La lunga estate dell’indignazione – Pierre Menard a Madrid
Era di maggio, a Madrid, tre mesi fa. L’origine è nota. Lo scenario principale anche: la Puerta del Sol, il km 0 del movimento 15M. L’accampamento improvvisato quella notte, che doveva mantenersi fino alle elezioni di una settimana dopo, ha messo in moto un rivolta gentile che né l’estate torrida e bianca, né le periodiche ondate repressive sono riuscite ad arrestare.
La manifestazione da cui è partito il movimento, convocata il 15 maggio in 50 città spagnole dalla piattaforma Democracia Real Ya e strutturatasi intorno alle reti sociali, aveva avuto una inaspettata partecipazione. Il corteo della capitale si apriva con uno striscione che chiariva le cause della protesta: “Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri”. “Non votarli”, uno degli slogan più diffusi, riassumeva la forte critica alla legge elettorale vigente, che condanna il paese al bipartitismo, e gran parte della popolazione a non sentirsi rappresentata dagli “eletti”.
Il successo della protesta non spiega però, da solo, l’evolversi della situazione, la successiva occupazione della piazza e la nascita del movimento. L’intervento della polizia, solerte nello sgombrare con i manganelli un sit-in pacifico nella vicina piazza del Callao, è stato l’autentico detonante, la chiamata a raccolta per i tanti che si apprestavano al rientro dopo una manifestazione riuscita. La notizia di 24 arresti, e le informazioni che si diffondevano in tempo reale, grazie alla struttura reticolare propria dell’appuntamento, producevano il presidio spontaneo a Puerta del Sol di un centinaio di persone, alle quali l’indomani se ne sarebbero aggiunte molte altre; affiancate, da allora, dalla Plaça Catalunya di Barcellona.
Quando la Junta Electoral Central, massima autorità sui diritti politici in periodo elettorale, ha dichiarato “illegali” gli accampamenti e le concentrazioni, questi si sono fatti ancora più partecipati e vivi. Il movimento raggiungeva in questo modo un’importante dimensione di disobbedienza civile di massa, ampiamente legittimata. Questo aspetto è stato particolarmente importante nel fine settimana del sabato 21 e domenica 22 maggio, giornata delle elezioni comunali e regionali. Secondo la legislazione spagnola è proibito manifestare alla vigilia delle elezioni. Tuttavia, il Ministero degli interni ha trovato il modo di giustificare il non intervento della polizia. Gli accampati hanno capito, quel giorno, che dietro ogni legge c’è una correlazione di forze che la sostiene, e senza la quale è carta straccia.
Potere alla parola
Esplode dunque “l’immensa conversazione”, l’atto sovrano immediato, il no che unisce; la sofferenza individuale, scriveva Camus, ha coscienza di essere collettiva, “è avventura di tutti”. “Mi ribello, dunque siamo”.
La parola rompe gli argini, evade dall’uso monopolistico degli esperti e dei mezzi di comunicazione ufficiali. Diventa bene comune, fiorisce in migliaia di cartelli, viaggia nelle testimonianze di chi partecipa e rimbalza nelle reti sociali, senza sosta. Celebra la sua liberazione nel rito rinnovato dell’assemblea.
Un dibattito ricorrente: Qualcuno sa a cosa servono le assemblee? Non sembrano in grado di prendere delle decisioni, e men che meno di metterle in pratica. Eppure sono molto affollate e animate, in generale c’è un livello alto di attenzione. Non funzionano come spazi di decisione, ma come luoghi dove circola la parola. Qualcuno mi dice: “Le assemblee sono inutili, ma molto belle”. Belle proprio perché inutili? Si chiede Amador Fernandez-Savater, attento e puntuale cantore del 15M.
