare, prendersi per mano, tra le braccia. Franck caccia la fisarmonica dalla custodia ed è un trepidare di bicchieri. C’è Christophe di Marsiglia che con Roch saltano sul bancone e improvvisano una sorta di danza.
Akosh, ungherese, sopraggiunge poco dopo e si mette a suonare il sax con Franck. Esteban canta, e lo fa con una tale convinzione che di colpo ci sta bene pure se non c’entra niente con il resto. Teresa, portoghese – è lei che mi ha fatto scoprire Lobo Antunes- prende Souad e la fa ballare sotto gli occhi della sorella primogenita Malika. La piccola Souad, come una regina berbera, Fatma Tazuggaght, che nel locale c’è un manifesto in bella vista, e Souad piccola, dagli occhi neri di stella, e un sorriso grande quanto il Mediterraneo mi dice sempre, ogni volta che la vedo al di sopra del bancone, delle birre, dei legni che suonano, scricchiolano insieme ai vetri e sembra sorridere anche lei, rossa, digne, ni putes ni soumises – Tu vois, c’était que des femmes qui régissaient le destin de tout le monde, e io le ribatto, cazzo Souad come qui, no?, come ici chez toi, e lei mi bacia sulle labbra anche se è la donna che è con me che lei vorrebbe baciare e si limita a toccarle il culo quando ci passa accanto per portare da bere al tavolo che reclama alcol e risa. Femmine di bellezza disinvolta, mica con le facce incarognite e sguardi che sembrano forbici pronte a tagliare ogni cosa penzoli tra le cosce della più selvaggia umanità affacciata sul canale. Anche ora, in questa notte d’estate che le cabine telefoniche brillano ancora di raggi di sole che con un martellamento continuo si sono abbattuti su ogni centimetro quadro, e la gente, tanta gente lungo la vita che scorre e pare immobile, forse perché vorresti fermarla in quel fotogramma, se ne sta chi seduto chi in piedi in mezzo alle chiuse che sputano i canauxrama di passaggio e diretti alla Villette. Dai bateaux i passeggeri sparano fotografie all’altezza di Stalingrad, e ai suoi giardini, ed è in questo preciso momento che mi dico che potrei morire anche adesso, mo proprio ma mi abbandona subito il pensiero ed è una fortuna perché poco dopo Roch insieme ad altri si lancia vestito in acqua per uscirne subito dopo come un cadavere pronto per una nuova inchiesta di Maigret che dal Quai des Orfèvres, qui c’era venuto a risolvere il caso dell’uomo senza testa.
Ed è al commissariato che passiamo la notte. Noi fuori e Patrick dentro. Una notte intera perché qualcuno aveva chiamato gli sbirri per protestare contro il baccano notturno, per disturbo della quiete pubblica e che quando questi si erano visti una Pompei in pieno decimo arrondissement, non ci potevano mica credere ai propri occhi. Sicuramente alle due passate del mattino, fuori tempo massimo per la chiusura, il pavimento dell’Atmosphère giaceva completamente ricoperto di fango – a un certo punto Christophe aveva cominciato a fare gavettoni da dietro al bancone e al di qua armati i secchielli si era risposto al fuoco amico – e di fronte all’ordine perentorio di couper la musique al minimo e cacciare tutti i documenti lui di tutta risposta aveva infierito contro le due uniformi farfugliando in un incerto italiano pagherete tutto, pagherete caro! che gliel’aveva insegnata Maurizio Lazzarato, veneto, di Potere Operaio. Ma non aveva fatto in tempo a finire la frase che già le manette gli serravano i polsi fino a lasciargli sulla carne bianca dei solchi di rossore.
Tenendoci a distanza lo avevamo seguito fin quasi dentro al commissariato. E gli dicevo, in italiano per non farmi capire, cazzo Patrick, non mollare, rialzati, gli gridavo di andare, di alzare la guardia, di colpire difendersi, colpire sotto la cintura sopra. A lungo.
Quando torno a casa è l’alba. Massimo si è appena alzato e questa volta prepara lui il caffè. Mi chiede com’è andata. Io gli sto per raccontare tutto, quando nel campo visivo che le finestre piccole del sottotetto ci offrono sul mondo, vediamo apparire la nostra vicina americana che prima ci scorge e poi alza la mano per farci un cenno. Massimo rimane come incantato da quella visione, dal chiarore della pelle, dal piccolo seno ribelle che si sporge verso di noi. Poi va di là e torna con quattro fogli dattiloscritti. Sono riuscito a finirla stanotte. S’intitola Paso Doble, vedi se va.– aggiunge. Ora abbiamo veramente tutto per il nostro numero zero, penso io.
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I tours e détours nostalgici della memoria sono più interessanti (anche nel loro coté allegorico) di quelli delle promenades reali. Lo sapeva bene Cortazar. Ma per dare voce alla memoria bisogna inventarsi la solitudine, come sa bene Auster.
Grande Franzisko!
E grandemente abbinato con la sequenza di Arletty.
Bellissimo. Leggo l’esordio di Passo Doble. Le canal Saint- Martin con La rue des Rosiers era il mio luogo amato di Parigi, con frammenti di cinema nella memoria, acqua dormiente, fantasmi dell’amore. Mi piace nella scrittura forlanienne, l’incontro tra leggere nostalgia, saudade, e senso della festa: festa della vita per dominare l’inquietudine e l’esilio.
Forlani, purtroppo il video non aumenta le basse quotazioni del suo diario… un bel video però
Dinamo cosa vuole, è tempo di crisi
effeffe