Indice Ikea
Riparto dalla Germania, nel retro della mente le immagini dei cortei di ragazzi che vogliono giustizia sociale a Tel Aviv, le carcasse di autobus e edifici dopo una notte di London Burning. Sulla via per l’aeroporto scopro il particolare conosciuto, mai però visto in relazione. I supermercati tutti chiusi, non si può fare shopping di domenica, persino Ikea non forza i suoi orari oltre le 20 dei giorni lavorativi. Esiste un “indice Ikea”? Qualcosa che misuri il quoziente di regolamentazione del lavoro rispetto al livello di vita dei lavoratori? Lassù, dove non hanno liberalizzato, ora stanno sotto il tetto sicuro di una tripla A, mentre chi si è adattato alla legge del “solo la flessibilità ci rende competitivi”, perde gli ultimi pezzi di benessere diffuso insieme alla lettera del rating. Certo, lo Stato tedesco ha pochi debiti, la cassa piena di tasse riscosse da reinvestire. Solo il partito liberale voleva farle abbassare un pochino, ma Merkel e co dissero subito che non si può, e tutti vissero contenti e agiati come prima. Un confronto con l’Italia, mi obietto, è impossibile: la corruzione, il sommerso, la mafia, l’evasione, l’eterno sempre più sputtanato Berlusconi. E allora Londra, Madrid, Atene, Tel Aviv, i disoccupati di Dublino, la gente sbattuta fuori dalle case comprate con i mutui inquinati negli Stati Uniti? Fa impressione che gli unici paesi del mondo avanzato capaci di reggere alla crisi, sono quelli dove il patto che assegna allo Stato di fornire regole, servizi e tutele, non è mai stato messo in dubbio da nessuno. Fa venire un nodo in gola, anzi, visto che, a questo punto della discesa delle rapide, dirsi “ci siamo sbagliati, ci siamo bevuti un teorema ideologico per legge di natura”, ha in parte l’utilità di uno sguardo nostalgico sulle rovine.
pubblicato su L’Unità, 9 agosto 2011.
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Cara H., secondo me bisogna stare attenti a trarre teoremi dall’attuale crisi, la complessità dei mercati finanziari e dell’economia ci sovrasta. A latere: S&P declassa gli USA e i mercati vanno giù, a precipizio e molto pericolosamente, quando la stessa agenzia di rating aveva dato buoni rating alla lehman brothers un mese prima del collasso, e aveva dato AAA ai titoli tossici. Quanto c’è di razionale in tutto questo e quanto di animal spirits? Di certo non ci beviamo più che il mercato si autoregola ecc. ecc. e tutte le ideologie ammantate da una non ben precisata scienza economica, quando ora anche l’Italia (una delle potenze economiche europee e mondiali, oggettivamente) è sotto tutela economica. E sotto attacco è, come sempre, lo stato sociale, additato come l’errore “primo” e imperdonabile.
[…] articolo originale: Indice Ikea Aggregato il 9 agosto, 2011 nella categoria Banche, Comparazione, Finanziamenti, Guida alla […]
I giovani Londinesi, disoccupati, precari, emarginati, si sono stancati.
Caro Domenico,
condivido totalmente ciò che scrivi. Non so se il mio pezzo ti abbia dato l’impressione che intendessi erigere teoremi sulla crisi, non era questa la mia intenzione, in ogni caso. Volevo solo segnalare che le politiche neoliberiste di questi ultimi decenni, non ha solo prodotto una crescente ingiustizia sociale con tutto ciò che ne consegue, ma anche una maggiore vulnerabilità complessiva dei paesi che le hanno maggiormente attuate.
Nello spazio che mi concede la rubrica, non posso far altro che sollevare delle domande, legarle a qualche concreta osservazione, sperando che servano come spunto per una discussione condivisa.
Del resto, è impressionante vedere come un testo scritto ieri sembra già invecchiato a nemmeno 24 ore di distanza. Sta prendendo botte sempre più forti anche la borsa tedesca e, se la cosa prosegue in questa direzione, potrei aver sbagliato a pensare che la Germania possa rimanere un porto sicuro.
