Reinhard Jirgl: Scrivere sulle rovine dell’io
Una presentazione del vincitore del Premio Georg Büchner 2010, ovvero un messaggio dalla Germania dell’anno XXII.
di Daniel Abbruzzese
La Germania deve prepararsi a tempi difficili come mai nella sua storia, proclamò la cancelliera Angela Merkel all’indomani della sua rielezione, novella Cesare, a cui a tutt’oggi manca però un Dottor Caligari. Gans-Doitschland, ormai lanciata nell’empireo della ricrescita economica, ha rinunciato a trovare un’interpretazione ad una dichiarazione così patetica. Certa critica letteraria, invece, sembra essere ancora memore di quella sentenza: mai è andata così male come oggi alla letteratura tedesca, incapace di venire a capo dell’insanabile contraddizione fra linguaggio ed intrattenimento; questo almeno il sospetto che sembra serpeggiare in numerose recensioni. In esso si esprime il dubbio che la lingua tedesca sia incapace di confrontarsi con l’alterità, o, meglio, che tale confronto non possa che presupporre un’autoabolizione della propria lingua e cultura. Proprio questa impossibilità di un confronto con l’altro, in special modo con le culture estranee all’Occidente, era il tema del best seller degli ultimi mesi, il pamphlet dai toni spengleriani Deutschland schafft sich ab (“La Germania si abolisce”), redatto da Thilo Sarrazin. L’imbastardirsi della lingua tedesca, riconoscibile nel Denglisch, quella mistura fra tedesco e linguaggio anglosassone, familiare ormai a molti popoli europei, così come nel Türkendeutsch parlato dai figli di immigrati “non integrabili”, potrebbero apparire come due facce della medaglia su cui è impressa la debolezza della Civiltà tedesca; oppure, il presunto distacco della Cultura, irriducibile testimone dell’impossibilità di un confronto con l’altro, dal quotidiano. Sono insomma lontani i tempi in cui l’importazione di modelli d’Oltreoceano garantiva per l’attualità dello scrivere nel mondo germanico. A qualcuno è sembrato singolare (funesto?) il fatto che il premio Georg Büchner sia stato spesso conferito, negli ultimi anni, ad autori che “offrirebbero letteratura di qualità, ma che non si sarebbero ancora garantiti una fama”[1]: prima di Jirgl, nel 2010, era stata la volta, ad esempio, di Oskar Pastior (assegnazione, fra l’altro, postuma) e Josef Winkler. Su di loro si era potuto leggere qualche articolo negli elzeviri, ma essi rimanevano, ad ogni modo, autori “di nicchia”, a tratti troppo “sperimentali” per arrivare alle masse; o, altrimenti interpretato: autori che non si possono ancora guadagnare da vivere con la sola attività letteraria[2]. In questa definizione appare evidente il ruolo che molta critica letteraria (senz’altro non solo nello spazio linguistico tedesco) si è assegnata, sotto costrizione?: porsi come norma di quella terra di nessuno che sta fra l’offerta letteraria ed il crescente disinteresse del pubblico. Riemerge quanto mai chiaro il ricordo del giudizio di Walter Benjamin sulla critica letteraria nel mondo germanico: pressoché inesistente, almeno fino agli anni Venti.
Ad ogni modo, le decisioni della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung, ente al di là del bene e del male, rimangono insindacabili per ogni critico. All’autore spetta però l’onere, in occasione della premiazione, di affermare il valore positivo della propria opera. Reinhard Jirgl ha tentato di farlo tramite un paragone fra la sua esistenza di scrittore proveniente dalla Repubblica Democratica Tedesca e quella di Georg Büchner, a cui il premio letterario è intitolato[3]. Al suo discorso di ringraziamento è stata giustapposta, forse non a caso, una conferenza di Günter Grass, lo scrittore che impersona al meglio la corrispondenza fra la lingua tedesca successiva all’ora zero e la possibilità di raccontare ad un grande pubblico. Grass si è profuso in una dichiarazione d’amore per l’opera dei fratelli Grimm, sulla quale si basa la sua ultima fatica, ed ha così lusingato il pubblico parlando di quanto la freschezza della lingua dei Grimm risulti ancora estremamente attuale.
