L’aria, il blu, l’inquadratura. Dell’avventura di Romano Guelfi
di Rinaldo Censi
Sei un seduttore Jean-Marie! sibila Giovanna Daddi, senza riuscire a celare una specie di sorriso ironico, quello di chi ha compreso perfettamente che gioco si sta giocando. Giace come una statua su una roccia ricoperta di muschio, coricata su un fianco. Ma certo, dice lui a bassa voce. È un po’ il mio mestiere.
Ci sono due attrici, Giovanna Daddi e Giovannella Giuliani; un cineasta che le sprona a dare il meglio di sé, Jean-Marie Straub. E un luogo immerso nel verde di Buti, in Toscana. Ma prima di arrivare in questo luogo, passiamo attraverso il buio di una ribalta teatrale, dove le due attrici e Straub provano il testo. Un cubo, un parallelepipedo, una luce rossa sul bordo del palcoscenico. Il blu della gonna di Giovanna Daddi. Il rosso della camicia di Giovannella Giuliani. E il dialogo di Cesare Pavese: “Le streghe”. Il primo dei Dialoghi con Leucò.
Passiamo così dalla ribalta a questo spazio alberato verdeggiante, un boschetto, luogo delle riprese. A volte vi facciamo ritorno. Per poi passare nella saletta del cinema di Pontedera, dove Straub, le attrici e Renato Berta, il direttore della fotografia, osservano i rushes freschi di stampa.
Sono dunque tre gli spazi che si alternano in questo film magnifico, realizzato da Romano Guelfi, da anni assistente di Jean-Marie Straub, colui che filma i suoi spettacoli teatrali. Il film dura poco più di due ore e si intitola Dell’avventura. È stato proiettato al festival di Marsiglia e ora al festival di Locarno. Accompagna i tre nuovi film di Jean-Marie Straub, di cui il giornale ha già parlato giorni fa.
Dell’avventura andrebbe proiettato insieme all’altro grande film che coglie gli Straub al lavoro; ci riferiamo ovviamente al film di Pedro Costa, Où gît votre sourire enfoui? Se il film di Costa ci mostrava il momento conclusivo del lavoro di Straub-Huillet, quello alla tavola di montaggio, il film di Romano Guelfi ha il pregio di farci comprendere in maniera precisa ciò che accade a teatro, tra le prove sul testo, i sopralluoghi, la scelta del punto su cui posare la macchina da presa e quella degli obiettivi, e poi le riprese, fino al momento altrettanto cruciale, quello della visione del girato. Un lavoro davvero sottile, quello di Romano Guelfi, e davvero acuto. Utile. Un film grazie al cielo libero, soprattutto da quella specie di “angoscia dell’influenza” che molti dimostrano nei confronti di Straub. Ci sono poche inquadrature fisse in questo film. La telecamera si muove libera, osa panoramiche ascendenti e discendenti unite a zoom. Il montaggio è sincopato e gli stacchi accompagnati da leggere sovrimpressioni, piccole dissolvenze incrociate.
Cosa ci dice questo film? Che ogni inquadratura è per Straub un lancio di dadi (che non abolirà mai il caso): è il frutto della tensione tra la sua preparazione, il momento delle riprese e i doni, i capricci regalati dalla natura. Di fronte ai rushes Straub si stupisce di come la luce trasformi una fanciulla graziosa come Giovannella Giuliani in un ragazzino. Sgrana gli occhi per un riverbero, si lamenta dei ciak moderni (quando ho visto questi nuovi ciak trasparenti – dice – ho capito che il cinema stava morendo). Si irrita con Berta per la qualità degli obiettivi, e per il lavoro del laboratorio parigino che stampa la pellicola. Attende e osserva con ostinazione le variazioni di luce, ossessionato dal blu. Come nasce? E poi il verde; e i gialli, i rossi. L’inquadratura, la sua tenuta, la sua modulazione. «Questo film dimostra che l’uomo non è al centro dell’universo, e neppure la donna», egli afferma. Sembra una frase anodina. Eppure è chiara, per chi ha occhi per vedere. È l’inquadratura nel suo insieme, in ogni suo centimetro, a interessare Straub. La natura, gli alberi, i rami, le foglie, le radici, il cielo, il suono, la luce, sono altrettanto importanti dei corpi che citano il testo.
Una certa quantità di blu per far sentire l’aria! esclama durante la visione delle riprese. Chi l’ha detto? Nel buio, qualcuno bofonchia: Orson Welles? E lui, chi? Cézanne! Straub vive un po’ come lui. Lavora. Lavora. Indefesso. È un primitivo. Un dolce selvaggio.