Nuovi autismi 3 – La mia carriera letteraria
di Giacomo Sartori
Il mio ultimo romanzo è andato benissimo: nessuno l’ha comprato, nessuno l’ha recensito, nessuno ne ha parlato. Nessuno mi ha invitato a discuterne da qualche parte, nessuno mi ha cooptato a un qualche festival letterario. Nemmeno a uno piccoletto, in uno di quei villaggi abbioccati dove gli scrittori locali inscenano scialbe ruotine di provincia (anche ai festival preclari gli scrittori fanno la ruota, ma è una ruota celebre e rifulgente), nemmeno quando il tema prescelto era giustappunto quello del romanzo. A me piace fare le cose bene, adoro la purezza. Prima purtroppo qualche derelitto dei miei romanzi ne parlava (nelle catacombe dei blog, su qualche confidenziale periodico cartaceo), il che un po’ mi rattristava. Adesso invece ho fatto enormi progressi: finalmente attorno ai miei testi il silenzio è puro e grandioso. Le cose vanno fatte bene: ci vuole un’inossidabile professionalità, molta dedizione. E naturalmente tanto talento, perché senza quello non si fa nulla. Prima di tutto bisogna saper scegliere il momento. Se per esempio sulle pagine cosiddette culturali dei quotidiani frotte di boriosi critici deprecano la marea di noir che converge sui banchi dei librai, quello è il momento ottimale per mettere in cantiere un noir. Un noir anche molto atipico, inatteso e bellissimo, un capolavoro, ma pur sempre un noir. Al limite un finto noir, ma che abbia pur sempre l’apparenza di un noir. La cosa più sicura è però disseppellire un soggetto ostico e fuori moda, o anche solo ineluttabilmente prematuro. Meglio ancora: un vero e proprio tabù nazionale. Rifuggendo beninteso le attitudini rivelatrici o provocatorie (che potrebbe risvegliare un pavloviano interesse dei media), e dipanandolo invece nella sua contraddittoria e inestinguibile complessità: battendo le rotte meno dirette e appariscenti, più inattuali, più a controcorrente. Bisogna accumulare una viscerale competenza sui tic e sui cliché della cultura nazionale, per evitare tutti gli agguati, per non offrire alcun appiglio. Ma naturalmente l’argomento non può fare tutto: anche lo stile va curato al massimo. La cosa più sicura è scrivere molto bene, non però alla maniera che si intende comunemente, dove ogni frase – in reazione alla scialbezza imperante, funzionale a un disavanzo di senso – sembra gridare “guarda che bel vestito indosso!”, ma anzi con un’eleganza dimessa e pacata, una classe austera e esigentissima, inattesa e imprevedibile: in questo modo tutti daranno per scontato, non ritrovandosi, che il romanzo sia scritto molto male, e il gioco è fatto. L’importante è puntare sul tempo: la grazia e la grandezza del testo devono rivelarsi solo a una lettura partecipe e molto vigile, paziente, quasi ostinata: vanno occultate, rese quasi inaccessibili. I recensori hanno già anche troppi fardelli obbligati – le fuoriserie dirette a gran carriera verso i premi e di cui tutti parlano – da smazzarsi, quindi i libri meno necessari li leggiucchiano, se proprio se li ritrovano per le mani, spiluccando qua e là, con occhio tediato e prevenuto. E allora per andare sul sicuro le frasi devono avere già di primo acchito un che di ostico e quasi repellente, in modo che il frettoloso esegeta non ne colga la vera essenza, e interrompa la lettura. Ma attenzione, basta la minima disattenzione, il minimo effetto scontato, la minima caduta di intelligenza, la meno auspicata scorrevolezza, e il recensore può drizzare le orecchie, come i muli quando riconoscono un cammino appunto da muli: può continuare la chiamiamola così passeggiata veloce, può risvegliarsi alle sottese intimità delle frasi. Addio ripulsa, addio fallimento. Questi però sono solo i caratteri intrinseci: come tutti sappiamo di questi tempi conta soprattutto l’immagine. Bisogna che attorno a un testo si crei un alone di sconcerto, di ignominiosa disfatta, di raccapriccio: occorre che tutti gli editori lo abbiano rifiutato. Come quelle donne con la reputazione ormai irrimediabilmente compromessa, infrequentabili. Non bisogna lesinare, bisogna immergersi con coraggio nella palude egodevastante dei dinieghi. Ci vuole tempo, determinazione, costanza. Qualche volta si teme un illuminato colpo di testa, ma poi per fortuna il testo viene ancora rigettato, si può continuare. Il manoscritto del mio ultimo romanzo è stato bocciato da tutti gli editori, proprio tutti, anche quelli asserragliati in due stanzette umidicce: l’elenco farebbe impallidire il lagnoso Antonio Moresco. Già lì ho capito che le cose si mettevano bene, che avrei superato me stesso. Ma naturalmente non basta. Quando poi il libro