Fiori di Bachtin
La questione Bachtin 1
Intervista di Gigi Spina a Giovanni Mastroianni
Giovanni Mastroianni è andato in pensione, per raggiunti limiti di età, venti anni orsono. Ma continua a lavorare. Per spiegarmelo, recita a memoria i versi mediocri ma cari (il giudizio è suo) di Vittorio Imbriani:
Bello in guerra morir sembra al soldato,
Pregando per chi il crucia all’uom del chiostro,
Sprofondato al nocchier nel gorgo muto.
Forse più fiacco petto a noi fia dato,
Che pugniam con la penna e con l’inchiostro?
Infamia eterna a chi non muor seduto.
Ad Arcavacata, Università della Calabria, insegnava Storia della filosofia politica. E questo continua a studiare. La raccolta che sta mettendo insieme, dedicata “Ai tanti che ormai mi mancano”, si intitola: Pensieri e pensatori politici degli ultimi due secoli, e comprende i saggi: Per il Vico della Belgioioso; Il barone di Mūnchhausen, kantiano; Il Sovrano di Angelo Camillo De Meis; Dostoevskij, il sottosuolo e l’armonia; Acri, Fiorentino e Garibaldi; Labriola e la filosofia politica in Italia; La prima edizione sovietica di Solov’ev; Dewey e Bellamy; Warburg, Croce e i rispettivi dettagli; Bogdanov, un marziano in Russia (e nell’Urss); Gramsci, l’edizione nazionale e altri grandi lavori; Bachtin, la questione; Quando Kojève si chiamava Koževnikov: Eugenio Garin, fra storiografia, filosofia e politica.
In che senso (non posso quindi non chiedergli subito, da studioso di retorica quale sono) continui a parlare di una questione Bachtin?
– Michail M. Bachtin (mi risponde) diventò famoso come autore del libro su Dostoevskij del 1963 e di quello su Rabelais del 1965. E non per nulla, al maggiore degli allora giovani letterati che l’avevano riscoperto qualche anno prima, già sessantenne, in un istituto universitario di provincia, è venuto di paragonarlo all’Ovidio assistito dagli zingari del poemetto puškiniano. Come il poeta esiliato da Augusto, neppure Bachtin accettava di parlare dei suoi precedenti. Stalin era morto. Chruščev aveva promosso un certo disgelo. Ma era meglio non rischiare; non dirlo, di avere polemizzato in gioventù con Plechanov e Hegel, e cominciato a scrivere un’etica della cultura, dell’arte, cioè, della politica e della religione, tutta all’insegna dell’indipendenza delle persone. Starsene insomma buono buono, brontolando amaramente fra sé e sé, nel ruolo meno esposto di teorico e critico della letteratura.
Il guaio, la questione, è che quei vecchi scritti non rimasero solo ignorati finché visse Bachtin. Le loro edizioni e traduzioni postume, e gli studi che li riguardano, non li considerano che in funzione della successiva produzione letteraria. Il significato che avevano all’origine. sembra non interessi a nessuno. Vedi Arte e responsabilità, del 1919. Persino il volume che con esso si apre, dell’edizione delle opere a cura dell’Istituto di letteratura universale dell’Accademia delle scienze, del 2003, si guarda bene dal rilevare che il titolo risponde ad un plechanoviano Arte e vita sociale, con a sua volta in indirizzo il poeta di Puškin, sordo alle invocazioni popolari, e che le due paginette fanno il verso, riprendendone la lettera, prima alla Logica e poi all’Estetica hegeliane. I frammenti dell’etica smentiscono addirittura dal primo rigo superstite, che l’arte sia legittimata a surrogare la filosofia (teoretica, speculativa), la scienza e la storiografia. Come tutte queste altre attività, sostengono, anche quella estetica coglie solo il contenuto dell’essere. E degrada anche noi a contenuto, ad oggetto. Sottomettendoci ad una legge esteriore. Non c’è che un modo per cogliere l’essere nella sua interezza, nel suo senso, e insieme, partecipando di essa, nella sua essenziale libertà: viverlo. Farne un atto umano. Un evento dell’atto umano. Evento. Per l’irripetibile originalità personale di ogni sua volta. La filosofia morale, che è di conseguenza la vera filosofia prima, non sarà naturalmente che una fenomenologia, una descrizione, dall’interno, dell’atto umano… Ma l’edizione dell’Accademia continua a catalogare tutto questo come estetica filosofica.
