Il Cristo dell’eresia – un saggio su Pasolini di Erminia Passannanti
di Enrico Cerquiglini
Erminia Passannanti, Il Cristo dell’eresia. Rappresentazione del sacro e censura nei film di Pier Paolo Pasolini, Novi Ligure, Edizioni Joker, collana Transference, 2009, € 12,00.
Il saggio di Erminia Passannanti, Il Cristo dell’eresia. Rappresentazione del sacro e censura nei film di Pier Paolo Pasolini, presenta una lucidissima e documentata analisi di come il sacro diventi oggetto di gran parte della produzione cinematografica di Pasolini e di come si sottragga ad un’ortodossia fatta di dogmi e di inoppugnabili verità. La figura del Cristo che ne emerge è carica di una forza rivoluzionaria incoercibile che si sottrae alla fissità istituzionale della Chiesa e che chiede di vivere, di realizzarsi in ogni rapporto umano, in ogni epoca storica. I film accuratamente analizzati dalla Passannanti sono La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Teorema e Salò o le 120 giornate di Sodoma, quelli insomma in cui la presenza della figura del Cristo è predominante o per presenza o per presunta assenza (Teorema e Salò).
La ricotta, cortometraggio del 1963, ricorda la Passannanti, costò a Pasolini una condanna per vilipendio della religione cattolica. La colpa del regista sembra essere stata quella di essersi occupato, da ateo dichiarato, della figura del Cristo che la Chiesa ha istituzionalizzato e svuotato della forza della Parola, ridotto a icona da adorare, ma distante dall’uomo sofferente (Stracci, sottoproletario affamato), isolato in un amore sterile e lontano dalla vita-morte dell’uomo. La figura del Cristo viene confinata sul piano emozionale nella raffigurazione iconografica, mentre è Stracci che rappresenta tragicamente l’umano e la sua morte: «si ricollega semanticamente (e per i censori, in modo blasfemo) alla passione di Cristo, sovrapponendo alla Passione una riscrittura in chiave marxista delle storia degli umili, sacrificati, come Stracci, alla divorante logica del Capitale». (p. 37)
Il film quindi rappresenta una lettura sostanzialmente marxista della realtà. Scrive a proposito la Passannanti:
tutto soggiace alla logica del Capitale, anche i simboli più sacri, come dimostra la scena in cui la corona di spine conservata in una scatola vuota di Pasta Federici sia innalzata da due rozze mani d’operaio contro lo sfondo plumbeo del paesaggio urbano della periferia romana dove sorge Cinecittà.
Non c’è vilipendio del sacro, bensì critica mossa alla struttura della società moderna, che avvilisce i simboli religiosi. Il declino dell’istituzione religiosa, lo suggerisce il ricorso all’arte sacra, è determinato dall’urbanizzazione e industrializzazione, per contrasto continuamente citata nel film, come fenomeno responsabile di avere secolarizzato le istituzioni ecclesiastiche, aumentando il prestigio dell’arte sacra, ma riducendone il contatto con i fruitori dei ceti poveri. (p. 34)
Come detto, la lettura pasoliniana non solo non fu gradita dal Vaticano ma fu oggetto dell’attenzione delle autorità giudiziarie italiane, quasi a voler ribadire che non è il Cristo ad essere intoccabile bensì l’interpretazione che di esso dà la Chiesa, recependo in questo modo l’infallibilità vaticana anche nell’esercizio dell’attività giudiziaria di uno stato (Italia) dall’ordinamento costituzionale laico.