Eppure, quel che mi aveva colpito, è il fatto che fino a ieri lì c’era stato lavoro e crescita, insieme a un welfare un po’ ridotto, ma intatto nella sostanza. E soprattutto che nessuno, nemmeno il ceto imprenditoriale, abbia mai realmente messo in discussione il modello di rapporto tra stato, mercato e cittadini. In pratica, quel che è successo negli Stati Uniti con la destra repubblicana e i tea-party, lì non sarebbe potuto accadere, perché mancano sia gli elettori così orientati, sia una loro rappresentanza politica. La spiegazione (che vale anche per diversi altri paesi del Nord Europa avanzato, incluso il Belgio privo di governo) mi sembra risiedere semplicemente nel fatto che i cittadini hanno potuto esperire che le cose, gestite in quel modo, vanno bene più o meno per tutti.
Cara Helena, non so quanto sia corretto il tuo ragionamento sulla correlazione fra politiche neoliberiste-instabilità economica: vedi gli USA i quali, anche con il loro deficit federale, hanno avuto fino a pochi giorni fa la AAA per i loro debito pubblico. Io penso tuttavia che la tripla A gli USA se la meritino tutta, visto e considerato il fatturato colossale delle industrie statunitensi che versano imposte allo stato. Gli USA sono economicamente stabili, qui non abbiamo a che fare una crisi stile ’29, qui la situazione è diversa, è l’europa il malato e con essa la sua moneta. Oppure l’europa è sotto attacco finanziario? Ma cui prodest? A nessuno: né oltre l’atlantico né in oriente. Ora la crisi sembra essere squisitamente finanziaria: i grandi investitori non rischiano perché vedono dietro l’angolo una crisi ben più grave, una recessione, e quindi vendono. Ma quale sarà la crisi dietro l’angolo? L’ennesima crisi di sovraproduzione foriera di guerre sfogatoi-volani economici? Forse è l’impossibilità di fare guerre il vero problema.
Ciao Domenico, mi permetto di dare la mia opinione come fisico curioso di economia:
– “Io penso tuttavia che la tripla A gli USA se la meritino tutta”:
Non so. Esattamente come gran parte del giornalismo, anche il rating USA esaspera ora le situazioni economiche, distorcendole ad uso del capitale internazionale. Sembra che il sistema sia implodendo dall’interno. Quindi, forse e’ vero che gli USA meriterebbero ancora la AAA, ma e` anche vero che la crisi Lehman Brothers ha colpito il sistema USA per il doppio del valore totale dell’economia greca (fonte: Economist) e che l’economia si sta spostando verso un’economia del debito. E infatti: negli anni di boom dei miei padri, l’ingegnere “homo faber” era il mito della sua generazione perche’, appunto, costruiva; adesso lo e’ l’economista, che, se normalmente garantisce economicamente operazioni razionali, in questa fase storica limita – e di fatto co-decide – la politica in tutte le sue espressioni possibili e quindi materiali. La figura dell’economista imperante e’ l’incarnazione materiale dell’enorme debito caricato sulle spalle dei cittadini, come l’ufficiale giudiziario lo e’ della bancarotta. Il denaro a tempo, a credito o a debito, non fa nient’altro che accelerare le situazioni; di crescita negli anni ’60, di descrita nei nuovi anni ’10. E il tempo, come tutti sanno, e’ denaro.
– “Non abbiamo a che fare una crisi stile ’29”:
nella misura in cui la bilancia degli equilibri si sta spostando definitivamente dall’atlantico (USA + EU) alla Cina, e quindi fra due situazioni di equilibrio distinte, si’. Concordo con il fatto che non si tratti di una crisi di sovrapproduzione, ma, a mio parere, di saturazione. USA e EU hanno raggiunto la massima produttivita’ possibile, e per farlo piu’ in fretta si sono indebitati pesantemente. Alla crescita sregolata cinese – incominciata da industrie americane e europee – si contrappone ora un’economia atlantica sovrappeso e indebitata. La mia opinione e’ che il pendolo dell’equilibrio si sia spostato ora definitivamente verso Est, tant’e’ che persino gli USA devono rendere conto della propria politica economica (e quindi della propria politica, se si e’ un minimo materialisti) alla Cina.
– “Ma cui prodest?”.
Al capitale internazionale (americano, cinese, tedesco e giapponese + briciole), che ha gia’ investito pesantemente in Cina, che incrementa l’instabilita’ del sistema atlantico spillando interessi piu’ alti. A tutti, americani compresi. E poi alla Cina: quando mai si era vista un’ingerenza cosi’ diretta come quella cinese nella politica interna americana come quella che li invitava a tutelare i creditori?