– Qual è allora (lo interrompo) la tua proposta?
– Non un ribaltone, certamente. Non si tratta di mettere da parte il Bachtin letterato. Fin dalla mia prima traduzione di ciò che resta dell’etica (1993), dai Problemi dell’opera di Bachtin, presentati a Santa Margherita Ligure nel 1996, dal ritratto critico per «Belfagor» del 1998, dai Principi di Bachtin del «Giornale critico della filosofia italiana» del 2003, fino all’Ipotesi su Bachtin / Con la traduzione del nuovo testo dell’etica giovanile, del 2009, io non penso che ad una rilettura di tutto. Te ne do un esempio, citando due luoghi.
Il primo è degli anni 1920-1922. Di Bachtin filosofo morale. Per cui reale veramente, degno di esserlo, è solo l’atto, d’artista, di politico, di religioso, quanto al contenuto, in cui però io mi distinguo dall’altro: senza per questo dipenderne, né limitare la sua indipendenza:
Il principio architettonico supremo del mondo effettivamente reale dell’atto umano è la contrapposizione concreta, architettonicamente valida, di me e dell’altro. Due centri di valore distinti per principio ma in rapporto fra loro conosce la vita: quello di me stesso e quello dell’altro, e intorno a questi centri si distribuiscono e si mescolano tutti i momenti concreti dell’essere. Uno e lo stesso oggetto identico di contenuto – un momento dell’essere, ha un aspetto diverso di valore, a secondo che sia in rapporto con me o in rapporto con l’altro, e tutto il mondo nella sua unità di contenuto, è permeato di un tono emotivo-volitivo completamente diverso, valido diversamente di valore, nel suo senso più vivo, più essenziale, a secondo che sia in rapporto con me o con l’altro. L’unità di senso del mondo non è infranta da questo, ma innalzata al grado della unicità dell’evento.
Il secondo figura tale e quale, tanto nei Problemi dell’opera di Dostoevskij del 1929, quanto nei Problemi della poetica di Dostoevskij del 1963.
L’essenza della polifonia è proprio nel fatto che le voci qui restano indipendenti, e come tali, si combinano in una unità di ordine superiore che nella omofonia. Se si parla ormai di volontà individuale, proprio nella polifonia si ha la combinazione di più volontà individuali, si compie l’uscita di principio dai confini di una volontà sola. Si potrebbe dire così: la volontà artistica della polifonia è la volontà dell’associazione di molte volontà, la volontà dell’evento.
Come si vede, la definizione della polifonia, carattere proprio del particolare genere di romanzo di cui si attribuisce la creazione a Dostoevskij, è ricalcata letteralmente su quella del principio architettonico supremo del mondo dell’atto umano. La mia ipotesi è che Bachtin avesse infatti pensato al romanzo polifonico, come ad una metafora dell’etica che era stato costretto ad interrompere.
– Insomma, usando quello che in retorica si chiama il discorso figurato, cioè un discorso che parla anche d’altro, perché, per un motivo qualsiasi, non può parlare essplicitamente del tema che interessa.
– Qualcosa del genere. Per questo non aveva esitato a contraddirsi, a dimenticare di essere arrivato a usare per l’autore e il suo rapporto con l’eroe, in qualunque fatto dell’arte, le parole di Hegel per il signore del servo: «coscienza di una coscienza». Arrestato, proprio in quello stesso mentre, con altri frequentatori di un circolo politico-religioso, non aveva potuto insistere sulla seconda intenzione. Il suo era diventato prudentemente, niente altro che un libro sui generis su Dostoevskij.
– Come si spiega allora il successo di questo libro e della sua seconda redazione?
– Ti rispondo con René Wellek. Che trovati i Problemi dell’opera di Dostoevskij nel corso della preparazione della sua antologia della critica dostoevskiana, li definì «ingenious», come dire costruiti con ingegno sottile e acuto, ma respinse come «falsa» la conclusione. Quanto alla seconda redazione, Bachtin resistette a lungo a quelli che gliela sollecitavano. Senza la giustificazione della metafora, ciò che aveva scritto nel Dostoevskij non gli piaceva più.
