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Chat Noir

Ninna nanna
di
Mirfet Piccolo
Era sabato pomeriggio dopo la scuola. C’era la pasta in bianco che la mamma mi avevo lasciato sul tavolo nudo della cucina facendo attenzione ad andarsene in fretta; nei suoi movimenti assenti lei mi diceva, io già conosco la fine della storia. C’era una michetta secca e una mela gialla, e c’era il suono di una sirena.
Ho impugnato la forchetta. Quel sabato pomeriggio dopo la scuola ho mangiato solo due bocconi inquieti. Nello zaino gettato a terra c’era il compito in classe di matematica, e la voce del professore che diceva, la tua di non riuscire è solo ostinazione. C’ero io che ho pensato che i conti di una vita non tornano mai, e ti ho aspettato.
La domenica che mi hai portata in cima al Duomo di Milano io avevo nove anni, perdevo il mio primo sangue dalle gambe e tu non lo sapevi. Sono scesa al capolinea del tram e tu eri lì, con il tuo passo deciso camminavi a testa alta e con gli occhi che guardavano lontano. Io non ti ho detto che ero felice e che mi facevi paura; ti ho detto, ciao, e con la mia mano ho levato il tuo bacio dalla mia guancia.
Hai detto, adesso mia figlia ha nove anni, e io ti ho detto, dieci, anche se non era vero. Mi hai dato una pacca sul sedere, hai il culo africano come quello di tuo padre, hai detto, e ti ho odiato perché avevo quella cosa che impicciava tra le mie gambe. Guarda che bella che è diventata mia figlia, hai detto, e io sapevo che non era vero. Ero grassa e disarmonica, i capelli ricci e tosati per scacciare i pidocchi che si ostinavano a fare casa nella mia testa. A scuola i miei compagni mi chiamavano barbona negra; un sacchetto di plastica era la mia cartella e un elastico il mio astuccio, e io non avevo niente con cui difendermi. Ma magari da grande lo sarei diventata, bella, e tu non ci saresti stato e io avrei tirato fuori quelle parole dalle mie tasche sbaragliate e allora sarebbero state vere, e anche tu lo saresti stato, almeno per un poco, almeno nello spazio di un riflesso.
Mi hai portata in cima al Duomo e hai puntato il dito lontano, ecco Milano, hai detto, Milàn la gran Milàn. E io per la prima volta ho guardato dall’alto la città dove tu avevi deciso, una notte, che la fuga mia e della mamma dovesse giungere a un termine. Ho guardato dall’alto la città dove ci avevi scoperte nel nostro sonno attento e freddo tra gli angoli duri della stazione centrale; la mamma stringeva tra i seni il suo lascia passare ingiallito di eterna profuga, e io cercavo calore tra le mammelle magre di un pastore tedesco di nome Laila. Ci hai svegliate dal nostro sonno povero, tu dove credi di andare con mia figlia, hai detto, e la mamma mi ha guardata con gli occhi arresi e stanchi di chi chiede perdono. Ci trovavi sempre, tu.

Quella domenica, tra le guglie serie del Duomo di Milano mi hai detto, ormai sei grande ed è bene che tu sappia di cosa si stratta, e delle droghe mi hai elencato nomi e informata sui costi al grammo e al chilo, mi hai raccontato di dolci salite e di discese d’angoscia e gelo. Mi hai detto a quali non avvicinarmi; invece sei vuoi questa chiedila a me che io ho sempre la migliore, mi hai detto, però se stai lontana da tutto è meglio.
A terra, mi hai comprato un gelato e ci siamo seduti sul sagrato e tra i piccioni. Mi hai chiesto, come sta tua madre, e io ti ho detto, il solito, e tu hai detto, tua madre, e poi non hai detto più nulla, e a me è sembrata una condanna.
Uomini in divisa facevano la guardia alla città della madonna d’oro. Erano tanti, e io leccavo il mio gelato e li guardavo. Non ti preoccupare, mi hai detto, loro sono i miei migliori clienti.

Poi la domenica delle guglie è finita, e tu hai insistito per salire sul tram con me, per riaccompagnarmi. Come vuoi, ti ho detto, e mentre salivo sul tram con la coda dell’occhio controllavo che tu fossi ancora lì, che i passi che sentivo dietro di me fossero i tuoi. Ho timbrato il mio biglietto. E tu, ti ho chiesto. Io cosa. Tu il biglietto, ho detto io. I mezzi sono pubblici quindi perché dovrei pagarli, hai risposto, e poi io sono un anarchico individualista. Quante fermate sono, mi hai domandato, diciassette, ti ho detto io. Ho contato quattro fermate, alla quinta sei sceso, dal finestrino aperto hai detto, se qualcuno si avvicina a te fagli vedere di chi sei figlia.