@helena: nel Baden-Wuerttemberg, il fratello gemello della tua fortissima Baviera, e’ silenziosamente cominciata la guerra fra banche: un prelievo da uno sportello Sparkasse da un conto BBBank costa, ormai da piu’ di un mesetto, ben 4,5€ al povero utente. Una rapina a mano armata per il consumatore ben abituato agli elevatissimi standard tedeschi, ma anche un fortissimo segnale di crisi di fiducia di liquidita’ fra banche. Persino in Germania.
In realtà, mi sembrava più interessante segnalare il contrario, ossia che paesi con più spesa pubblica siano riusciti a ad avere un assetto economico così solido, anzi capace di generare crescita. Il tallone d’Achille è ovviamente la finanza ed è evidente che gli Usa sono il luogo dove le conseguenze del 2008 si sono avvertite più pesantemente. E’ lì che mi pare si sia generato uno squilibrio nel sistema che non si è più ricomposto, ma che anzi si va allargando, malgrado gli aspetti di oggettiva solidità che tu nomini. Insomma, non intendevo proporre equazioni semplici.
Ah è non purtroppo mi rendo conto che si sono messe in moto dinamiche che non convengono a nessuno, ma che ugualmente vanno avanti per i fatti loro.
Questo tuo testo è quasi quasi punto a punto il pensiero del mio migliore amico…io invece ho sempre tanti dubbi, di questa crisi ne capisco poco o niente anche se cerco disperatamente di capire…
Grazie ad Helena e Matteo. Mi interessa questo tuo passo, Matteo:
“Al capitale internazionale (americano, cinese, tedesco e giapponese + briciole), che ha gia’ investito pesantemente in Cina, che incrementa l’instabilita’ del sistema atlantico spillando interessi piu’ alti. A tutti, americani compresi. E poi alla Cina: quando mai si era vista un’ingerenza cosi’ diretta come quella cinese nella politica interna americana come quella che li invitava a tutelare i creditori?”
mi chiedo: questi fantasmatici creditori o capitali internazionali sono come avvoltoi che stanno approfittando della situazione, o rientrano in qualche modo nel meccanismo genetico della crisi?
A proposito della Cina, quali scompensi provoca nell’economia mondiale (prego che un economista mi risponda) se tutto il manufatto, praticamente tutto, viene prodotto e diffuso da un unico paese come appunto la Cina?Non siamo già tutti suoi creditori? Forse il made in India può ancora tenerle testa ma a quale prezzo in termini di sfruttamento? E che ruolo gioca l’agricoltura?
Segnalo, molto interessante per la premessa lucida, un commento al blog di Odifreddi di oggi che riassume perfettamente la situazione:
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/08/09/cavaliere-ci-consenta/#comments
Scusa, quale dei commenti?
Quel che mi pare di vedere è che dopo il ’29, pur con tutto quello che ha messo in moto – la Seconda Guerra Mondiale – il mondo capitalistico occidentale continuava a detenere il dominio della produzione industriale. Poteva risalire dalla depressione producendo armi, ma anche automobili e poi frigoriferi, lavatrici, yogurt ecc. Oggi non è più così, come osserva Mariateresa, e non lo sarà mai più. Ed è anche per questo che nessuno sa quali risposte, oltre alla repressione, dare a quelli che fanno riots in Inghilterra, Francia o altrove.
Come Helena ,ero in partenza. Quando sei in un luogo di transit, le notizie arrivano senza ancora.
Allora le immagini di Londra, di Tel Aviv, entrano nel tuo campo di sguardo e senti fragilità. L’incendio brucia nella tua camera. la T V dell’ albergo ti mostra una fiamma senza confine.
Questo mondo economico è finito, perché crea violenza nella vita degli uomini, ruba la speranza di tutti. Che fare? Ritrovare il suo giardino, non accendere la TV, aspettare, scrivere un altro mondo. Come i tempi (1970- 1978) erano felici! C’era il ritorno alla terra, alla natura. La speranza di domani è l’ecologia.
@Helena: il commento 6, di vincesko, che e’ significativamente piu’ lungo e articolato degli altri.