Le assemblee del movimento, anche le più partecipate, si svolgono in un ordine sorprendente. Forse riflettono inconsciamente dinamiche figlie di un’educazione televisiva, nelle quali il senso di ciò che accade dipende dalla telecamera – accesa o spenta – o, in questo caso, dall’uso del microfono: il cui potere, nell’ambito dell’assemblea, è riconosciuto e rispettato. Il linguaggio gestuale che regola gli interventi dalla platea è condiviso, le eccezioni vocianti sono rare. I diversi ruoli finalizzati ad animare e moderare i dibattiti, seguono un rigoroso turn-over, che evita l’emergere di personalismi. Si combatte, con risultati alterni, l’egocentrismo e la logorrea dei partecipanti; gli interventi hanno tempi massimi uguali per tutti. È divertente vedere il noto intellettuale che, aspettando il suo turno, ascolta rassegnato e impaziente la casalinga che lo precede.
Le deliberazioni dell’assemblea non vengono votate, ma discusse finché non si raggiunge il consenso: cioè fino a quando nessuno tra i presenti si dichiara, incrociando i polsi davanti al viso, radicalmente contrario alla proposta in esame. Chi si oppone alle proposte deve presentare alternative finalizzate al consenso. Qualche volta, a furia di limare le asperità delle posizioni, i testi che vengono approvati somigliano ai programmi degli odiati partiti, o persino a leggi vigenti. Come se lo sforzo collettivo fosse lo stesso di Pierre Menard.
Ogni azione tende all’anonimato, che viene praticato e rivendicato con decisione. “La forza politica che sorge come forza dell’anonimato non può essere racchiusa nell’antico schema chiamato “nuovo movimento sociale” giacché niente ha a che vedere con le sue pratiche sempre prigioniere di un doppio linguaggio: difesa di un’identità, traduzione política della rivendicazione, denuncia della criminalizzazione in termini vittimisti”.
Il rispetto, il suono stesso della parola rispetto, ripetuta ossessivamente, è la colonna sonora dell’attività della piazza. La commissione che ne porta il nome – una specie di servizio d’ordine educato, almeno nelle ore diurne – è puntuale nel ricordarne la centralità e l’importanza. Nelle assemblee c’è un gesto che denuncia l’uso di un linguaggio non inclusivo negli interventi: di solito vi si ricorre per segnalare espressioni sessiste o esplicitamente machiste.
Piazza, bella piazza
Acampadasol ha riconquistato la piazza ad un uso pubblico, facendo di un punto di passaggio uno spazio democraticamente agito, abitato. Non più uno snodo del traffico automobilistico, o un punto d’approdo ferroviario al centro della città; non più lo scenario fotografico dei turisti in posa indicando il Km 0, o davanti alla brutta scultura dell’ Oso y el madroño. Ma cuore pulsante, civile, della metropoli. Agora ritrovata. Il movimento “ha dimostrato che la strada continua a essere uno spazio di costruzione di potere politico, nonostante il tentativo istituzionale di regolarla come spazio esclusivamente commerciale”.
Le elezioni sono passate, la prevedibile disfatta del PSOE si è puntualmente consumata, nella quasi totale indifferenza del movimento. Acampadasol è rimasta in piazza, fino a quando, quasi un mese dopo, ha deciso di diventare grande, di andare a vivere in altre piazze, in altri quartieri, nei comuni più piccoli. Mantenendo la Puerta del Sol e le altre piazze come una casa paterna, un luogo simbolico a cui tornare, regolarmente ma senza feticismi. “Ciò che vogliamo è che il mondo che già abbiamo aperto in ogni piazza si propaghi come un vento di libertà. Nelle piazze prese le parole tornano ad avere il loro autentico significato: dignità, ribellione, noi…e allora lo Stato dei Partiti ci si mostra come un guscio vuoto completamente delegittimato.”
Dialogando con la storia
L’ identità del movimento che comincia il processo di estensione è piuttosto vaga, più attenta al come (rispetto, assemblea, consenso, inclusione) che al cosa fare. L’allergia identitaria, la rottura con i simboli, le bandiere, le parole d’ordine dei movimenti precedenti – lo scontro con le femministe agli inizi di Acampadasol, ha fatto emergere questo aspetto in maniera dirompente – sono rivendicati come carattere genetico del 15M. È ancora Fernández-Savater, a cercare di definire l’indefinibile: “Qualcosa di invulnerabile, intangibile, senza fronte né retroguardia… Senza comando, né quartier generale, né identità finita (antisistema, sinistra…). Niente che si possa catturare, smantellare, occupare, segnalare. Come dice Anonymous nei suoi comunicati, siamo tutti e stiamo dovunque”.
