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Animale e minerale

di Goffredo Fofi

[prefazione a Le calligrafie del Corvo di Francette Vigneron, Nutrimenti 2011]

Per dire un male che appare più che umano, gli umani ricorrono spesso a metafore animali o addirittura minerali, esorcizzano il loro male attribuendone l’origine a qualcosa che umano non è. Il ‘mistero del male’ è il più terribile dei misteri che minano i nostri comportamenti individuali e le società che l’uomo ha edificato. Esso sembra non avere spiegazioni, anche se scientificamente molti, compreso Darwin, le hanno cercate e ci si sono accostati. Ma la scienza non ci ha certamente aiutato a combattere il male, a liberare noi umani dalle sue catene, dalle nostre nefaste pulsioni negative, distruttive. Questo che è di tutti il mistero più nero è ‘semplicemente’ il male insito nella nostra origine e nella stessa creazione, e le metafore animali che lo hanno descritto derivano forse dalla nostra origine animale, mai superata, controllata. E il male insito nella nostra origine, nella Creazione, non ha saputo risolverlo la Redenzione, il sacrificio del Cristo, Dio-Uomo.

Nella letteratura e nel cinema d’impronta decisamente puritana, il Male è il Diavolo; nella laica e razionale Francia che ha fatto la Rivoluzione dei Lumi, il Male viene da un altrove più concreto e vicino, e nel caso dei ‘fatti di Tulle’ evocati nella minuziosa ricostruzione giudiziaria e nelle sue possibili letture socio-antropologiche dall’ostinazione di Francette Vigneron, il Cattivo (il rappresentante del Male) si firma con una crudele immagine animale, l’Occhio di Tigre che scopriremo essere invece una pietra tagliente, forse preziosa. Nel film liberamente costruito ragionando su quei fatti dei primi anni Venti, Henri-Georges Clouzot e il suo sceneggiatore Louis Chavance chiamarono Corvo il misterioso autore delle lettere anonime che distruggono la pace (e l’ipocrisia su cui si basa) di una tranquilla, normale ‘piccola città’.

La letteratura francese – basti pensare a Balzac, Flaubert, Zola, Maupassant, Renard, Villiers – ha scavato a fondo nel male nascosto nell’ordinamento sociale e nella psicologia individuale e di gruppo, e nel groviglio economico e affettivo della vita di provincia. Non ha smesso di farlo nel Novecento, raggiungendo forse il suo apice nei romanzi sulla provincia, narrata perlopiù in chiave amarissima (Gide, Mauriac, Green, Bernanos, Simenon, Sartre…) ma anche in chiave ironica o comica (ancora Gide, Chevallier, Aymé, il teatro di boulevard…), con nuova insistenza negli anni dopo il ’68 soprattutto attraverso il noir (in testa Manchette). Non appartiene invece l’horror alla tradizione francese o italiana – e la differenza tra le due sta certamente nella presenza di una tradizione protestante che rende più duro il cattolicesimo francese, e nel dominio della controriforma in Italia, nella compiacenza e tolleranza cattolica verso il peccato e cioè il male. In questi paesi l’horror è poco e mal frequentato contrariamente all’America di origine protestante e puritana (King) dove l’horror sfocia nel metafisico anche quando ha basi perfettamente reali, come nell’eccelso esempio di A sangue freddo di Truman Capote. Nido di vipere titolava molto significativamente il cattolico Mauriac uno dei suoi romanzi migliori, poco comprensibile per i tolleranti letterati cattolici italiani. E un nido di vipere non era solo la famiglia, ma anche la piccola città. Una letteratura e un cinema vastissimi l’hanno raccontata, raramente italiani (Mastronardi, Signore e signori di Germi…) perché tutti hanno avuto e hanno le loro Peyton Place.

I fatti di Tulle ricostruiti dalla Vigneron continuano a impressionare per la ramificazione ed esplicitazione delle mille subdole tensioni presenti in una comunità, che finiscono per minare dal dentro ogni possibilità di convivenza serena, civile, soprattutto quando non vi siano forti conflitti di classe a determinare e in qualche modo a dar ragione nel ‘pubblico’ anche delle pulsioni del ‘privato’. È l’effetto cappa di vetro, l’effetto scatola chiusa in cui l’uomo si fa animale e si dilania con i simili per mancanza di spazio, di aria e di cielo.