Meno consolatorio era stato il discorso di Jirgl, rievocante un passato che si vorrebbe edulcorato dall’ironia à la Goodbye Lenin, quando non rimosso in base a canoni puramente ideologici. Egli non ha parlato della crudeltà del regime socialista, ma, piuttosto, della persistente grigia ottusità con cui il fine ultimo della DDR, la cancellazione dell’Io, veniva portato a termine . Soprattutto, non ha parlato del ruolo di testimone che il letterato avrebbe dovuto avere allora; al contrario, la funzione della letteratura non poteva che rimanere l’unica forma di resistenza alla reificazione della lingua a fini burocratico-ideologici; la forma di questa doveva quindi situarsi in un’area grigia sospesa fra il comportamento antisocialista ed il “selvaggio”, come rammentano numerose figure nell’opera dell’autore berlinese. Il lungo aneddoto del Genio della foresta, che taglia in due la narrazione di Abtrünnig – Roman aus der nervösen Zeit (“Apostata – Romanzo dell’epoca nervosa”, 2004), sembra essere paradigmatica per questa vita non activa dello scrittore: un anonimo ex-studente di filosofia, ex-soldato nell’Armata Nazionale Popolare, ex-operaio metalmeccanico, scelto un sistema di vita e di pensiero non contemplato dallo stato socialista, si rifugia in una roulotte nelle foreste intorno a Berlino, per lavorare come boscaiolo, e, nei momenti liberi, stilare fogli e fogli di appunti. La notte in cui il muro cade, egli si mette in cammino verso la parte addormentata della città, ancora indifferente ai festeggiamenti in corso al di là della cortina di ferro, con in mano il plico redatto in tutti gli anni precedenti. Questo cammino non è certo carico di speranza, ma, piuttosto, dettato da una necessità ancora in cerca di risposta.
A chi conosce alcuni dati della biografia di Jirgl, non sfuggirà la similitudine fra la figura rappresentata in “Apostata” e quella dell’ingegnere elettrotecnico che, entrato casualmente in contatto con Heiner Müller, si risolverà a pubblicare solo dopo il 1990. Tuttavia, è forse il caso di ripeterlo, il fatto di non cercare un confronto con il pubblico durante il socialismo reale è una scelta dettata dall’impossibilità di compromettersi con un linguaggio totalmente compromesso. Tanto meno la decisione di uscire allo scoperto nella Germania riunificata ha un carattere politico: come viene formulato in uno dei tanti monologhi che costituiscono gran parte di Die atlantische Mauer (“Il muro atlantico”, 2000), il socialismo ha infatti finalmente vinto nel momento attuale, in cui il programma di distruzione dell’Io è arrivato alla sua totale attuazione.
Per questo, Reinhard Jirgl non può essere definito come testimone, né come cronista di un epoca, e risulta, dunque, difficilmente classificabile. Neanche le fonti di ispirazione citate dall’autore nelle interviste sono di qualche aiuto nel definirlo: Jack London, Ernst Jünger, James Joyce, Gottfried Benn sarebbero fra i suoi riferimenti principali. Ad Arno Schmidt, cui il suo stile sembra dovere non poco, egli accorda un ruolo importante nell’avergli fatto capire cosa fosse possibile fare con la lingua. Di Uwe Johnson, a cui il ricordo del lettore non può che tornare in molte vicende, specialmente in quella ambientata fra (ex-)DDR e Stati Uniti in Die atlantische Mauer, egli dice di non averne potuto leggere che poche pagine, per autodifesa. Tuttavia, all’interno delle opere sono moltissimi i riferimenti alla tradizione letteraria degli ultimi due secoli, da August Strindberg (apertamente citato già nel titolo di Im offenen Meer (“In mare aperto”, 2000), a Kafka, fino ad Hans Henny Jahnn… Nessuna di queste citazioni si rivela, però, di aiuto in una classificazione univoca dell’opera di Jirgl.