Per i cattolici vicini al Cristo come istituzione inviolabile – scrive la Passannanti -, tutto si riduce alla perseveranza della difesa dello status iconico, assicuratogli con tanta tribolazione dottrinale attraverso secoli di dispute teologiche. Per i non cattolici ed i laici, Cristo invece attraversa epoche e società con la sola forza della sua Parola, che perdura senza bisogno di essere chiusa sotto custodia e tutelata dai cani mastini del Vaticano. (p. 45)
Il film successivo sposta il tiro: Pasolini porta sullo schermo il Vangelo di Matteo e la figura del Cristo diventa centrale, diventa Parola e non in forma di fiction, ma Parola evangelica. Non un Cristo rivisitato ma visitato e scoperto nella sua essenza contemporaneamente antica e moderna: «lo spettatore incontra un Cristo intramontabile e, alo stesso tempo, moderno. Lo osserva impegnato nel processo, e nel metodo, nel suo “farsi un nome”, nel vedersi riconoscere un prestigio di predicatore e maestro, ovvero un dominio ideologico tra le genti della Palestina a cui rivolge il suo messaggio, e per le quali elabora una dialettica socialista oltre che spiritualistica, che mostri al popolo sottomesso al “Dio del danaro” la velleità del possesso». (p. 57-58)
Le parole del Cristo pasoliniano aprono e svelano il mondo del potere e il modo in cui si auto legittima e si mantiene, attraverso forme anestetizzate, incapaci di rinvigorire e rivitalizzare l’azione dell’umano:
Rispetto ai suoi discepoli e seguaci, egli chiarisce i metodi tramite cui Stato e Chiesa ottengono sottomissione ed obbedienza e, dunque, incita le masse alla presa di coscienza in senso rivoluzionario; sollecita fede nel suo messaggio e stabilisce un dialogo diretto con la sua persona; istruisce gli apostoli al proselitismo. Il Cristo di Pasolini mostra, altresì, le tecniche di propaganda e condizionamento culturale con cui i burocrati dell’ortodossia dottrinale esigono dal popolo una cieca sudditanza ai loro programmi conservatori, eludendo qualsiasi dialogo con la dissidenza interna ed esterna. Il potere temporale, infatti, prescrive la fede come stato di dipendenza, obbliga alla confessione e alla penitenza e soprattutto non delega, ma accentra, il proselitismo. (p. 60)
Con Teorema, Pasolini indaga la dicotomia sacro-borghese: le due realtà inconciliabili finiscono per collidere e il sacro sconvolge il mondo borghese nelle sue strutture portanti. Rivolgendosi all’ospite, il padre afferma: «…è difficile affrontarti. Sono due le ragioni per cui io mi sento costretto a parlarti: prima di tutto si tratta del mio senso morale, e poi c’è qualcosa dentro di me di confuso… che forse appunto soltanto parlando è possibile chiarire». (Teorema) Proprio nella figura paterna, spiega la Passannanti, si manifesta in modo assoluto il fallimento del modello borghese: la sua reazione all’incontro con l’ospite misterioso è frutto di una rivelazione di essenzialità che genera ebbrezza e angoscia, che libera dalla sordità e dall’assurdità della borghesia. Lucidamente l’Autrice del saggio coglie l’essenza del dettato di questa pellicola:
In breve, dal contesto contenutistico se ne deduce che le autorità ecclesiastiche della religione istituzionalizzata non producono, nel credente, altro che sensi di colpa e disistima, tenendo il corpo confinato ad una distanza sessuofoba: da esse il praticante a poco a poco si distacca, abbandonando l’ortodossia e l’osservanza delle regole prefissate, mentre il Cristo-ospite di Teorema, che non giudica e non punisce, semplicemente sconvolge nell’intimità che stabilisce con l’amato, soddisfacendo individualmente il bisogno del sentimento religioso: anzi, nel concedersi sessualmente fuori e oltre l’unione del matrimonio, il suo corpo diventa non già il sostituto, ma il veicolo stesso della comunicabilità di tale sentimento (p. 70)
Nel mondo cattolico, spiega l’autrice, i giudizi non furono unanimi; il cattolicesimo si divise sulla valutazione del film. Teorema ricevette il premio OCIC (Organizzazione Cattolica Internazionale per il Cinema e l’audiovisivo) – segno che l’opera aveva in qualche modo toccato sensibilità presenti nel mondo cattolico – ma dovette subire l’ostracismo delle gerarchie ecclesiastiche:
La Santa Sede reagì istantaneamente alla decisione dell’OCIC, condannando pubblicamente Teorema nelle pagine dell’Osservatore romano del 14 settembre, bandendo, con il veto “Escluso per tutti”, la visione della pellicola alla comunità dei cattolici osservanti. Il 18 settembre, Papa Paolo VI intervenne in persona rivolgendosi direttamente ai fedeli dal balcone della sua residenza di Castel Gandolfo per mettere in guardia l’audience cattolica contro “l’inammissibile film” (evidentemente Teorema) premiato dai cardinali dell’OCIC, eretici della Teologia della liberazione (p. 73)
Questa ennesima chiusura, questo escludere tutti dalla visione non può che negare ogni possibile discussione con chi della religione si è fatto garante per secoli. Ma questa levata di scudi in difesa di dogmi e icone impedisce proprio nel momento in cui se ne avverte l’urgenza, la ripresa della Parola del Cristo e della sua scandalosa e sconvolgente forza vitale. Scrive a proposito la Passannanti: «Il messia di Pasolini […] insegna a redimersi dallo scandalo maggiore di cui un essere umano possa macchiarsi: il peccato dell’indifferenza agli altri e dell’ipocrisia verso se stessi». (p. 74)
Il saggio si chiude con una disamina del Salò-Sade (film già studiato dalla Passannanti nel saggio Il Corpo & Potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma) che coglie in profondità i temi dell’ultimo Pasolini già nei riferimenti culturali che costituiscono le coordinate dell’opera filmica. Habermas, Luhmann, Marcuse, Foucault e Barthes sono presenti nella metafora del potere onnivoro che è Salò. Il sacro è ormai destinato a farsi parodia del sacro e legittimazione di un potere che desacralizza i corpi-vite. Non mostra più valenze positive, non apre al mistero dell’esserci, ma è strumento di un potere che annulla corpo e spirito, in quadri insostenibili in cui il sacro asservito al potere non può che far sorgere il bisogno della Parola. Al nichilismo non può che essere opposto il Cristo, di cui si avverte la totale assenza e la presenza nella sofferenza delle vittime.