La provincia francese ha solo oggi, grazie al benessere e alla generale trasformazione delle condizioni di vita, e ovviamente alla motorizzazione, un diverso e più autonomo rapporto con il centro (Parigi) e una diversa e più vasta possibilità di movimento. Non è una situazione ottimale, dal punto di vista della comunità e della socialità, ma è tuttavia qualcosa di più aperto che in passato. Questa nuova realtà è raccontata ‘al nero’ da Houellebecq e invece nei suoi aspetti positivi dall’ultimo Carrère, quello di Vite che non sono la mia. E ovviamente non tutto era così buio neanche negli anni Venti dello scorso secolo, quando i ‘fatti di Tulle’ emozionarono la Francia rivelando un’amara continuità tra letteratura e vita e tra vita e letteratura, dal nero al nero. Mentre a Tulle si scatenava infatti un’interna (intima) e distruttiva bufera, due o tre dipartimenti più in là, passando dal Limousin alle Alpi Marittime, dal centro della Francia a un sud ben più luminoso, da Tulle a Le Bar sur Loup, vi potevamo trovare in piena attività il maestro elementare Célestin Freinet intento a dar vita a un’esperienza pedagogica ariosa e calorosa e piena di una positività in cammino (l’école buissonière, la scuola del popolo, il Movimento di cooperazione educativa, i prodromi nientemeno della rivoluzione che nella scuola elementare doveva portare la ‘scuola attiva’: la sperimentazione più democratica e più aperta al futuro). Finita la Prima guerra mondiale e finito il massacro dei giovani soldati nelle trincee francesi, tedesche, russe, italiane, si apriva un’era di lotta e di speranza, di rinnovamento della società tutta. Si diceva a sinistra ed era nelle convinzioni popolari che la guerra mondiale dovesse essere la der des ders, l’ultima delle ultime, ma sappiamo che così non fu e che appena vent’anni dopo ne doveva scoppiare un’altra ancora più vasta, ancora più luttuosa.

Anche dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo assistito a un risveglio positivo, all’affermazione di una costruttiva e vitalità collettiva, a una ‘ricostruzione’ che ambiva a essere una nuova costruzione. E però anche dopo la Seconda guerra mondiale si sono confrontate una visione del mondo durissima, impietosa e pessimista, motivata da tutto ciò a cui si era assistito o che si era patito – la piena dimenticanza dell’umano, la macchina della guerra portata a perfezione a Auschwitz e a Hiroshima – con una più ottimista, talora superficiale anche se motivata dalla voglia di ricominciare, di edificare sulle macerie una società più giusta. I più dei sopravvissuti furono ottimisti, attivamente ottimisti, ottimisti di viva persuasione. Ma vi furono anche coloro che dal massacro recente non ce la facevano a derivare motivi di speranza, e a ridar fiducia all’uomo.

Facciamo dei nomi e arriviamo a Clouzot. Per ritornare indietro a Tulle. In Italia, per esempio, c’è stato in cinema il neorealismo, quello zavattiniano (‘buonista’) diffusore di speranza nonostante tutto, ma c’è stato anche Rossellini, quello di Germania anno zero e di Europa 51. Alla fine del primo, che chiude la storia del nazismo, e all’inizio del secondo, che parla della nuova realtà postbellica, c’è pur sempre il suicidio di un bambino, e non è cosa da poco… Meno vitale di quello italiano (perché meno distrutto dalla guerra, perché ha prosperato anche sotto un’occupazione tedesca molto lunga? perché non ha risentito dell’interruzione secca di una guerra civile?) il cinema francese ha abbandonato le vecchie strade solo molti anni dopo, al tempo delle nouvelles vagues in rotta con ‘il cinema di papà’. Ma negli anni di guerra esso ha pur visto l’affermazione, assieme a quella di Jacques Becker, fedele al passato renoiriano, di due registi che avrebbero segnato l’epoca successiva. Erano Robert Bresson, bernanosiano, convinto esploratore del Male cui contrappose, almeno nei primi film, la Grazia, e Henri-Georges Clouzot, autore nel 1943, sotto l’occupazione nazista, del Corvo, ispirato ai fatti di Tulle. Fu nella Francia liberata che egli girò quello che a mio giudizio è il suo film più bello e più puro, Manon, racconto di guerra e di dopoguerra, di un dopoguerra non meno malsano del tempo della guerra, una volta scontato l’ostracismo che Il Corvo gli aveva procurato presso le forze della Resistenza. Per via del Corvo, che ‘denigrava’ la Francia e sviliva l’immagine del suo popolo, Clouzot e Chavance, lo sceneggiatore del film, vennero ufficialmente puniti con un periodo di lontananza dalla pratica del cinema (la protagonista del Corvo, Corinne Luchaire, dichiaratamente collaborazionista, figlia di un teorico del fascismo e sorella di un militante filonazista che venne fucilato dalle forze della Liberazione, e che era tra l’altro figliastra di Gaetano Salvemini, venne rapata a zero e non fu certo la sola).

Quel che si vuol dire è che, di fronte all’immane carneficina di una guerra mondiale, a guerra finita fu possibile avere due reazioni contrapposte ed entrambe comprensibili, giustificabili: quella di chi ne derivò che l’uomo e le sue istituzioni sono votate alla violenza e al male, e chi al contrario si fece forte di nuove speranze, di tipo tradizionalmente umanistico. (Nella Germania del 1918, fu un best seller non solo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, anche L’uomo è buono di Leonhard Frank, il cui titolo il perfido Brecht commentò scrivendo: “Anche il vitello”).