La definizione che più spesso è stata data della sua opera è sperrig, ingombrante, ovvero chiusa alla comprensione, ovvero complicata da leggere, ovvero letteratura “alta”, anche se, in qualche modo, probabilmente bella. Ma, dove non arriva la capacità di interpretazione, là si sospende anche il giudizio estetico. A conti fatti, la vera e propria problematicità della lingua e dell’opera di Jirgl risiede nel cogliere perfettamente la frattura fra la lingua letteraria ed il suono della lingua vivente. Il far saltare in aria la netta divisione che si è creata nella lingua tedesca fra suono e parola (di cui la recente e discussa riforma ortografica non è che un sintomo fra i tanti) equivale, infine, all’accettazione di una società senza classi e senza memoria. Ciò che rimane fra le macerie di questa implosione sono abbozzi di individui, gli uni simili agli altri, come lo sono appunto tutte le figure che popolano i romanzi di Reinhard Jirgl. Non l’essere rappresentati tramite il medium letterario, ma la possibilità di esprimersi verbalmente rimane l’unica attestazione della loro effettiva esistenza. E, tuttavia, il destino loro assegnato sembra accomunarli tutti: la fortuna finisce sempre per guardare ad ogni singolo, ma, quasi sempre, lo fa nel momento meno opportuno.
Si è parlato di una visione negativa, a tal proposito: Jirgl ribatte con il motto che si ripete di frequente in tutto il suo poema: “ognuno ottiene solo ciò di cui ha bisogno, ed è comunque sempre il meglio che gli possa capitare”. La tragicità risiede dunque non nella storia del singolo, ma nel ripetersi all’infinito di vicende sfortunate, una simile all’altra, indipendentemente dal luogo e dal momento storico. È appunto questa comunanza, o, meglio, uguaglianza dei destini a costituire l’essenza della storia nell’epoca della società senza classi, il Novecento che ancora non ha trovato una fine. Solo in questo senso è comprensibile il rapporto di Jirgl con la storia, così come la stringente attualità della sua narrazione.
Uno dei dati particolarmente stranianti della sua opera è il trattamento dei personaggi: ognuno di essi è simile e pari all’altro, tanto da perdere spesso il diritto ad un nome, in cambio di un ruolo di io narrante; tanto da fondere il suo raccontare in una lingua collettiva, a momenti marcatamente dialettale, impetuosa, a tratti, invece, talmente sentenziosa da rinunciare ad ogni distanza dal cliché. In mezzo a questo flusso narrativo, si riconoscono frammenti di autobiografismo, o di acute critiche alle strutture ed alle espressioni estetiche di questa epoca – il Quatschocento, come viene spesso definita la manifestazione di queste ultime, con un neologismo che contiene in sé il termine Quatsch, chiacchiera, stupidaggine, e che allude al carattere mediterraneo-archeologico del jet-set culturale.
Per il lettore risulta in un primo momento imbarazzante il non capire chi stia esattamente parlando in determinati punti del testo – in altri termini, chi stia prendendo parte alla lingua; ma il ricostruire, di volta in volta, i caratteri dei singoli personaggi diviene poi un gioco avvincente, che va a scontrarsi, infine, ancora, contro l’evidenza di un linguaggio che sfugge alla narrazione e prescinde dal personaggio – ci troviamo, insomma, di fronte alle estreme conseguenze di Beckett.
Eppure si è spesso voluto isolare, in questa sorta di coralità anonimizzante, l’archetipo del doppio: nei due fratelli in competizione per un’unica amante in Abschied von den Feinden (“Congedo dai nemici”, 1995), nelle diverse coppie dialogiche che animano “Il muro atlantico”, nel giornalista free-lance dell’Ovest e nella guardia di frontiera dell’Est in Abtrünnig. Può essere un’ipotesi interessante ricondurre questi doppi alla mancata riunificazione (anche linguistica) delle due Germanie; ciò riporterebbe tuttavia, ancora una volta, ad una visione storica in cui ancora una volta non rimane posto neanche per ciò che dell’individuo è rimasto. Non solo, ma l’eventualità di una specularità fra i personaggi contemplerebbe la possibilità di un dialogo fra di loro, anche indiretto, a cui non si arriva mai. Quando si realizza un incontro effettivo, come appunto fra i due “protagonisti” di Apostata, o fra quelli di Hundsnächte (“Le notti della canicola”, 1997), esso è solo un incontro fra passanti distratti, in cui solo per un momento affiora l’idea che ci possa essere una comunanza d’interessi, detatta dalla tragicità del destino. L’idea è, invece, subito spazzata via dall’irruenza della narrazione monologica, tanto che solo al lettore rimane la presa di coscienza di ciò che la storia potrebbe effettivamente essere. O almeno questo è ciò che lo scrittore sembra attendere dal suo pubblico. La risposta al Wozu dello scrivere è da trovarsi, infatti, nei lunghi monologhi che costituiscono gran parte dell’opera di Jirgl, solitamente monologhi che la voce narrante (è, in effetti, questa la figura che ha preso il posto del protagonista) tiene davanti ad una persona che ne ha tradito la fiducia, una ex-partner, oppure un familiare. Proprio nella presunta intimità più profonda paiono consumarsi, di fatto, i resti dell’individualità: nel momento in cui essa crede di poter giungere ad una libera espressione, le viene opposto uno sbadiglio, quando non un assoluto rifiuto. Questo è, almeno, ciò che avviene nella narrazione.