Secondo me, i commenti fatti non colgono la natura della crisi.
Qui. il problema non sta nei tipi di politica economica e fiscale del singolo paese, si tratta di una caso emblematico di crisi globale, probabilmente la crisi più globale dell’umanità. Sì, il singolo paese può vedere come meglio galleggiare all’interno della crisi, ma non può ignorarla. C’è stato un naufragio, ed anche coloro che sono riusciti a piazzarsi su una scialuppa non stanno certo come su una comoda nave da crociera. Se quindi non si identificano e si affrontano i problemi nodali della crisi globale, anche le risposte nazionali risulteranno necessariamente inefficaci.
I problemi strutturali sono due. Uno di natura finanziaria, la massa di titoli di ogni tipo che ha invaso il mercato globale, e che li rende direi automaticamente carta straccia: chi li detiene, terrorizzato della prospettiva di vedere andare in fumo le enormi ricchezze di carta che ha accumulato, si agita sugli stessi mercati, creando un meccanismo di ribasso apparentemenmte inarrestabile.
L’altro è di natura più propriamente economica, ed ad esso si è accennato in alcuni commenti. I distretti della Cina, a causa delle condizioni schiavistiche di lavoro e lo sviluppo tecnologico, producono praticamente tutti gli oggetti di cui tutte le nazioni dispongono. Un produttore europeo non può porodurre a quei prezzi, e se anche avesse il talento di inventarsi un nuovo prodotto, potrebbe andare avanti solo se si trattasse di una merce a diffuzione marginale. D’altra parte, non è augurabile neanche che la produzione cresca, magari con una forma oggi non immaginabile di incremento dei consumi per motivi di vincolo ambientale.
Se questa è la natura dei problemi, se ne deduce che i mercati finanziari non potranno continuare a funzionare, non certamente nella presente forma, e che un’economia tutta basata sull’aumento del PIL è del tutto improponibile.
Ciò suggerisce ai singoli paesi di uscire dal circolo finanziario globale, di instaurare forme di protezionismo e di procedere verso un’economia ecosostenibile ed a PIL sostanzialemnte costante.
Queste cose mi sembrano chiarissime, e se non se ne parla, è perchè siamo prigionieri di un’ideologia, quella degli oggetti e quella di un internazionalismo divenuto ormai il vuoto simulacro di sè stesso, al guinzaglio dei movimenti di capitale.
Vincenzo, certo che la crisi è globale e di sistema. E tocca pure già i cosidetti “paesi emergenti”, Cina e India, per esempio, che vivono con una fame cronica di energia che diventerà sempre più problematica, sotto una cappa di aria sempre più irrespirabile, e con la dislocazione delle produzione in zone sempre più remote (oppure in paesi più poveri) , poiché quelle più sviluppate stanno diventando troppo care.
Si dovrebbe sì andare verso un’economia sostenibile, senz’altro. Non sono certa che la via del protezionismo possa funzionare, almeno non sino a quando non è una scelta condivisa da diversi paesi. Ma forse mi sbaglio.
Quel che intendevo segnalare o mettere piuttosto sul tavolo della discussione, è che uno dei paesi che se è cavata meglio, la Germania, pur non essendo al riparo e pur non attuando politiche del tutto diverse, deve la sua stabilità e persino crescita a diversi fattori che vanno pragmaticamente nella direzione da te indicata. Una produzione che punta più sulla qualità e sulla ricerca, con leadership mondiale in tutto ciò che è legato al discorso ecologico. Una redistristibuzione più equa della ricchezza che, tra l’altro, crea anche lavoro nel terziario – cultura inclusa. Questo perché la funzione “stato” (e stato sociale) è rimasta grosso modo intatta, il che mi sembra un portato culturale più che economico, malgrado una classe politica che non è tanto meglio delle altre, come si sta pure vedendo in questa crisi. E’ mediocre, litigiosa, priva di grandi orizzonti. Vive di rendita di ciò che è stato fatto in passato, di ciò che malgrado tutto funziona, e anche di ciò che è stato portato nelle agende politiche grazie ai cittadini – l’uscita dal nucleare è solo l’esempio ultimo e più palese, ma tutto il discorso sull’essere avanti sulle questioni ambientali (anche sul piano economico) si deve alla forza infintamente maggiore che il movimento e poi il partito verde hanno avuto da decenni. Detto questo, i politici tedeschi sono ovviamente meno marci dei nostri – nessuno li voterebbe se fossero imputabili anche di un decimo di ciò che in Italia è prassi. E siamo all’altro lato della consuetidine per cui i cittadini che vogliono “più Stato” si sentono anche in diritto-dovere di esercitare un controllo continuo sui suoi rappresentanti.
