Note per un diario parigino
Tredicesimo capitolo
Villejuif
Aurélien Alizadeh, il libraio mio amico, persiano, me l’ha raccontata stamattina e allora mi sono detto che è proprio vero, non c’è un cazzo da fare, qui veramente tutti inseguono tutti. Chacun cherche quiconque, ha aggiunto allora lui. Mi ha fatto ridere prima quando mi ha indicato un signore che usciva con due scatole piene di libri.
– Sai, è l’autista di un Avvocato importante che una volta al mese lo manda a prendere riviste pornografiche, romanzi erotici purché non superino gli anni sessanta. Del resto lo sai l’Equipement vive di due settori, pornografia ed esoterismo. Pornografia entrando a destra e gli esoterici a sinistra. Nel caso in cui volessi fare il libraio non scordarti questa cosa: se vuoi avere tra gli scaffali roba come il Cendrars che hai appena comprato o Fernando Arrabal, i surrealisti praghesi, il manifesto dell’internazionale situazionista, bene ce n’est que avec du Cul, du Cul et du Mystère, che potrai permettertelo.
Mi fermo spesso da lui quando finisco i corsi da Kenzo, in Place des Victoires, primo arrondissement, e mi offre sempre il tè. Non si ricorda la fonte della storia che gli viene in mente di raccontarmi, se sia stata sua sorella, quella che durante la rivoluzione in Iran fabbricava di nascosto acquavite in cantina, o che l’abbia semplicemente letta. Ad ogni modo si svolge in Azerbaijan e parla di un vecchio signore assai noto in paese per la sua capacità di individuare gli alberi che avrebbero dato più frutti. E nella perlustrazione del territorio, a volte si spingeva oltre i confini, viaggi che potevano durare a volte diversi mesi, un anno, per non dimenticarsi delle piante prescelte legava ad un ramo un fiocco rosso, vivo, perché al tempo del raccolto le potesse ritrovare più facilmente. Mentre racconta Aurelien si slega i capelli lunghissimi che porta a coda di cavallo, e se li risistema subito dopo il tutto facendo ben attenzione all’acqua del bollitore accanto alla cassa, per servire il solito tè.
– Ti stavo dicendo ecco, che non era facile riuscire nell’impresa. Mutavano i paesaggi con il clima e poi, ad aggravare la cosa, c’era il fatto che negli ultimi tempi si spingeva davvero assai lontano . E fu proprio durante uno di questi lunghi viaggi che perse la vita senza fare in tempo a ritornare sui propri passi fino al villaggio di partenza. Come fosse accaduto, anche questo non si sa – Aurélien a questo punto versa l’acqua nella teiera d’argento intarsiata- se sia stata colpa della fatica, la stanchezza delle lunghe marce, del peso degli anni eccetera. Ma intanto restavano i suoi segni, i nastri rossi sparsi un po’ ovunque e e nessuno che sapesse interpretarne il senso. Intanto, in tutt’altro villaggio una banda di ragazzini, durante una gita peraltro non permessa dalle famiglie, essendo incappati in uno di quei segni si s’erano messi a fare a ritroso il cammino del vecchio. magari per gioco, soltanto per poterne trovare degli altri o ancora più semplicemente per scoprire dove andassero a finire. e una volta raccolti per scoprire dove mai portassero .
I genitori, allarmati dall’assenza dei ragazzi all’ora di cena erano partiti alla loro ricerca non senza il proposito di dargli una bella punizione una volta acciuffati.
Così, strada facendo s’erano imbattuti anch’essi sui nastri del vecchio e forse pensando che un dio ce li avesse messi per guidarli, questi vi facevano sosta per recitare preghiere, lasciando dei doni, ed aggiungere al fiocco originario degli altri colorati. Quanto dovesse durare l’inseguimento o quanto ancora duri, beh di questo non c’é dato saperlo. Di esatto sappiamo solo il numero, ai più peraltro ignoto, degli alberi eletti dal vecchio, ma a quanto pare, a detta di alcuni, a distanza di secoli ormai figli e parenti starebbero ancora li’ a inseguirsi. Alla rapidità degli uni, nel guizzo delle membra giovani pronte a rifuggire ogni fatica della mente, ovvero di interpretare un segno, capirne il significato recondito e profondo corrispondeva infatti la lentezza degli altri, in parte dovuta ai muscoli meno freschi ma per lo più propiziata da una naturale inclinazione a meditare.