– Io lì ho infatti separato la forma dalla cosa principale. Direttamente non potevo parlare delle questioni principali.
– Di quali questioni principali?
– Di quelle filosofiche, di quello per cui soffrì Dostoevskij per tutta la vita – dell’esistenza di Dio.
E poiché l’interlocutore, Sergej G. Bočarov, dissentiva, lodando il libro:
– Sì, forse […] ma sono sempre studi letterari (di nuovo con una smorfia). Si resta sempre nel giro chiuso degli studi letterari, mentre deve esserci uno sbocco in mondi altri.
La rilettura di cui dico, attenta all’eco dei principi, degli inizi e delle scelte fondamentali, ecco un altro luogo, del 1971, in cui praticarla:
Nel campo della cultura il trovarsi fuori [vnenachodimost’ , categoria fondamentale, sul filo della “contrapposizione” 1920-1922] è la leva più potente della comprensione. Una cultura straniera si rivela più pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno anche altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più) solo agli occhi di un’altra cultura […] In un tale incontro dialogico di due culture esse non si fondono e non si confondono, ognuna conserva la propria unità e aperta interezza, ma esse si arricchiscono reciprocamente.
Il dialogo delle culture sottintende quello delle persone, di mezzo secolo prima. Ciò che rende diverse, e proprio perché tali capaci di reciproci arricchimenti, le culture, è l’indipendenza delle persone…
E’ comunque avendo per stregua un Bachtin restituito (più o meno) così all’intera sua difficile storia, alla sua effettiva identità, che si tratta di vedere se e fino a che punto reggano ancora, non solo le soluzioni interpretative, ma anche le connessioni e le assonanze, verificate finora dal Bachtin della critica corrente.
– E cioè? Puoi chiarirmelo con un esempio?
Per dirne una, e concludere, si sa finalmente per certo, parola di Bočarov, che fu Bachtin, a dettare Il marxismo e la filosofia del linguaggio a Valentin N. Vološinov, e a scrivere Il metodo formale e gli studi letterari per l’altro marxista in carriera Pavel N. Medvedev. Ma si sa anche che lo fece nella seconda metà degli anni 1920, dopo avere abbandonato a scanso di guai la filosofia morale, in quanto incompatibile, per come lui la professava, col marxismo al potere, ed essere finito in una tale depressione, da ispirare a Konstantin K. Vaginov il personaggio del filosofo nel Canto del capro.
[…] nei tempi andati a questo filosofo sarebbe toccata una cattedra prestigiosa. I giovani riverenti non si sarebbero staccati dai suoi libri. Ma ora non c’erano né cattedre, né libri, né giovani riverenti.
Non poté quindi farlo che materialmente, al massimo utilizzando, nella chiave a lui antipatica degli amici marxisteggianti, e per loro conto, qualche propria conoscenza o qualche proprio concetto particolari. Altro che scritti, come sono stati chiamati, deuterocanonici!
L’intervista finisce qui, e non perché Giovanni Mastroianni sia stanco (avete fatto il calcolo dell’età?); no, solo perché deve continuare a lavorare, a pensare e a scrivere per la sua raccolta di saggi. Che noi aspettiamo con grande curiosità.
- Ringrazio Gigi Spina e Giovanni Mastroianni per aver destinato ai lettori di Nazione Indiana questo prezioso contributo effeffe↩
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Una affettuoso e caro saluto al professore Mastroianni, maestro timido e sapiente. Attraverso di lui si riaffaccia in me il dolore per chi ho perso ma anche il sorriso di chi ancora lotta e spera.
Saluti
luciano
Quando vidi nella ex Biblioteca Lenin di Mosca gli scritti di Mastroianni mi commossi. A poca distanza da quel corridoio c’è, sotto le mura del Cremlino, una stele con il nome di Tommaso Campanella indicato come uno dei liberatori dell’umanità. Oltre quelle mura andò per i lavori dell’Internazionale il catanzarese Maruca che io bambino vedevo sull’uscio della sua bottega.Infine visse per anni a Mosca Giuseppe Garritano, Amantea, provincia di Cosenza, che presentò in Italia Bachtin. Per 20 anni (1970-1990) l’Italia di Enrico Berlinguer fu araldo della perestrojka. Poi la scelta frettolosa e infelice del Pds.