I fatti di Tulle sono stati in Francia occasione di discussioni a non finire sul fondo malsano di una specifica società o sulla innata cattiveria del genere umano. Essi hanno ispirato Il Corvo, ma solo ispirato perché Il Corvo non rispetta la cronaca e ha un suo diverso discorso da fare, è una interpretazione lontana di quei fatti che mira più in alto, all’attualità di una ‘voga’ della delazione che attraversò la Francia dell’occupazione nazista, un fenomeno presente in altre situazioni a quella comparabili, ma, si direbbe, non con la stessa violenza e vastità. Insomma, Clouzot parlava del presente e non del passato, perché il presente era molto più preoccupante del passato e riguardava tutta la Francia dei suoi giorni, non la cittadina di Tulle di vent’anni prima, parlava della Francia dell’occupazione (e della collaborazione) e non di una provincia nel tempo di pace. E tuttavia i ‘fatti’ sono simili, il meccanismo della delazione, più losco che mai in tempo di conflitto bellico, è un fenomeno che si ripresenta periodicamente nelle cronache di tanta provincia. Se sembra diventare ossessivo in tempo di guerra, non sparisce certamente in tempo di pace. Frustrazioni e invidie ne sono all’origine, che scavano nel profondo di una propensione alla malvagità che fa parte dell’animo umano (e delle società animali) quanto la propensione al mutuo appoggio e alla solidarietà. I puritani più seri hanno parlato e tuttora parlano della ‘innata pravità’ dell’animo umano, gli altri del Diavolo, e anche Bresson, coetaneo di Clouzot, ha ceduto a questa convinzione quando, in una scena di uno dei più disperati tra i suoi film chiude una casuale discussione tra i passeggeri di un autobus sui fatti nefasti che ci attorniano con la battuta di una loro: “Il diavolo, probabilmente”.

La ricostruzione minuziosa, e proprio per questo agghiacciante dei ‘fatti di Tulle’ compiuta da Francette Vigneron ci pone gli stessi dubbi, elencando e descrivendo meccanismi che non sono solo di quegli anni e quel luogo. L’assenza della solarità di una convivenza sociale rassicurante per tutti ne è certo alla base, ma non basta a spiegare tutto. Il ‘mistero dell’iniquità’ rimane, anche nella morbosa psicologia di Angèle Laval, colei che venne infine giudicata a Tulle all’origine di tanta tensione, colei che con la sua contorta perfidia venne accusata di aver scoperto il ‘nido di vipere’ della ‘piccola città’.

Molti altri fatti di cronaca anche più truci hanno meritato in Francia dei film, spesso assai belli, e nel caso di Les bonnes un grande testo teatrale. È accaduto anche in Italia, con film non eccelsi (il ‘mostro di Roma’, Rina Fort, la saponificatrice Cianciulli, il ‘biondino di Primavalle’ eccetera), ma non ha trovato un riscontro cinematografico il ‘caso Montesi’, pur così dimostrativo della nostra specifica piaga del mistero politico. Politico e ‘cattolico’.

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4 Commenti

  1. Ancora una volta Fofi dimostra tutta la sua maestria ed ecletticità!
    Ottimo pezzo! E complimenti a Nazione Indiana per averlo pubblicato.
    M.

  2. La storia delle lettere anonime di Tulle, di questa velenosa atmosfera che travolse una cittadina apparentemente tranquilla; dove le minacce riguardavano piccoli tradimenti, piccoli furti, piccole malignità ma che portarono poi a suicidi e a processi clamorosi, m’è sempre parsa inquietante e paradigmatica del secolo scorso. Quando Clouzot e prima di lui Cocteau, la presero a spunto per le loro opere si era in piena occupazione nazista, in pieno collaborazionismo. E i ‘si dice’ riguardavano soprattutto l’essere o non essere conniventi con gli occupanti; l’avere o non avere rapporti con la resistenza. Finita la guerra ovviamente le parti s’invertirono e sia Cocteau che Clouzot furono sentiti dalla commissione alleata. Cocteau se la cavò, Clouzot fu condannato al silenzio.

  3. Goffredo Fofi traccia con intelligenza il ritratto della provincia francese: pesante, morbosa, cattiva. L’occhio spia la casa del vicino, la bocca
    murmura bugie. Si inventa il male, scorre il veleno nel corpo degli abitanti.

    Goffredo accenna a uno scrittore che ha marcato la mia giovinezza di lettrice: François Mauriac. Sovente lo scrittore mostra come un uomo
    diventa oggetto di disgusto dalla parte della famiglia. Attaccato, ferito al punto di pensare alla morte. La solitudine dell’uomo è più grande in una casa borghese, dove il male scorre mascherato. François Mauriac, parla di una solitudine da cui la natura solo ha la risposta. Nella foreste dei pini, l’uomo trova una consolazione al suo dolore. Carezza ruvida del tronco, profumo dell’oceano, rumore del vento e delle onde, sabbia dolce: questi elementi giocano lo stato dell’uomo: disgraziato ma salvato dalla natura. Invece Tulle è una città chiusa, senza possibilità di affrontare l’immensità e la bellezza. Il male non trova uscita.

    Grazie per questo bellissimo post.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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