Al di fuori di questa, la risposta resta affidata al lettore, quindi aperta, eppure fiduciosa, tanto che uno dei romanzi più recenti, Abtrünnig, è strutturato in base a dei links, che permettono anche una lettura alternativa del testo, basata su rimandi fra vari punti della narrazione che stanno in rapporto concettuale, e non cronologico, fra di loro. Ciò sembra voler suggerire il tentativo di un rapporto diretto con il lettore, che taglia fuori la critica. A ragione, Jirgl è stato accusato di arrogarsi un ruolo che spetterebbe della critica – non solo nei monologhi, nei quali, come già detto, vengono emessi giudizi anche sulla letteratura come fenomeno in sé. È, in generale, la tensione alla forma saggistica, che emerge in più punti della sua opera, a scandalizzare: “l’avanguardia va a finire nella stasi estetica”, aveva titolato la Wiener Zeitung, sempre a proposito di “Apostata”, ovvero, passi per le sentenze sulla letteratura e la cultura, ma il fondere un romanzo con generi “non proprio d’intrattenimento”, e questo solo in virtù della lingua, appare decisamente eccessivo.
Ma è proprio nel voler condividere con il pubblico una lingua comune, alternativa a quella del dominio, e quindi anche a quella dei letterati come presunta classe sociale, che Jirgl intravede l’unico significato possibile dello scrivere oggi. Che la letteratura non possa più essere una forma di narrazione di per sé credibile, ma piuttosto un interrogarsi sul senso della lingua, nel tentativo di sottrarla ad un suo uso in senso autoritario, è un dato fondamentale per almeno due generazioni di scrittori tedeschi contemporanei. “Es geht um die Sprache”, dichiarava Elfriede Jelinek, trovatasi a rendere conto dei propri motivi narrativi. Appunto, si tratta della lingua, ma ne va anche della lingua. Da qui la preferenza di Jirgl per i milieux più grotteschi (il sottoproletariato, i fuggiaschi, coloro che parlano solo dialetto, le figure dalla vita ancora incompiuta o, addirittura, incapaci di morire) e per le situazioni più estreme (la violenza, l’assassinio casuale, gli orrori anatomici): sono queste le condizioni ideali in cui può prosperare una lingua che vuole sottrarsi alla reificazione. Questo è il senso di una delle sue opere più impegnative, Genealogie des Tötens (“Genealogia dell’assassinio”, 2002), raccolta di testi in gran parte redatti già negli anni Ottanta, che, partendo dagli archetipi della tragedia classica, attraverso De Sade e riproduzioni robotiche di Hitler, approda alla melmosa quotidianità del sottoproletariato di Berlino-Est. Si descrive così una parabola al cui termine la violenza, l’assassinio, il sadomasochismo, pur nella loro meccanicità, si pongono come unica possibilità di un’“ultima-reale-percezione”; esattamente come DER-SCHREI, l’urlo, rappresenta, per Jirgl, il vero obiettivo della follia omicida di molte figure narranti, estrema speranza che l’individuo affermi la propria umanità, prima ancora che il proprio essere vittima, di un altro individuo o di un intero sistema.
Neanche in questo c’è traccia di una visione negativa (si è parlato, in proposito, addirittura di Kulturpessimismus, volendo evocare lo spirito di Oswald Spengler). Piuttosto, l’orrore è qui visto come estrema ratio di una speranza che resiste all’alienazione dell’essere umano. Ed il medium di questa speranza è il linguaggio. Poste infatti le condizioni estreme della narrazione, allora può scaturire una lingua fatta di monologhi interminabili, come si potrebbero udire al bancone di un bar o nel flusso di coscienza che sgorga da un passante incontrato per caso (potrebbe essere un doppio di noi stessi?).