è stampato, perché uno psicopatico disposto a perdere dei soldi finisce sempre per saltare fuori, bisogna giocarsela molto bene. La cosa ottimale è non conoscere nessun addetto ai lavori: vivere in una segregata provincia, occuparsi di mucche e licheni, non schiodarsi dal bar del villaggio. O al limite soggiornare ogni tanto nella Dancalia, come faccio appunto io. Purtroppo in questo paese un conoscente del mestiere o peggio ancora un amico è una mina vagante: una recensione te la fa sempre, un qualche aiuto te lo dà. C’è il grosso rischio che il libro arrivi in un pugno di ardite librerie, che qualche lettore lo prenda in mano. Quindi se per disgrazia si ha un compare o una conoscenza con una qualche influenza, anche infima, bisogna lavorarsela ai fianchi finché non ne possa più, finché non risponda più ai messaggi di posta elettronica. Anche qui ci vuole tempo e pazienza, ci vuole l’intuizione per tirare fuori la cosa spiacevole al momento giusto: non esitando a offendere, con la scusa di omaggiare, quando la sola insistenza non ha effetto. Occorre che quando esce il libro attorno all’autore si estenda il deserto più inospitale: un meschino individuo – un escremento di dromedario – solo con il suo importuno testo. Ma naturalmente a questo punto giova inimicarsi con qualche mossa azzeccata anche l’editore, farlo pentire di aver accettato di perdere dei quattrini. Mostrandosi supponenti e sprezzanti soprattutto con l’ufficio stampa, ribadendo a ogni frase la propria incompresa superiorità, la meschinità del loro indaffararsi. Ma pure questo non è sufficiente. Ci vuole anche un po’ di fortuna, come in tutte le cose. Io grazie a dio ho avuto fortuna.
Ben detto. Sottoscrivo con gioia perversa. Godo perversamente. Io per esempio ho un blog che avrà venti lettori. E pubblico roba buona. Talvolta mi viene il ghiribuzzo di – come si dice? – promuoverlo, cioè fare “promozione”, ma poi dico che è più divertente pubblicare roba buona, anzi, ottima, senza che nessuno lo sappia. E invece che soddisfazione vedere 120.000 persone, perlopiù giovani, andare al concerto di uno stagionato “rocker” di 51 anni coi capelli tinti che da venti o trent’anni fa sempre lo stesso pezzo. E’ una conferma, mio caro. Sono certezze. Sono soddisfazioni.
Coerenza avrebbe richiesto che i commenti fossero disabilitati…
passavo di qua.
giuro che non ce l’ho con te.
ho letto tutto.
mi sono incagliata solo su “può risvegliarsi alle sottese intimità delle frasi”.
troppo scorrevole, effettivamente.
(il libro non lessi).
il mio ultimo libro invece ha venduto 88 copie: un pò troppe.
In compenso però son riuscito a fare una presentazione letteraria a cui non è venuto nessuno.
(Spero non sia già stato postato su NI)
rovesciando l’affermazione di pavese secondo cui se date una platea adeguata a un taciturno questi la sommergerà di parole possiamo dire che togliendole tutte a chi a qualcosa da dire
http://seekwell.ru/files/music/music/OST/OST%20-%20Mexican/12_The_Mexican.mp3
Leggendo il racconto, ho provato due emozioni diverse: tristezza e ironia.
Quando il silenzio circonda un libro, lo scrittore sente solitudine più grande.
Il libro è uscito, ma nessuno non lo guarda, si passa davanti, poi il titolo si dimentica nella foreste degli altri, o e nascosto da un titolo più famoso.
Quando un libro è nel sogno, tutta la bellezza è sulla linea d’orizzonte, si spera una lunga vita. Non è narcissismo, ma sentimento di essere riconosciuto come scrittore, nella sua identità.
Se puo afferrare anche l’ironia di Giacomo Sartori, a mezzo cammino tra la distanza e la crudeltà.
Aggiungo amo leggere i libri di Giacomo Sartori, sono tradotti in francese. Non ho ancora lettero cielo nero, ma lo faro. Sono in ritardo nelle mie letture italiane. Spero trovare a Marsiglia una libreria italiana. Qui a Arles, non c’è.
Auguro bella vita a Cielo Nero. Spero ritrovare lo stile particolare di Giacomo Sartori. Ma non confondo narratore di autismi e scrittore.
Pensavo che i migliori racconti sulla sfiga degli scrittori, li avesse scritti Bukowski. Sartori mi fa ricredere. Amo l’ironia crudele (grazie Véronique) di Sartori, in cui le debolezze dell’epoca e quelle dell’individuo si sposano così bene, impietosamente.
“un meschino individuo […] solo con il suo importuno testo”
per conto mio, è la perfetta definizione dello scrittore!
Capisco qualsiasi cosa, sì, ma accostare questo “autismo”, definizione azzeccatissima, di Giacomo Sartori con il raccontare balordo, randagio, flatulente, narcisistico e carnalissimo di Bukoswki, con tanto di piccola classifica personale, secondo me provoca un ribaltamento da giudizio a chiacchiera.