La virtù più evidente del movimento è compresa in questa indeterminatezza, che permette di contenere discorsi di tutti i tipi, e di accogliere disagi di origine diversa, con una forte componente emozionale e un innegabile accento populista. Il rischio è che questa virtù sia anche il limite più consistente del 15M, quello che potrebbe deciderne gli esiti. L’ampliazione illimitata delle sue rivendicazioni potrebbe renderle tanto condivisibili quanto vuote.
Al di là della propaganda generata dagli apparati di polizia, dai politici e dai mezzi di comunicazione sugli antisistema, ciò che è certo è che, frequentemente e al di là delle retoriche, questi lo sono più per le loro diagnosi che per le soluzioni che propongono.
Sebbene se ne dichiari esplicitamente l’assoluta novità, la rottura radicale con tutti i movimenti che l’hanno preceduto, in realtà, il movimento dialoga con la storia più di quanto la vulgata che lo accompagna sia disposta ad ammettere. In un articolo che analizza in modo molto attento il discorso del e sul 15M, attraverso la lettura dei numerosi libri che se ne occupano – almeno una decina a due mesi dalla “discesa in campo” degli indignados –, lo storico Xavier Domènech sottolinea da un lato il ruolo centrale, non semplicemente strumentale, della rete, e dall’altro rileva: “Nuove reti che danno libertà e nelle quali, nonostante tutte le rotture prodotte, quelli che fluiscono sono paradossalmente immaginari che sembravano già dimenticati. […] certamente quella che è tornata è la parola popolo, e non “moltitudine”, i soggetti forti e non quelli deboli (“el pueblo unido jamás será vencido”), la “democrazia reale” o la “rivoluzione”. Cioè, tutte quelle parole che neanche la stessa sinistra radicale osava più pronunciare, e ancor meno quella che si pretende (post)moderna o figlia di tutte le rotture. […] In certe occasioni, una parte degli attivisti […] dimentica che la tradizione è qualcosa di vivo. Qualcosa che può attivare la sua carica di cambiamento in ogni nuovo presente, ogni volta che sente che la si sta violentando. In questo caso, ciò che si percepisce come violentata non è altra cosa che la democrazia. E ciò che si solleva non è altra cosa che la sua proclamazione, in tutta la sua ampiezza e in tutti i suoi significati”.
L’inizio dell’onda
Il merito dell’analisi di Domènech è soprattutto quello di ricontestualizzare il movimento, riconoscendo in primo luogo che il consenso raggiunto non “sarebbe stato possibile senza la crisi, senza la sua gestione reazionaria e senza la difesa di un’agenda definita dal capitale, tanto da parte della destra che della sinistra al governo. In questo senso, e nella misura in cui mette in dubbio che le istituzioni siano rappresentative della popolazione e indica le cause della crisi, il movimento 15M si situa al centro, e praticamente come portavoce unico, dello scontento sociale. Nessun altro movimento che abbia messo in discussione il funzionamento della democrazia ha raggiunto i livelli di appoggio –in alcuni momenti prossimi al 70% e al 80% della popolazione – che ha avuto il 15M”.
Il percorso del movimento fa emergere al suo interno due anime che, anonimamente e pacificamente, se ne disputano l’egemonia: coloro che rivendicano un cambiamento “nel sistema”, e quanti vogliono un cambiamento “di sistema”. Questa compresenza appare chiara dalle ambiguità presenti in uno degli slogan di maggior successo: “Nessuno ci rappresenta”. “In questa frase rientrano due significati: che il sistema ha una crisi di rappresentazione, o che il sistema non ci può rappresentare”. Tutte le istanze del 15M, “prospettano soluzioni progressiste della crisi, giacché pretendono di stringere i vincoli tra il sistema rappresentativo e la popolazione, cercando così di rendere impossibile l’influenza degli interessi economici nella direzione delle nostre vite. Tuttavia, di fronte a queste proposte che animano il movimento, sorge di nuovo la domanda chiave posta nel geniale testo di David Fernández in Les veus de les places: “quanta democrazia regge il capitalismo?” Cioè, nella situazione attuale, il riformismo è possibilismo?”