Sorseggiamo del tè, un cliente si paga un libro di René Guénon, Aurélien mi guarda per dire vedi? E conclude la storia:
– Certo agli anziani sarebbero spettati i frutti migliori, miracolosamente nutrienti e belli a vedersi, come un premio alla propria devozione.
– Alì, ma è una storia triste non trovi? Cioè la storia dice che sarà inutile cercare
– Ma no, pare anzi che le due fazioni si incontreranno un giorno, perché pur aumentando la distanza lungo il cammino, a causa della diversa velocità si sarebbero dovuti incontrare i per forza un giorno, avendo il vecchio disegnato che cerchi, e poi cerchi ed ancora, scrupolosamente precisi, dei cerchi.
Beviamo il tè che sua sorella gli ha portato nell’ultimo viaggio insieme al caviale anch’esso iraniano e si telefona in tipografia per sapere quando avremo le riviste.
– In settimana pare– mi sussurra mettendo la mano sul microfono per non farsi sentire- tu avvisa Souad all’Atmosphére che presto si festeggia.
Ci salutiamo, è quasi ora di cena ma mentre sto per avviarmi mi chiede come sta la petite italienne.
Già. La piccola. Un amico di famiglia mi aveva chiesto di dare una mano a suo cognato, vedovo da pochi anni della moglie vittima di un cancro fulminante. Lo stesso cancro che aveva deciso di portarsi via anche sua figlia. Se insomma potevo aiutarlo facendogli da interprete durante la chemio, durante i colloqui con i medici ed io gli ho detto naturalmente di sì. Ci incontriamo a Parigi, all’Operà. lei ha una bandana e dei lineamenti della grazia di una madonna del rinascimento, di una giovanissima madonna, su cui gli occhi grandi e chiari si lasciano di tanto in tanto coprire dalle palpebre affaticate dalla cura. Accade qualcosa quasi subito, lei ride di me che le sembro bizzarro con il cappello, che le parlo in casertano e subito dopo in francese, magari con un’amica che ci accompagna o con un cameriere a cui chiediamo da bere insieme al papà. Vado così a trovarli a Villejuif, dove hanno preso un piccolo appartamento accanto all’ospedale. e pagano affitti a settimana che nemmeno sugli Champs Elysées paghi così tanto e mentre sorridi alla proprietaria buontempona pensi tra te e te che andrà all’inferno in un inferno in cui dovrà pagarsi in più e senza sconto un affitto esorbitante. e cazzo, pensi pure, ma subito dopo tornando a casa, ma Villejuif non era una delle roccaforti della cintura rossa di Parigi? Che per arrivarci passi dalla rue Jean-Jaurès poi l’avenue de Stalingrad le Kremlin-Bicêtre, che dici ma siamo in unione sovietica? Che i parchi portano il nome di Pablo-Neruda e il maggiore complesso scolare si chiama Karl Marx? Che il sindaco è comunista dal 1925! Putain de merde! E allora dico io, e lo dico a te proprietario di questo tre locali che sa di morte con la carta da parati avvizzita e un giardinetto che sa di smog, dai letti pesanti come bare con le lenzuola intrise di medicinali, dico, ma non ti vergogni nemmeno un po’ di succhiare il sangue di poveri cristi nel mezzo della battaglia? E non dico vergogna per te, ma per il partito!! Non ne faccio parola con nessuno, ci mancherebbe, io sono solo una vedetta lombarda. una guida attraverso parole che non avevo mai saputo e che imparo nel dolore della mia giovanissima, bella ospite che pare proprio una madonna del rinascimento a guardarla dormire.
