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Lutz Seiler, Il peso del tempo

di Stefano Zangrando

fonte: http://fotoblog.zellophon.de/

Vi è un certo ardimento nel proporre, come ha fatto l’editore Del Vecchio, una collana dedicata alle short stories a un pubblico come quello italiano. Pure i buoni esiti continuano a non mancare un po’ ovunque, come dimostra lo stesso primo nato di questa «collana racconti», Il peso del tempo (traduzione di Paola Del Zoppo, pp. 232, € 15) dello scrittore tedesco Lutz Seiler. Il titolo è un lieve, felice scostamento dall’originale: la Zeitwaage, alla lettera «bilancia del tempo», è il cronocomparatore, uno strumento che amplifica il ticchettio dell’orologio per rilevarne le aritmie. Si tratta dunque di misurare il tempo, di “pesarlo” appunto, di vagliare cioè, fuor di metafora, le irregolarità, le sfasature, le incongruenze esistenziali dovute in primo luogo al congedo storico dalla RDT, ma che nascono in realtà da un sostrato più personale, da una pena variamente incarnata.

L’autore, nato nel 1963 a Gera, in Turingia, da una famiglia proletaria e con un passato da muratore e falegname, si era fatto conoscere soprattutto come poeta e saggista, finché nel 2007 aveva vinto il premio Ingeborg Bachmann con un racconto, Tuksib, poi confluito in questa prima raccolta. Vi si narra del viaggio in treno in Kazakistan – un viaggio ufficiale, con interprete al seguito – di una recluta dell’esercito tedesco-orientale, un giovane inseparabile dal contatore Geiger che nasconde nel taschino. Non è forse il testo più adatto a esemplificare l’estetica complessiva dell’opera, orientato com’è a una rappresentazione assai grottesca e claustrofobica, il cui culmine memorabile è nell’incontro finale con il fiero e marziale fuochista kazako tutto preso a intonare con il suo pesante accento i primi versi della Lorelei di Heine, la più celebre romanza tedesca. Con gli altri testi della raccolta questo racconto condivide del resto la vocazione memoriale, autobiografica e antispettacolare, per cui tutto è condotto da una narrazione lenta e precisa, «morosa» per dirla con il Goethe teorico del romanzo, capace di fondere azioni e descrizioni, forma e ricordo in un dettato di straordinaria densità, in una sorta di sospensione temporale che tuttavia non pregiudica il ritmo narrativo e che, insomma, è tutt’altro che noiosa. Seiler ha infatti la capacità di avvolgere il lettore in questo nabokoviano “paradiso di dettagli”, per creare il quale egli attinge senz’altro alle proprie qualità di poeta.

Vi è poi un tratto comune ai vari protagonisti di queste storie, ed è un grumo insolubile di malinconia e senso di colpa, l’attitudine riflessiva e dolente di un personaggio cui il senso delle cose pare sfuggire o, nella migliore delle ipotesi, svelarsi in un tempo ormai trascorso, consegnato a un’altra epoca. Di qui il disadattamento e l’inettitudine che contraddistinguono ad esempio il Färber dei primi due racconti, gli unici ambientati fuori dalla Germania. Frank vive l’inizio di una crisi coniugale – la stessa che pervade di un muto dolore altri suoi simili in alcuni racconti successivi – durante un viaggio negli Stati Uniti, visitati per la prima volta. L’uomo è prostrato dal senso di un fallimento imminente e la narrazione ne segue a distanza ravvicinata lo sfaldamento percettivo. Così, se nel primo testo la trama si riduce all’attesa di entrare in un ristorante lontano da casa, mentre a un gabbiano incastrato in un secchione tocca assolvere una triste funzione simbolica, nel secondo questa vena analogica si estende all’incontro surreale con un improbabile sciamano di strada, un «soffiatore di anime» che, grazie a un ingombrante macchinario, produce enormi bolle di sapone contenenti, a dir suo, gli spiriti di chissà quali avi. La poesia di Seiler raggiunge qui un apice quando, di fronte alla figlioletta scelta come cavia del rito-show culminante e avvolta ormai in una grande bolla che ne confonde l’immagine, l’apatico protagonista asseconda maldestro un residuo impulso di ribellione: «in quel momento Färber vide se stesso: un riflesso grottesco, una striscia nell’oleoso specchio degli antenati, la cui essenza si era coperta, come impura o deteriorata, di macchie scure. Sulla pellicola di sapone Färber era completamente solo; era invecchiato e aveva i tratti della madre, e qualcosa non quadrava con la prospettiva: si restrinse, confluì, concavo-convesso, gli passò per la testa, ma le sue conoscenze scolastiche non lo raggiungevano più. Le sue mani, già simili a quelle di un folletto, si agitavano per aria, completamente impotenti e sperdute. Devo rompere la bolla azteca, era il suo unico pensiero; in preda al panico, con entrambe le braccia in avanti, Färber assalì lo specchio untuoso e sparì».