Tutto questo non per cantare le lodi della Germania dove ci sono anche i lati problematici: politiche dell’immigrazione molto restrittive, fasce di emarginazione o di ghettizazzione meno ampie che altrove, ma pur presenti, di cui, come ovunque, nessuno sa come venire a capo. Perché il problema cruciale, anche con Pil stabile e del capitalismo sostenibile, resta quello di come non avere fette di popolazione tagliate fuori da ogni prospettiva di lavoro e inserimento sociale decoroso.
In ogni caso, il tutto vale come esempio “intermedio” – per dire che qualcosa delle pratiche e delle convinzioni (ideologiche) si può cominciare a rivedere, prima di arrivare a soluzioni globali.
@Helena
Sì, mi scuso per essere andato abbastanza al di fuori dal tema del tuo post. ma sono i commenti prima del mio ad avermi spinto in quella direzione.
Condivido la tua opinione sulla Germania, in cui in fondo come anche tu dici, è più facile governare. La Merkel ha largamente dimostrato i suoi limiti come governante, e basti citare il ritardo nell’assumere le decisioni necessarie nei confronti della crisi greca esclusivamente per motivi elettorali. Ma la cultura del popolo tedesco è una cultura ben più consapevole della nostra per quanto riguarda il ruolo essenziale dello stato, la concezione dell’interesse generale.
Ciononostante, forse differentemente da te, credo che la fortuna della Germania sta più in motivi contingenti che strutturali, avere una maggiore efficienza del proprio settore produttivo in tutta l’area con cui condivide la stessa valuta, l’euro.
Nulla di davvero nuovo in verità rispetto agli anni settanta ed ottanta, in cui la Germania ci dava punti in produttività, e noi riguadagnavamo terreno mediante ripetute svalutazione della nostra lira. Oggi, quella cronica minore efficienza del nostro sistema paese non può trovare sbocco nella svalutazione, visto che condividiamo l’euro, e così la competitività della Germania tende a crescere rispetto ai paesi mediterranei. Questa situazione è chiaramente insostenibile a lungo, o ,l’Europa diventa almeno una confederazione che condivide le strutture fondamentali statali, o l’euro non potrà sopravvivere, se non forse in un’area molto più ristretta che sias omogenea alla Germania.
Mi pare forse più interessante la situazione della Svezia che di fatto ha scelto l’isolazionismo. Non conosco i dettagli e quindi non m’avventuro in un giudizio approfondito, ma forse la Svezia ha fatto queòllo che io chiedo che fsaccia l’Italia.
Se ammettiamo, e mi pare difficile negarlo, che la crisi globale ha negli USA la sua origine, soprattutto nel suo cronico sbilancio commerciale, ma anche nel suo enorme debito pubblico, il che significa che lo stato federale è debitore, ma lo sono anche i suoi singoli cittadini, si capisce che la globalizzazione è vitale per gli USA, e una scelta protezionistica generalizzata sarebbe sgradita alla superpotenza, e uno sbocco in un conflitto mondiale non è una prospettiva così peregrina.
La Svezi al’ha potuto fare per la sua marginalità numerica, il suo modesto contributo al PIL mondiale, e forse anche l’Italia, magari senza clamore, potrebbe affrontarla.
Infine, e chiudo questo intervento della cui lunghezza mi scuso, quando parlo di economia sostenibile (evito appositamente la parola sviluppo che ritengo un concetto errato e che ha portato enormi problemi all’umanità), intendo anche un’economia di piena occupazione, in caso contrario non sarebbe certo sostenibile.
Se ci pensiasmo, è la divinizzazione della concorrenza che porta disoccupazione: se abbassare i prezzi non è più l’obiettivo economico da perseguire, allora dare più stipendi non significherebbe dover chiudere i propri stabilimenti. E poi, naturalmente, c’è il tema completamente rimosso dal dibattito politico, della diminuzione del tempo di lavoro.