Non è un caso che questa lingua (ri)sorga proprio dal dialetto, in particolar modo da quello berlinese: definito da Adorno come la parlata popolare che si rassegna all’indiscutibilità della gerarchia sociale, esso è, ad ogni modo, caratterizzato da una melodia cantilenante, alquanto singolare per il tedesco, a momenti insolente, in continuazione tendente al monologo ad libitum. E, dunque, la lingua sembra parlarsi da sola, far saltare in aria l’ortografia, lasciarsi scrivere in una solo fonema indivisibile – le parole si ritrovano legate da trattini o da un segno di uguale per evidenziarne non tanto l’affinità concettuale, quanto quella fonetica. Ai numerali si sostituiscono semplici cifre, anche quando essi si trovano al centro di una parola (hineingeworfen diviene dunque hin1geworfen, per portare un esempio). A momenti, la narrazione ritrova la sua quiete, perturbata solo da usi tipografici inconsueti – a ricordare, appunto, quanto la lingua sia sempre esposta al rischio di rimanere pura convenzione. Esemplare è il procedimento usato in Die Unvollendeten (“Gli incompiuti”, 2003), storia di tre generazioni di una famiglia costretta, alla fine della guerra, a rifugiarsi dai Sudeti nella DDR. Mentre la prima parte è contraddistinta da una prosa più o meno canonica, carica di punte letterarie magistrali, la seconda, dedicata all’integrazione dei fuggiaschi, si presenta come più schizofrenica, anche in virtù della struttura, che si orienta in base alla topografia della città di Birkheim/Salzwedel (una reminiscenza del benjaminiano Strada a senso unico?!). La terza è formata da un lungo monologo, pronunciato dall’epigono della famiglia, dallo stile spiazzante, in cui si ripercorrono gli ultimi trent’anni della famiglia – ovvero di un unico individuo, condannato ad osservare la propria vita come opera incompiuta. Si potrebbe avere il sospetto che la differenza di stili sia legata alla cronologia della vicenda, ma, in realtà, nella composizione si evidenzia il rapporto dialettico che intercorre tra un linguaggio narrativo “classico”, tormentato dall’esigenza del raccontare, anche con crudezza, ed uno stile “sperimentale”, unica forma in cui il medium linguistico può esprimersi in maniera non sospetta. Il lettore non può che riconoscere come suo questo salto dialettico, che va a concludersi, in ogni opera, in un’atmosfera onirica priva di ogni speranza, ma anche di ogni tormento, unico sostituto ormai credibile di uno happy end.
Ovunque, in Jirgl, sono ossessivamente frequenti i giochi di parole, a ricreare una intimità linguistica fra fruitore e creatore, giochi di parole tanto poco ermetici, quanto irritanti: Hohn-Oh!-Rar, dove Hohn sta per umiliazione, e rar allude ad una rarità, per Honorar, onorario; Kuh-l-tour, Kuh per vacca, al posto di Kultur; nuttsen, per nutzen, sfruttare, dove Nutte è la puttana; per accennare ironicamente (mettendo alla berlina ogni tentativo di analisi psicanalitica) ad una carica erotica implicita nella narrazione, ogni parola composta con Fall (jedenfalls, ebenfalls, Zufall…) diviene una parola fallica – e dunque leggeremo jedenphalls, ebenphalls e così via. La Germania, riunificata e, finalmente, di nuovo intera, assume così il nome di Gans-Doitschland, come citato sopra: di fatto non intera (ganz), ma stupida come un’oca (Gans) – oppure assurda come lo può essere un´idea politica pronunciata con accento prussiano.
Allo stesso modo, ogni prestito dall’inglese viene opportunamente germanizzato, a significare quanto il cosiddetto Denglisch non sia che un argomento da soirée o da talk-show. Prima che l’anglosassone fosse internazionalmente riconosciuto, al pari di una carta Visa, era stata la volta del francese, altrettanto mal digerito dalla fonetica germanica. Anche di questo parlano le strampalate trascrizioni di Jirgl: la capitale del mondo conosciuto che si chiama Nju-Jook, una scusa posta in maniera elegante che si scrive Paardong. Di conseguenza, il tedesco si dimentica della parola Finsternis (oscurità), sostituita dall’ibrido Finsterness – oscurity, si sciverebbe in lingua neolatina. La distanza fra il tedesco letterario – ovvero d’intrattenimento, e quello parlato, può essere infatti pari a quella fra le lingue di due paesi diversi.