Il movimento 15M ha comportato una irruzione di intesità proporzionale a quella delle varie delusioni e frustrazioni precedenti alla sua genesi. E quando si sono cercate le parole per descriverlo sembrava che poche lo potessero contenere: “rivoluzione”, “entrare nella storia”, “scrivere la storia”. […] Dopo tutto la forza del movimento vive anche della sua fiducia e dell’ottimismo che si trasforma in coraggio. Ma, senza perdere di vista questo, è imprescindibile mantenere un certo senso della realtà, se non si vuole che questa forza termini nella deriva della frustrazione quando non si vedano chiari gli sbocchi. E la realtà è che stiamo vivendo non una rivoluzione, ma il contesto della più grande reazione, questa sì, della storia recente del nostro paese, e che se c’è qualche speranza, verrà solamente dal tipo di movimenti che abbiamo vissuto finora. È necessario prendersi cura della speranza e non soltanto estasiarsene. Lo stesso movimento deve poter non restare incastrato nelle sue metafore, né in codificazioni e principi stabiliti in troppo poco tempo.
In qualche modo, il testo di Domènech serve anche a rivedere la cronologia degli eventi, a “disintossicarla”, rallentando l’orologio della storia insorgente per riportare il movimento all’inizio dell’onda. “Quel che è accaduto in Spagna nel maggio 2011, quel che accade ogni giorno in Grecia è solo l’inizio di un’onda che si espande e inevitabilmente si radicalizzerà”.
La “Reconquista” religiosa
Le curiose coincidenze del calendario hanno offerto una ghiotta occasione di normalizzazione della capitale ai governi nazionale, regionale e municipale, dimostrando la perfetta sintonia di PP e PSOE di fronte all’autorità ecclesiastica (“con la iglesia hemos topado…”).
Già dal 2 Agosto, in preparazione della Giornata mondiale della gioventù cattolica, la polizia ha ripulito a modo suo la Puerta del sol, liberando la piazza da ciò che restava dell’accampamento di maggio, tanto di concreto – il punto di informazione – come di simbolico – la targa “dormíamos, despertamos” apposta al termine di acampadasol, e prosaicamente buttata via dalle forze dell’ordine.
Quella stessa sera, il movimento, autoconvocato, tornava nella piazza presidiata dalla polizia. “Eravamo moltissimi, più di quanti nessun calcolo aveva potuto anticipare. La prima idea era “riconquistare” la piazza, ma si trattava di un obiettivo impossibile. La relazione di forze ci era chiaramente sfavorevole. Per un bel po’ siamo stati lì fermi, facendo rumore davanti ai cordoni che la polizia aveva piazzato davanti a ognuna delle nove arterie della piazza. Che fare…[…] Anziché far fronte, diamo le spalle. Un lieve giro e, oplà, Madrid intera è nostra. Cominciamo a circolare: prima a Callao, ma poi anche la Gran Vía, la calle Alcalá, il Paseo del Prado, Atocha, assemblea moltitudinaria nella Plaza Mayor a mezzanotte…” Mentre si evita lo scontro frontale con la polizia, il conflitto si espande per la città.
È cominciato così, con una premessa scarsamente ecumenica, l’incontro dei giovani cattolici con una città inquieta, problematica, diversamente accogliente.
Nei giorni precedenti le GMG, il movimento aveva discusso sulla posizione da adottare, con sensibilità e proposte spesso sorprendenti, votate ancora una volta all’inclusione. “Potrebbe il 15M autoconvocarsi per organizzare, in strada, questi giorni, una dimostrazione di democrazia che inviti i visitanti GMG a prendere la parola? Potrebbe il 15M regalare alle GMG un’esperienza di orizzontalità e rispetto? Non per fare un blocco contro blocco ma per demolire gli stereotipi che altri/e ci applicano (perroflautas) e che applichiamo ad altri/e (papaflautas)”. Pur senza consenso “ufficiale” del movimento, c’è stata anche la convocazione di un’assemblea di dialogo GMG+15M.