La mamma mi diceva che ero fortunata perché non portavo il tuo cognome. Quello di tuo padre è un cognome sporco, diceva, senza vivrai più tranquilla. Fidati, mi diceva. Tu devi parlare bene l’italiano così sarai integrata, mi diceva, che te ne frega a te dell’altra lingua. Fidati.

Il sabato pomeriggio che ti ho aspettato non mi sono lavata i capelli per non rischiare di farmi trovare impreparata al momento del tuo arrivo. Da qualche mese avevi iniziato a chiamare spesso a casa; parlavi con la mamma per ore e io passando arrabbiata vicina alla cornetta la sentivo che diceva, cosa vuoi è la volontà di Dio, e mi chiedevo perché mai la volontà di Dio dovesse valere più della nostra.
Poi un giorno hai chiesto di parlare con me e mi hai detto, sabato ti porto in giro tutto il pomeriggio e poi a cena. E io ti ho deriso, figurati se hai soldi. Vedrai che i soldi per mia figlia li trovo, mi hai risposto, ho certi crediti da riscuotere. E tu non mi hai sentito allentare la presa della cornetta e abbassare lo sguardo, sorriderti. Perché erano trascorsi anni da quella domenica sul Duomo e io non volevo dartela vinta. Quel pomeriggio, di sabato, dopo la scuola e dopo pranzo, mi sono asciugata in fretta il corpo dall’acqua della doccia. Ho acceso la radio. La canzone di P.J. Harvey stava per finire, e io ho alzato il volume per sentire meglio almeno le ultime note della sua voce.

A casa la mamma era solita scolpire la tua assenza sbattendo coperchi che nulla avevano da coprire e colpendo porte troppo storte per chiudersi, allora io uscivo a cercarti. Da Porta Venezia e lungo Corso Buenos Aires e dintorni sentivo il tuo profumo, sentivo il suono della tua lingua.
A chi mi fermava e chiedeva come facevo a non conoscere la lingua di mio padre, rispondevo con un’alzata di spalle perché sentivo che la risposta che avevo non era quella giusta, non abbastanza. La lingua di tuo padre. Come se quella lingua appartenesse solo a te e non anche alla mamma e a un popolo intero. Perché tua madre non te l’ha insegnata, domandavano. Tu parli solo la lingua dell’italiano, dicevano, e questo è molto male. A chi mi fermava e diceva, tu sei sua figlia, io domandavo, la figlia di chi. La figlia di Gatto Nero. E si vedeva che per te avevano rispetto, o timore, perché a me che ero tua figlia facevano strada, mi stringevano la mano anche se era solo la mano di una bambina. E io t’immaginavo lì, nascosto da qualche parte, ad osservarmi, a controllare che ognuno dei miei passi fosse al sicuro. Pensavo che a furia di girare per la città prima o poi ti avrei trovato, ma se ti avessi trovato avrei certamente detto, che coincidenza sono qui per caso.

Nero eri nero, mi hai spiegato un giorno. Gatto perché i gatti hanno sette vite. Non mi hai mai detto a che numero eri arrivato con le tue vite, e io non te l’ho mai chiesto. Il tuo nome invece l’ho scelto io, mi hai detto, è il nome di una Regina, e io non ti ho mai chiesto di quale paese e che genere di vita fosse la sua.

Il giorno che la mamma ti ha detto che era incinta di me tu non le hai parlato per due giorni. La mamma mi ha raccontato che per due giorni e due notti sei andato tra le strade dell’ennesima città di scalo. Il terzo giorno sei tornato a casa con una donna alta e dalla pelle bianca; alla mamma hai detto, cosa vuoi questa è solo una donnina non è mica la madre della creatura, e con questa donnina ti sei chiuso in camera da letto. La mamma si è fatta piccina in cucina, con la testa china sul tavolo si è ubriacata di vino da cartone e di lacrime.
Per anni questa è stata la mia unica fotografia di te, l’ho costruita pezzo per pezzo ogni volta che la mamma sbatteva una porta o un coperchio. Un pezzo alla volta, ho cercato liberarla dai frantumi di quella sua e nostra vita.