Restando ancora nella prospettiva del fascismo storico, la Passannanti coglie «come, congiuntamente, il regime fascista e la Chiesa cattolica abbiano avuto spazio e tempo d’azione per assoggettare gli italiani alla macchina di un potere, che agiva su due livelli: quello politico e quello spirituale. Tale combinazione di dogmi, metodologie disciplinari e tattiche repressive venivano applicate sia dai burocrati del regime, sia dai funzionari della Chiesa, che influivano dai pulpiti sulla coscienza privata e collettiva dei fedeli». (p. 82)
Nello stesso periodo in cui Pasolini lavorava a Salò, Pasolini stava individuando le coordinate di un nuovo fascismo – frutto di una seria riflessione sulle dinamiche della società dei consumi e sulla sua capacità di realizzare un fascismo molto più devastante di quello storico del ventennio – efficace e temibile, capace di omologare e nientificare l’uomo, desacralizzandolo, ponendolo nella condizione esistenziale del vuoto e dell’angoscia.
Il lavoro della Passannanti è inoltre prezioso per la sostanziosa ed informata premessa in cui si evidenziano gli aspetti principali della censura cinematografica in Italia, frutto di un legame, spesso strettissimo, tra Vaticano e potere politico italiano. Legame questo che ha fortemente cercato di bloccare quanti – Pasolini in testa – hanno provato a realizzare un cinema intellettualmente e civilmente libero.
L’analisi cristologica sviluppata in questo saggio propone una lettura del Cristo come figura dalla forza dirompente, in grado di arginare il degrado antropologico proponendo una rottura rivoluzionaria per riacquistare un’umanità che le strutture dell’attuale potere hanno asservito e finito per negare.
L’impatto del cristianesimo sulla società dell’impero romano è stato sicuramente, almeno nella prima fase, dirompente e con una forte valenza rivoluzionaria. Il Cristo, prima ancora di essere figlio di Dio, era portatore di riscatto, di speranza, di vita (anche attraversando la morte). In questo superamento della morte, meglio ancora, in questo com-prendere la morte, si realizzava il legame (religio) con una dimensione altra, con Dio.
Non sfugge certo a Pasolini, ricorda la Passannanti, la portata straordinaria di questa figura, né la sua potenziale attualità. Pur da una posizione materialistica affronta la figura del Cristo cogliendone l’aspetto di una divinità che è sostanzialmente essenza dell’umano. Scriveva infatti a Lucio S. Caruso della Pro Civitate Christiana di Assisi, a proposito del progetto di un film sul Vangelo di Matteo: «io non credo che Cristo sia il figlio di Dio, perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino, credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità» (Lettera pubblicata con la sceneggiatura Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Garzanti, 1964, pp. 16-17).
In questa «umanità così alta» Pasolini finisce per realizzare il suo ideale di divino umano, sottraendolo alle strutture gerarchizzate dell’istituzione ecclesiastica.
Davvero interessante questo testo. Durante la lettura avrò dei nodi da sciogliere. Ho sempre amato la capacità di Pasolini di fare la storia del miracolo economico contropelo, disvelando l’altro volto dell’industrializzazione, mostrando di quanto sangue e dissacrazione e sovraccarico psichico grondasse. Però il suo cattolicesimo mi ha sempre disturbato, l’ho sempre trovato troppo poco eretico, troppo enfatico nel credere alla reale partecipazione di un Altro alla sofferenza delle vittime.
Gentile Pisacane,
veramente il saggio riguarda il lavoro di Erminia Passannanti,mi sembra.Mi perdoni la precisazione,un saluto.Lucia D.
Gentile Lucia, ho solo accennato ai pregiudizi ed alle domande che mi spingerebbero a leggere proprio il lavoro della Passannanti.
Mi scusi,non avevo capito bene il suo commento.E poi ho sempre avuto l’impressione che si sia scritto molto su Pasolini,forse troppo,fino a far sparire l’autore,invece di scrivere sui temi da lui proposti,raffreddando così la materia.Mi sembra che la Passannanti faccia proprio questo:la biografia surriscaldata di Pasolini viene collocata in un contesto problematico oggettivo,e quindi ripulita da un eccesso di carico di significato.Ma non ho davvero gli strumenti critici per continuare:vedo comunque il risultato,la restituzione di un senso,non solo romantico,ma razionale,anche agli eccessi dell’ultimo Pasolini.Mi scusi ancora per l’incomprensione.Un saluto,Lucia D.