Al lettore italiano, che ha assunto l’esistenza dell’idioma globalish come dato di fatto, tutto ciò potrà apparire familiare, tanto da essere fastidioso. Anzi, probabilmente tutto il lavoro compiuto da Jirgl sul tedesco rischia di apparire, ad un lettore di cultura neolatina, come un dramma brechtiano, che ha per tema la lingua madre, rappresentato su una scena scritta in una lingua straniera. Occorre innanzitutto dimenticarsi del poststrutturalismo, di Foucault, del discorso, di ogni possibile corrispondenza fra la Leitkultur, la cultura par excellence, e l’effettivo potenziale insito nel linguaggio. Reinhard Jirgl ci riporta al cinismo, ad un cinismo che, tuttavia, si nutre della speranza nell’assoluta validità della lingua nei confronti della realtà reificata.
[1] J. Güntner, Geliebtes Deutsch, fatales Deutschland, in “Neue Zürcher Zeitung”, 26.10.2010.
[2] Cfr. Ibidem.
[3] R. Jirgl , Praemeditatio malorum. Schreiben am mitternächtigen Ort, discorso di ringraziamento per il Premio Georg –Büchner.
I commenti a questo post sono chiusi
Vorrei chiedere all’autore di questo interessante pezzo e/o a Domenico quale testo mi consigliano per conoscere Jirgl e anche, già che cisono, gli altri due autori citati, pastior e Winkler.
grazie
Giorgio Mascitelli
Gentile Giorgio Mascitelli,
Per Reinhard Jirgl è difficile proporle una scelta senza riferirmi anche al mio gusto personale, data la vastità di temi e registri. Una delle vette letterarie è senza dubbio “Abtrünnig” (Hanser, 2005). Più sperimentale il suo “Im offenen Meer”(Luchterhand, 1991), ma non per questo meno gradevole. Se desidera invece un approccio ad una narrazione più canonica (ma, ripeto, magistrale), le consiglio vivamente “Die Unvollendeten” (Hanser, 2003). Ammirevole anche l´ultima epopea familiare, “Die Stille”, del2010.
Per quanto riguarda Oskar Pastior, gran parte della sua opera poetica è stata fra il 2003 ed il 2008 in 4 volumi da Urs Engeler Verlag.
Per Josef Winkler, Le consiglio vivamente la trilogia “Das wilde Kärnten” (Menschenkind, Der Ackermann aus Kärnten, Muttersprache), edita da Suhrkamp, o, se preferisce qualcosa di meno impegnativo, “Zöglingsheft des Jean Genet”, un diario di viaggio/omaggio espressionista al grande autore francese. In italiano è stato invece pubblicato, di Winkler, solo la gradevole novella romana “Natura Morta”.
Le auguro buona lettura, e La ringrazio per l´interesse!
Daniel Abbruzzese
la città della fotto non sembra essere wuppertal
ma se non è wuppertal cos’è un una citta immaginata?
Ciao Carmelo. La città ritratta è Dresda!
@Giorgio
Leggi Jirgl, sono sicuro che lo apprezzerai. Purtroppo il Winkler tradotto non è il testo migliore per cominciare ad armeggiare con questa prosa. Bisogna andare alle opere indicate da Daniel, il che per te non sarà un problema.
ASCOLTA QUI
Oskar Pastior:
BALLADE VOM DEFEKTEN KABEL
Adafactas
Cowlbl
Ed rumplnz kataraktasch-lych
Uotrfawls
aachabrawnkts Brambl
aachr dohts . . .
Schlochtehz ihm
schlochtehz ihm
ehs klaren Zohn
Ihn Uotrfawls
Humrem hä?
Do humrem
Nodo humrem
kaineschfawls
Ehs ischtolt ain däfäktäs
rumpltsch
traktaz
ä nedderschtilchz
Rompl-Grompt
Cowlbl o Cowlbl wottä
Cowlbl-gotz!
Gehbät uns ain
adakuats Ch-bell
ntmr hiechffn
s-trumpltsch Bvchuelltr
aasm
Naawbl
AIM PLE ORZ
NITSCH GREA
ZUI ANK
CHA FTS RÄU
MEN AUC HIM ERI
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EZU TOS
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FFSING!
RAM PXÄH DOAR ECH
VAD SCRIS LEOAP
LEGL NATSCHIU
AHI
JORK PRKA EIU
TÖRK RGILZ
ATH CHEI
SUNG RCZ O
grazie a entrambi per i consigli