I bambini della colonia non mi piacevano perché urlavano e piangevano sempre, e la signorina che dopo il rosario mi aveva detto, bambina tu odori troppo di negra, aveva gli occhi ispidi e la voce arida e rotta. Ma quell’estate che sei comparso sotto il portico tu hai fatto una magia e li hai mandati via tutti. Eravamo solo io e te e il silenzio. Il lavandino sotto il portico era di quelli a vasca larga e lunga, un lavandino da bucato. Così largo e lungo che io ci potevo entrare dentro e giocare. Papà mettimi dentro, papà mettimi dentro, e tu lo hai fatto, e io mi ci sono distesa e ho chiuso gli occhi. E quando li ho riaperti tu eri ancora lì, che sorridevi e dicevi, come sta la mia mummia che dorme. Abbiamo riso. Tu mi hai tirata fuori. Ora ti devi lavare le mani, mi hai detto, perché prima di mangiare bisogna sempre lavarsi le mani. Hai aperto il rubinetto e sotto l’acqua fredda io ho subito sfregato le mie mani aperte e tese l’una contro l’altra. Non così, mi hai detto, e hai preso la saponetta tra le mani. Si fa così, mi hai detto, le mani devono entrare una dentro l’altra, devono prendersi e accarezzarsi col sapone senza lasciarsi mai. È come una danza, mi hai detto. Ho guardato le tue mani grosse e nere, i palmi così chiari e consumati. Sono le mani di un africano di Keren, hai detto. Mi hai passato la saponetta, ora fallo tu, e io ho preso le miei mani e le ho accarezzate, con l’acqua e il sapone dentro e fuori e tutt’attorno. Avevo sette anni e le mie mani si rincorrevano in una danza e si trovavano sempre senza essersi mai lasciate.

Poi ho spento la radio, quel sabato pomeriggio dopo la scuola, perché alla mamma dava fastidio ogni suono capace di distoglierla da quell’odio triste che conosceva così bene. Odiava il suo amore per te.
Chiusa nell’asciugamano ho risposto al telefono, ma non eri tu. Io e Massimo facevamo sesso sul letto di suo padre vedovo con dei preservativi al vago sapore di fragola; avevo quindici anni e sapevo che anche lui era un fatto temporaneo. Cosa fai oggi, mi ha chiesto. Niente, ho risposto. Ma è sabato pomeriggio, ha detto. Lo so. Allora ci vediamo. Non posso, ho da fare. Da fare cosa. Ho da fare e basta, te l’ho già detto. Io non ti capisco. Nessuno te lo chiede. Tanto io lo so che mi vuoi bene. Ti daranno il Nobel per tutte le cose che sai. Dimmelo. Cosa. Che mi vuoi bene, dimmelo.

Un giorno sei passato per caso nei paraggi miei e della mamma e per caso ci hai citofonato e detto, sono io, come se tu fossi sempre stato con noi e ti fossi assentato solo un attimo per andare a comprare il latte o le sigarette. Sono io. È papà, ho detto alla mamma. È tuo padre, mi ha rigettato lei. Ti ho aperto e ho sentito l’ascensore pieno di te atterrare al nostro piano. E tua madre dov’è, hai domandato. Perché la mamma se ne era andata, dietro la porta della cucina era scomparsa tra le pentole. Poi però è uscita dalla porta e dalle pentole e ha detto il tuo nome. Solo il tuo nome; senza punti di domanda né punti esclamativi, ha dato un nome alla tua assenza. Cosa si mangia, hai domandato. Allora io ho guardato la mamma e ho ripetuto, cosa si mangia.
Quel giorno la mamma è andata dal panettiere sotto casa e a credito si è fatta dare le lasagne e il latte; quando è tornata, io sono andata dalla vicina di casa e le ho chiesto di farci il favore di una scatola di pelati. Tu in sala ti eri tolto le scarpe e disteso sul divano guardavi la TV. La mamma mi diceva quando versare un goccio di latte perché la besciamella non fosse né troppo densa né troppo liquida: fai attenzione a non farla impazzire, diceva. E come si vede quando è pazza, le ho chiesto; lo vedi e basta. Accovacciata e pronta a scattare, guardavo la lasagna in forno. È lenta, ho pensato, è troppo lenta per lui, e correvo in sala a vedere se eri ancora lì, se la fiammella del forno stava bruciando via anche il tuo tempo.
Ti sei addormentato. Io ho apparecchiato la tavola in sala, con la tovaglia bianca e i tovaglioli di stoffa, perché volevo che al tuo risveglio pensassi che quello fosse un bel posto in cui stare, il tuo, che non ti eri sbagliato. Hai mangiato con noi. La mamma guardava dentro al suo piatto. Alla TV c’era la fotografia di una nave che di nome faceva Achille, e c’era un uomo del tg che parlava di sequestro e di terroristi. Ora sì che tua madre ha imparato a cucinare bene, hai detto guardando la TV, quasi che quello fosse il nocciolo della questione. Sì, ti ho detto, ora cucina benissimo.
Poi hai detto solo, ora devo andare, e ti sei alzato. Ti ho seguito, ho aspettato con te l’arrivo dell’ascensore. Hai tossito. Anche io ho avuto l’influenza, ho detto, anche se non era vero che l’avevo avuta, e ho alzato il mio sguardo in cerca del tuo, ma tu guardavi solo la porta di ferro ancora vuota. E non ti ho chiesto, quando torni, perché non volevo che mi mentissi. Con l’orecchio alla porta di ferro ho sentito il tuo corpo che scendeva, la tosse che si allontanava.