Quando la chemio ricomincia è in ospedale che vado a trovarla, compatibilmente con i corsi e a volte mi capita di non poter andare e lei me lo ha perfino scritto in un disegno che sballo tutti gli orari e gli appuntamenti. Ricordo anche ora e credo per tutta la vita l’ingresso nel reparto infantile di quell’ospedale. Un’infermiera mi infila il camice prima di entrare in reparto con la stessa cura con cui vorrei sfilarglielo. mentre mi abbottona lo sguardo al di sopra della sua spalla va ad una camerata appena appena illuminata da luci notturne e nell’incompleto buio mi fissa il faccione di un bimbo che sembra un mondo, anzi tutti i mondi che quasi certamente non potrà mai vedere e mi viene un groppo in gola che mi raschia il pensiero fino a farlo sanguinare. L’infermiera che se ne accorge mi guarda negli occhi. Questa volta il suo sguardo è severo. Mi sussurra che io non ho diritto al dolore, che in quelle stanze di dolore ce n’era a tonnellate e che al limite, se avessi voluto avrei perfino potuto portarne via un po’. E che per riuscire nella cosa bisognava essere l’immagine stessa della felicità. perché ognuno di noi, altro da qui bimbi, comprese le infermiere era il loro specchio e se lo specchio sorrideva anche loro sorridevano un poco e ne avevano tutto il diritto. In tre secondi avevo appreso la lezione più importante della mia vita e in più la maestra era anche figa. Così quando entro il papà mi accoglie con un sorriso e lei, così piccola, minuta che sembra una madonna rinascimentale strabuzza gli occhi e sorride. Ha le labbra screpolate, quasi massacrate dalla sécheresse. fa fatica a parlare, la voce le si spezza dentro ma ascolta con piacere le cose che si dicono. Guardiamo un film alla televisione, c’è la Rai ed è un vecchio film in bianco e nero degli anni sessanta, con tutti i cantanti top del momento. Dallara, Peppino di Capri, Adriano Celentano , Mina, Tony Renis. Si intitola Io bacio, tu baci e lo guardiamo estasiati. il suo papà ha pochi anni più di me e lei sembra sapere tutto come in un corso intensivo della vita che andasse in avanti nel futuro ma anche indietro, e fare proprio un tempo mai vissuto. C’è anche la compagna del marito che la asseconda nei gesti e la protegge. Quando poi attaccano Gianni Meccia e Jimmy Fontana con i Flippers, il Cha cha cha dell’impiccato è un delirio. Sul ritornello dondola dondola chi? un impiccato è cori verdiani al punto che due infermiere accorrono e cantano anch’esse. Vita cantavamo e vita sia. Ovvero non volontà di morire di accettare il male ma a quello ribellarvisi con tutte le forze. In un reparto al nono piano di un ospedale alla periferia del mondo, un tempo comunista, pieno come l’Hotel Crillon nei giorni di maggiore festa , io ho visto. Io ho riconosciuto i guerrieri del mio tempo. Io ho assistito alle ore di battaglia di uniformi sbattute come bandiere e cambiate insieme alle lenzuola meticolosamente come le mani lavate all’entrata del reparto speciale. La Signora ha già varcato la soglia e l’alito le si confonde all’odore del talco distribuito come neve sul letto. Solo la lotta per la vita ed ella soltanto di giovani anime e creature senza capelli.
Quando mi volto verso Aurélien capisce dalla faccia che ho fatto che non c’era stato niente da fare. Che tutto quello che si poteva fare era stato fatto. Che il vuoto lasciato da una ragazza che pareva una madonnina del quattrocento nessun pieno l’avrebbe mai riempito. E così ho visto la tristezza anche sul volto del mio amico persiano, che un giorno aveva tenuto a battesimo di francese con il suo tè i miei ospiti, A casa scrivo. Massimo è in Italia in questi giorni. Ci sono i suoi mille libri a farmi compagnia. E invece scrivo:
E l’eleganza delle prime luci all’alba
che distolgono il passo dalla meta
perché mirando s’indovina il fuoco
restando immobili
senza più fiato
in gola o in altra parte della vita
in una fragile promessa un’illusione
che la vendetta non avesse fine
non un lamento
e senza voce
E le tisane di veleno al capo
per le mirabili sortite ed il foulard
raccolto a guisa d’una fine
o d’un cominciamento
d’arida carne
ma se solo v’avesse il cuore una parola
non l’ultima che dice e poi sentenzia
diremmo la medesima che induce
l’anima all’orecchio
ed il soffio in vita
ella non s’apre al cielo che non v’é più cielo
ma solo all’anima e scompare
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Villejuif con le sue rose giganti da cartone animato, i suoi orridi ristoranti italiani, Ville Juif è l’inferno in terra, l’inspiegabile ingiustizia della vita….