I racconti centrali hanno come ambientazione ricorrente la provincia tedesca orientale nei decenni precedenti il crollo del Muro, e il mondo rievocato è quello dell’infanzia e della giovinezza. Il bacio sul cappuccio narra i dolori e i turbamenti di uno scolaro “diverso”, esplorandone la solitudine e gli affetti in un ambiente dalle tinte grigie, a tratti cupo e violento; Il merlo della colpa torna su questo sentimento dominante attraverso la vicenda di un merlo ferito e lasciato morire per sbaglio da un ragazzino segnato da un’innocente sbadataggine; Il balbuziente porta il tipo del giovane protagonista sulla soglia della pubertà, inscenando la sua scelta inconsapevole di un nuovo riferimento adulto, di un primo modello extra-parentale; e sempre la narrazione è accompagnata da una profonda cognizione letteraria, umana e ambientale, che calibra ogni singola parola e scava a fondo nei temi e nei paesaggi che tratta, fino a esaurirne, pur con un’allusività a tratti estrema, il potenziale poetico e di verità: come se più a fondo, in quell’anamnesi, non si potesse andare.

L’espressione compiuta di questa poetica, dopo l’intermezzo poco meno che visionario de Le abluzioni serali, in cui assistiamo alla morte assurda di un aspirante scrittore atterrato da una botta in fronte, è nella «Trilogia degli scacchi». Se il primo dei tre racconti funge da raccordo con il tema della fine dell’infanzia, qui tradotto nella prima vittoria del figlio sul padre (che è anche l’ultima partita tra i due), mentre il terzo tenta un ricongiungimento postumo lasciando che sia la voce del padre a ripercorrere la propria passione per il gioco, è però nel secondo, dedicato a un amore al tempo dell’università, che emerge l’imperativo profondo della prosa di Seiler. Ripartito su diversi decenni, il ricordo di Gavroche – così battezzata da un compagno di studi per una qualche somiglianza con l’omonimo personaggio dei Miserabili –, del suo daimon scacchistico e della sua incantevole vitalità, approda alla scoperta costernata della sua morte recente da parte dell’autore, ormai tutt’uno con la voce narrante. Seguiamo allora il racconto nel suo stesso farsi, e il narratore nel suo tentativo tardivo di salvare ciò che resta: «era solo importante non falsificare nulla, non inventare nulla, o comunque non far prendere il sopravento all’invenzione, che deve servire a rendere più esatto ciò che si vuole raccontare… dovevo trovare un modo per accomiatarmi, una pietra sepolcrale».

Alla luce di quest’intenzione, il racconto che conclude la raccolta e dà il titolo al volume è anche, o soprattutto, la narrazione definitiva di un destino: un destino “minore”, tuttavia, se la nascita dello scrittore coincide con la morte dell’operaio berlinese che, ritratto come un eroe epico, pareva incarnare agli occhi dell’uomo spezzato un’impossibile pienezza di vita, padrona di sé e del proprio mondo: «avvertivo l’inoppugnabilità, la certezza priva di dubbi del suo “essere”… I suoi gesti mi apparivano puri e compiuti». Ben diverso, e non privo di un ambiguo disprezzo di sé, è l’appellativo di «sognatore» che il narratore riserva a se stesso, benché a conti fatti sia proprio questo ad avergli permesso di rinascere, trovando la strada che lo avrebbe portato, anni dopo, a pesare, a misurare quel tempo: a ripensarlo quindi, a “ponderarne” lo scorrere ineluttabile entro un processo di smarrimento storico e individuale.

da: Alias, n. 27, 9 luglio 201

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5 Commenti

  1. In realtà le short stories vanno di moda da anni. Ricordate ad esempio le “Pillole” made in Anonima Scrittori? Non vedo dunque ardimento alcuno. Semplicemente la gente ha meno tempo di leggere e tutto va via veloce. Anni fa, quando dovevo recensire un libro, me lo spedivano e ci metteva giorni se non settimane. A volte non arrivava proprio. Si vede che ai postini piace leggere. Oggi mi arriva in formato pdf, in tre secondi.

  2. Sarà pure vero quello che dici,
    ma è vero anche che molti editori anche se un libro è una raccolta di racconti non lo scrivano, o facciano in modo che sia sotteso, o non so quale altro stratagemma utilizzano pur di non dire che sono racconti.
    C’è la fobia del racconto. Sembra vada bene solo on line.
    Questa cosa succede, e succede spesso. Il mercato, questa è una cosa che si dice da anni, rifiuta i racconti; i librai, gli editori, i promotori dicono che non si vendono e non si leggono.
    forse è una leggenda…
    non so

  3. mi spiace contraddire, però non è vero che le short stories siano alla moda. è un falso. gli editori pubblicano pochissimi libri di racconti perché i racconti vendono molto meno dei romanzi. questo è un fatto sui non si può almanaccare o filosofeggiare.

  4. @ Filippo: “La bellezza e l’inferno” di Saviano è proprio un esempio di quel che dici. Lo sto leggendo in questi giorni e mi ha molto deluso. Ma in fondo anche Gomorra è un libro di racconti o meglio di storie. Il romanzo è un’altra cosa.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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