La prima volta che la polizia mi ha fermata e chiesto i documenti è stato al Parco Sempione. Avevo tredici anni, portavo sempre i capelli corti ed era tanto che tu non c’eri, da quella domenica sulle guglie. Un giorno mi avevi detto, se ti fermano non dire mai il tuo vero nome. Quel giorno al Parco Sempione l’uomo in divisa mi ha guardata, allora dimmi il tuo nome, mi ha chiesto, e io gli ho risposto con il primo nome venutomi in mente, ed era il mio. E poi, ha domandato. E poi cosa. E poi il tuo cognome che sei già sulla brutta strada. Gli ho detto il mio cognome, quello per stare tranquilla. Non ti muovere, mi ha detto. È andato dal suo collega e a bassa voce hanno parlato. L’uomo in divisa è tornato da me, e tuo padre, mi ha domandato. Io non ce l’ho un padre, ho risposto. Tu ce l’hai anche se non porti il suo cognome. Ho pensato che magari tu eri lì in giro, tra gli alberi del parco; papà non uscire, ho pensato, non ora, e infatti non sei uscito. Dì a tuo padre che siamo passati, ha detto l’uomo in divisa. Allora ho pensato che se ti stavano cercando al parco, era perché sapevano che saresti passato di lì, e quando loro se ne sono andati io non ho l’ho fatto; mi sono seduta e con un pezzo di legno ho scavato cerchi nella terra umida.

Dopo scuola, sabato pomeriggio, ti ho aspettato. Un paio di pantaloni bianchi e la camicia a quadrettoni blu erano i miei capi migliori. Ho messo le mie Clark marroni comprate a diecimila Lire al mercato. Ho aperto I fratelli Karamazov che stavo leggendo per la seconda volta, ma non riuscivo a concentrarmi. Mi sono sdraiata sul letto, la televisione piccola accesa, i piedi a penzoloni fuori dal letto. Perché saresti arrivato da un momento all’altro, perché io volevo essere pronta. Ti ho aspettato. Alla TV, dei ragazzi risolvevano i loro problemi su un muretto, e io pensavo che un giorno, da grande, sarei tornata a Roma, e sul muretto li avrei trovati tutti e sarei stata una di loro, con lo zaino Invicta e il motorino.
Mi sono distesa piano e dritta per non sciupare i miei vestiti migliori. Le gonne me le proibivo e continuavo a non piacermi, anche se tu quella domenica sulle guglie mi avevi detto, sei la mia figlia più bella, e io ti avevo sbuffato in faccia e detto, tu esageri sempre, col desiderio che fosse così, che tu esagerassi sempre e che mi facessi sentire che io non ero uno scalino mancato in discesa.

Quando i ragazzi del muretto sono andati via è arrivato il poliziotto Hunter. Quel sabato pomeriggio, con i miei piedi ben saldi nel vuoto, ti ho aspettato. Mi sono addormentata con Hunter che diceva, lo troverò quel bastardo, e la mamma che picchiava le stoviglie e tra i denti masticava tutti i suoi dolori.
Quando mi sono risvegliata era buio e la nebbia bagnata una certezza. Ho messo i piedi a terra, la mia bocca era piena di un sonno riuscito male. La mamma è entrata in camera e mi ha detto, non è venuto. Io ho scrollato le spalle, tanto lo sapevo, e ho cambiato canale. Tanto lo sapevo che andava così.

Il lunedì sono tornata da scuola col pensiero di te ben nascosto tra le mille pagine dei miei libri. A tavola, con la forchetta ho raccolto un po’ di riso bianco mentre la vedova Fletcher risolveva con serenità casi d’omicidio in un paese inesistente. La mamma si è seduta vicina a me e il mio occhio era disturbato da quella sua presenza al mio fianco, in silenzio e con le mani sotto il tavolo come se non avesse più demoni da schiacciare. Il riso era scotto e io ho rimestato i chicchi bianchi e acquosi. Il papà è morto, ha detto la mamma. Solo così, il papà è morto.