Poi, ci mancherebbe! ognuno trova divertente, meglio: stimolante!; quel che vuole lui, la peripezia di una cagata in mezzo al prato dopo aver mangiato avanzi di hamburger per una settimana – per risparmiare quel che occorre a pagarsi qualche ora di connessione e inviare racconti via mail alle riviste che neanche accettano l’avviso di lettura, o le epiche attese davanti a campo-fiorito aspettando arrivi qualche news sulle vendite del proprio romanzo, refreshando spesso la casella di posta personale, vuoi mai si fosse mosso qualcosa nella stitica industria culturale che a criticarla si fa sempre bene, basta poi non le si chieda intanto se le avanza un posto fisso.
La Letteratura – ma questa è la mia chiacchiera – meno parla di letteratura e del suo mercato, più ha qualche occasione di essere tale.
I soldi sono un discorso a parte.
Un saluto!,
Antonio Coda
non ho capito se “il raccontare balordo, randagio, flatulente, narcisistico e carnalissimo di Bukoswki” sia un’espressione di disistima o meno(probabilmente è colpa mia anzi sicuramente.Perchè il vecchio Hank poteva anche non piacere,anzi penso che gli facesse pure piacere pur di non rimanere invischiato nella mediocrità.Ma non è molto facile ridurre la sua opera in un giudizio sintetico inequivoco).IL rischio in questi casi è non cadere mai nella trappola tesa dal vittimismo che si nutre di frustrazione.In tal senso mi spiace davvero citare Beah,di cui adoro il ritmo sincopato della scrittura,le argomentazioni,e con cui condivido una fede calcistica.Ma trovo pittosto detestabile che lo stesso in ogni dove(paratesti,interviste etc)rinfacci alle classi politiche degli ultimi 30 anni una certa carica persecutoria che l’ha tenuto lontano da prosceni adeguati mentre abbiamo sempre potuto ascoltarlo o leggerlo assai volentieri(contrariamente a quanto non abbiamo potuto fare con tutti coloro che magari ci avrebbero pure potuto cambiare la vita leggendoli e ci siamo perduti senza nemmeno saperlo)
http://files.roswell-high.net/Roswell/Roswell_Music/New_Soundtracks/TV_OST/217%20-%20Beth%20Orton%20-%20She%20Cries%20Your%20Name.mp3
Diamonds,
giusto per evitare equivoci: io di Bukowski arrivo a pensare tutto il male possibile, scritturalmente parlando, ma credo comunque che sia una degli autori più irrinunciabili da leggere, se ci si vuole fare la benché minima idea di cosa significhi “scrivere”.
Spero di essere stato equivocabile come prima, in realtà.
In questo pezzo di Sartori, invece, non c’è spazio all’equivoco, ma non è questo, o non solo questo, a fare del pezzo pubblicato qualcosa che, a leggerlo come no, non cambia granché.
In ogni caso non penso sia nell’automatismo qui pubblicato liberamente che si esprima “il” Sartori autore.
Un saluto!,
Antonio Coda
Claro Antonio.Gracias
La vita di Borodin(di charles bukowski)
la prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che era solo un farmacista
che scriveva musica per distrarsi;
la sua casa era piena di gente:
studenti, artisti, barboni, ubriaconi,
e lui non sapeva mai dire di no.
la prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che sua moglie usava le sue composizioni
per foderare la cuccia del gatto
o coprire vasi di latte acido;
aveva l’asma e l’insonnia
e gli dava da mangiare uova à la coque
e quando lui voleva coprirsi la testa
per non sentire i rumori della casa
gli lasciava usare soltanto il lenzuolo;
per giunta c’era sempre qualcuno
nel suo letto
(dormivano separati quando proprio
dormivano)
e siccome tutte le sedie
erano sempre occupate
spesso lui dormiva sulle scale
avvolto in un vecchio scialle;
era lei a dirgli di tagliarsi le unghie,
di non cantare o fischiare
di non mettere troppo limone nel tè
di non schiacciarlo col cucchiaino;
Sinfonia n.2 in si minore
Il principe Igor
Nelle steppe dell’Asia centrale
riusciva a dormire solo mettendosi
un pezzo di stoffa scura sopra gli occhi;
nel 1887 partecipò a un ballo
all’Accademia di medicina
indossando un allegro costume nazionale;
sembrava finalmente di un’insolita gaiezza
e quando cadde sul pavimento,
pensarono che volesse fare il pagliaccio.
la prossima volta che ascolti Borodin
ricorda…
E’ tutto chiaro,meglio Sartori di Buk……
Un bel saggio di understatement volpino,magari capita che il libro di Sartori venga recensito da Belardinelli o soci,che ci toccherà di leggere?
@ inglese
Bukowsky?
il mio personaggio mica ha toccato il culo dell’addetta stampa, e nemmeno ha vomitato sulla scrivania dell’editore, no? si e’ comportato benino!