L’incontro vero e proprio, avverrà in occasione della manifestazione per lo stato laico, e contro la spesa pubblica per finanziare la GMG. “Per preparare la sua visita, Ratzinger mandò i Jungen Katholiken a prendere la Puerta del Sol. […] Alcuni di questi giovani cattolici, dopo essere usciti dal MacDonalds della calle Arenal, hanno tentato di impedire che la marcia laica entrasse a Sol. Ma gli indignados avevano imparato la strada.
[…] Da parte del Vaticano – e del nazional-cattolicesimo spagnolo – si proverà a sollevare la Reconquista religiosa dalla capitale del regno. Il 15M, di contro, continuerà a reclamare una democrazia che meriti quel nome, e che è incompatibile con il regno oscuro che significa la concezione oscurantista, autoritaria e reazionaria del Vaticano. La destra ha ben chiara la sua scommessa. La carica della polizia nella Puerta del Sol fa pensare che il governo continui a sbandare. Se la socialdemocrazia, disorientata da quando ha accettato la terza via, perde la bandiera del laicismo, cosa le resta?”
L’azione della polizia nei giorni delle GMG, che ha colpito tanto manifestanti laici come giornalisti o semplici passanti privi dei lasciapassare cattolici, sono state riprese e fotografate da tanti, e hanno circolato ampiamente nella rete, consolidando i canali della controinformazione orizzontale.
L’uso reazionario che è stato fatto delle GMG, ha posto il movimento davanti al pericolo concreto di entrare nella stada senza uscita della dinamica repressione/reazione/repressione, che è stata la tomba di molti movimenti del passato, anche recente. Per ora, grazie anche a quel “senso comune” spesso limitante, il rischio è stato evitato.
Oltre il confine
Il 25 Agosto il presidente del governo ha proposto al parlamento una riforma urgente della costituzione per fissare un tetto al deficit e alla spesa pubblica.
La proposta appare un atto di mero servilismo verso le istituzioni finanziarie europee, visto che il debito pubblico spagnolo non è eccessivo, e il vero problema è il debito privato; che potrebbe aumentare con la riduzione dei servizi e beni pubblici che la misura prevedibilmente può provocare.
La decisione del governo, appoggiato anche dal PP, riduce notevolmente la sovranità economica del paese, e pone un problema di legittimità democratica al voler imporre, dall’alto, una riforma costituzionale. L’unico precedente, datato 1992, estendeva agli stranieri residenti in Spagna il diritto di voto nelle elezioni municipali.
Si è aperto un fronte di opposizione ampio, che va dai sindacati ai partiti minoritari, ma che non sembra in grado di far sottopporre a referendum la proposta di riforma. La mobilitazione nella rete è specialmente forte, e l’iniziativa #yoquierovotar ha raccolto in pochi giorni più di 80.000 firme.
Il 15M è parte attiva nell’opposizione alla riforma, e forse questa battaglia permetterà di articolare ulteriormente ciò che è già cominciato con l’estensione di Acampadasol ai quartieri, cioè l’incontro tra le istanze del movimento e i luoghi di militanza preesistenti, compresi i sindacati confederali, che cominciano, timidamente, ad avvertirne il bisogno.
Dormíamos, despertamos
Anche se non è in corso una rivoluzione, quella del 15M è una storia che “merita di essere raccontata perché insinua l’inammissibile nella normatività quotidiana”.
In una società postmoderna che pretende di annichilire la politica; in una società liquida che usa, consuma ed espelle; in una società nevroticamente individualista, dove l’ego si impone, o in una società ipercontrollata che tutto impedisce, il 15M continua ad essere un fattore di speranza. “Se non ci lasciate sognare non vi lasceremo dormire”, “Per una transizione… alla democrazia”. L’impossibile è successo. A Madrid, a Barcellona, in migliaia di piazze. I meccanismi di obbedienza dovuta, di sottomissione acritica, di servilismo volontario, si sono disattivati.
L’autunno si preannuncia vivace. Meglio stare svegli.
Spero che i meccanismi di obbedienza dovuta e di sottomissione acritica e di servilismo volontario, dopo essersi disattivati per breve tempo, saltino in aria definitivamente, o sarà l’intera specie umana a saltare in aria, il problema che tutti i servi di dio di questo mondo non vedono.