L’ufficio era buio e la bandiera italiana pareva uno straccio morto. L’uomo in divisa si è alzato dalla sua scrivania e mi ha detto, alzati. Mi sono alzata e ho guardato la mamma che arresa mi sorrideva. L’uomo in divisa con un dito ha alzato il mio viso, vediamo bene com’è fatta la figlia. Noi non ne vogliamo sapere, ha detto la mamma, noi non sappiamo niente, è ancora una bambina e non porta neppure il suo cognome. Si è alzata, la mamma, ma non mi è venuta vicino, e ha detto, noi portiamo il cognome che ci avete assegnato voi altri. Poi si è seduta di nuovo. L’uomo in divisa con il dito ha tracciato una linea sotto il mio mento, e io ho sentito il solco sulla mia carne e non avevo più un goccio di saliva da ingoiare.

Il venerdì del tuo arresto sei entrato nel bar di una via traversa di C.so Buenos Aires a riscuotere certi crediti con una pistola giocattolo. Uno dei tuoi compagni di cella ha detto che si è visto subito che quella volta non sarebbe stata come le altre, che quella volta eri dentro sul serio. Il tuo compagno di cella ha detto che hai scacciato un uomo dalla brandina dove stava seduto e ti sei messo al suo posto, e l’uomo non ha fatto una piega perché tutti sapevano chi eri. Hai riposto il tuo marsupio con le tue medicine sotto il cuscino. Hai detto, allora ragazzi che si dice, ma si vedeva che non eri tranquillo. Hai detto, domani devo uscire che ho mia figlia che mi aspetta, anche se questo non lo hai detto ma io ho bisogno di credere che sia andata così, ho bisogno di credere che tu sapessi. Il giorno dopo non era ancora l’alba di sabato mattina e loro sono entrai nella cella e ti hanno preso. Il tuo compagno ha detto che la tua mano assonnata ha tentato di afferrare il marsupio ma le loro mani sono state più forti. Poi era sera ed era sabato, e tu sei morto in isolamento e nel sudore, soffocato dal sangue che ti usciva dalla bocca mentre con dita da Ippocrate tentavi di scavare nel cemento un’ultima via di fuga.

La mamma mi ha detto, vai avanti tu che sei sua figlia, e avanti ti ho visto ed eri nudo. Il trucco malfatto sul tuo viso segnato non si addiceva di certo alla pelle di un negro; sotto il lenzuolo bianco il tuo corpo sembrava troppo piccolo per appartenerti. Era piccolo come il mio dentro a un lavandino da bucato.

Prima del funerale la mamma ha servito il tè agli zii che io non conoscevo più e che lei accettava solo per un giorno; c’era profumo di chiodi di garofano e di cannella in tutta la casa, c’era il suono della tua lingua.
Tuo fratello l’ho riconosciuto subito perché è uguale a te, al te che sei nell’unica foto che la mamma ha trovato da mettere sulla tua tomba. L’ho guardato è ho pensato di guardarlo meglio, perché poi anche lui sarebbe andato via. Lui via e tu sulla tomba, e a me non sarebbe rimasto più niente, solo i pezzi rotti che avevo preso per liberare la mamma.
Ho sentito pronunciare il mio nome e dire, assomiglia a suo padre.
Sono andata in camera e sul letto mi sono distesa vestita con l’abito d’occasione; ho guardato le mie mani e ti ho chiamato e ho cantato la nostra lingua.

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6 Commenti

  1. Il territorio del padre per una figlia è sempre desiderato, marcato da una lingua sconosciuta.

    L’identità di una figlia passa per il silenzio del padre.

    In questa storia il silenzio del padre, l’assenza si colora di punti di luci: il colore del gatto- quando il gatto ha diversi volti, sette vite, sette metamorfosi- , la lingua, il cognome. Mi piace annusare in questo racconto l’amore di una figlia per il padre, la ricerca per ritrovare un porto, una terra
    che non sia negata, ma li, nel profumo di una pelle, nel profumo di un destino tragico.

    E’ molto raro nella finzione rintracciare il vincolo tra figlia e padre, perché la lingua tra i due cuori è fatta di murmuro, di fuga, di pudore.
    La figlia scrivendo presenta la parte più ombrosa del suo padre, la parte notturna. E’ faslo credere che la lingua di una scrittrice, quando penetra il territorio del padre sia solare, è buoi, scurità, gatto nero.

    In questo racconto c’è anche l’amore impossibile per la terra italiana.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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