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Note per un diario parigino

China Club. Paris

da Chiunque cerca chiunque
di
Francesco Forlani
Quinto capitolo
China Club
Lei mi fa: il mio ex, quello che si è ammazzato, quando andava al cesso, nonostante tirasse lo scarico, la merda ritornava a galla. Era il suo karma ma non me n’ero accorta subito. Lei aggiunge: qualsiasi cosa tentasse di fare, perfino come scultore, perfino amare, era per lui come une chasse d’eau rispetto al male di vivere che riaffiorava sempre, sfidando ogni corrente che tentasse di cacciarlo via. Il suo karma…
China club. Luci soffuse, bancone alla  Hopper, lungo  a difesa di una barriera di bottiglie e bicchieri,  tavoli rotondi lucidi e stile coloniale, soffitto altissimo e scale  Casablanca. Fumoir nel sottosuolo e bar al piano di sopra. A uno sputo da Operà Bastille. A una mancata di secondi dalla Rue Baudelaire con le Baron Rouge, un posto da nulle part, in cui tutti sembrano di casa.

Roger K versa da bere a tutti dal divanetto in vimini su cui è seduto. Roch, che è giornalista, marsigliese,  seduto di fronte,  ci racconta che gli sbirri lo volevano multare perché , approfittando della giornata di sole, aveva steso i panni alle finestre del suo appartamento, sul Canal St. Martin, decimo arrondissement. E che non capiva come cazzo si faceva noi altri, vous êtes malades, quoi,  ad abitare in una città dove fosse proibito stendere i panni alle finestre. Che una città senza panni stesi è come una nave senza vele. Sai, Roch, però a Parigi non c’è il mare– aveva controbattuto Roger K e lui di tutta risposta, gli fa – certo però i panni sporchi ce li avete pure voi.
Una cameriera dai tratti orientali, con una blusa colletto Mao si sporge sul tavolo per lasciare due tre ciotoline con robe da spiluccare. io penso a quello che mi ha detto lei pochi minuti prima che Roch parlasse. Cioè che un karma così e sei fottuto, o cambi cesso, come il nostro diamine, che quella eccezione ne faceva una regola, visto che una disattenzione avrebbe scatenato tutti gli espurgo della capitale. E poi, di quell’uomo che s’era  avvelenato di barbiturici in Costa Azzurra, vomitando su tutte le pareti e correndo come se lo avesse colto un ripensamento improvviso, minchia, dico io, quell’uomo era stato sicuramente altro nella vita no che un pezzo di stronzo che non voleva tuffarsi nella Senna e mischiarsi agli stronzi di tutta Parigi? quell’uomo prima di diventare ex l’aveva illuminata la ragazza no? L’aveva sedotta, amata, scopata che s’era fatto impiantare pure una biglia sull’uccello per farla godere di più, no? non era forse così? e delle gite in Normandia dai suoi genitori? Della casa immersa in campi sterminati attraversati da una vacca che sembrava una vacca sacra come in India che rumina rumina erba per  farne Camembert, no? Dell’Oceano poco distante che le maree nel giro di un batti baleno ti vengono su su per chilometri che cazzo pensi al Mediterraneo e ti sembra un mare scomodo come la baignoire sabot che hai nel sotto tetto? Ecco, e poi non avevano forse imparato insieme a modellare cose, a mettere su un atelier nel giardino, perché l’avevano costruita insieme mattone dopo mattone quella casa a Grasse, che c’era pure Hermann, olandese che era un gigante? E Sylvain? E Rosanne? Michel? Cazzo e poi i viaggi in Vietnam, in Tunisia , a Djerba  sai con la nipote di dai, che non mi viene il nome, cazzo sì ne parlavamo ieri, dai quello dell’Elogio della fuga, suvvia quello dei titoli di Mediterraneo, lo evocavamo ieri.
“Quando il veliero non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, “>certo Laborit, Henri Laborit,  che,il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela.”,Insomma proprio la nipote, no? No, cosa? Che porca puttana quell’uomo che un nome ce l’ha ma poi è importante saperlo, quell’uomo dico, lei lo amava no? ne era intimamente e necessariamente innamorata no? Era l’homme de sa vie, no? ma porca puttana e allora cosa cazzo succede che di quell’uomo di cui non rimaneva più nulla oltre alla anziana madre e a una lettera d’addio che gli sbirri avevano trovato sul posto in cui si era suicidato e uno di loro proprio a lei aveva telefonato perché risultava sua convivente, e non s’era dilungato troppo con i preamboli, che i preliminari appartengono solo agli stolti e agli impotenti, non gliel’aveva letta al telefono quella lettera testamento, non aveva aperto la busta su cui c’era scritto il suo nome ripetuto innumerevoli volte in un vero e proprio atto d’accusa, e  che grazie a quell’indirizzo l’aveva rintracciata a Parigi? E  per colpa di quello ora lei sapeva che il suo ex uomo si diceva perduto senza di lei e che dalla sua partenza niente più valeva la pena di essere vissuto? Che quel cazzone di sbirro nella sua azione di solidarietà col genere maschile mica lo sapeva e come diamine poteva saperlo, lui, che di lettere così gliene aveva scritte a centinaia? Da quando avevano cominciato ad uscire insieme, per ragioni che andavano dal con te a senza di te? Che con o senza di lei quel pezzo di merda che si portava attaccato al culo non c’era acqua che potesse bloccarne la risalita!  E allora, allora non era una questione d’amore certo, né tantomeno di disamore  il fermo immagine che ne veniva fuori, la frase di una intelligente sintesi, che coniugava interiora e male, fino a colllocarsi a epitaffio morale della vita di quel povero cristo? Perché per il resto, per gli amori finiti non avevamo visto cose peggiori? Non ci avevano forse non più tardi di qualche giorno prima raccontato della triste scena di lui e lei, seduti allo stesso comune tavolo di una  casa in cui avevano abitato come  congiunti per quindici anni e che avrebbero di lì a poco abbandonato per avviarsi l’uno e l’altra in una storia diversa,  che, cazzo, non si dividevano cucchiaino dopo cucchiaino, forchetta dopo forchetta il servizio di posate che avevano ricevuto in dono  dalla nonna di lui come regalo di matrimonio? Che le dita assai stancamente recuperavano quelle strane fiches dal tavolo di gioco dove les jeux étaient faits et rien n’allait plus? E con gli occhi di lui e lei fissi sull’ultimo coltello della fila?

 

Bon. la serata continua. Si ride si parla si sfiora un ginocchio si allude, si illude ma poi si va via. Ci si saluta dispensando tre baci, à la parisienne. Quando, rientrando, lo racconto a Massimo che era rimasto nel sotto tetto, la prima  cosa che si fa è di ritrovare la citazione. Ho una vecchia edizione dell’Eloge e non ci riesce difficile ritrovarla.

“Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte dalle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Ritorno sulla frase di lei ancora una volta. Massimo ama classificare le cose. Io preferisco disordinarle, le cose. La sua vocazione è quella del botanico, in fin dei conti, che da un nome ad alberi e foglie.  La mia del vento.  Gli chiedo che ne pensa: Lui si accende una sigaretta, si passa la mano fra i capelli che gli cadono in fila giù sugli occhi poi con un sospiro grave, lo stesso che gli viene quando ascoltiamo Paolo Conte, che piove, mi fa :mah, le donne, quasi sempre, hanno uno spirito di sintesi che un uomo se lo può soltanto sognare.

Mi viene in mente una vecchia conversazione  a tre con un amico  originario di Torino, Enrico, R. Abita a Chatelet primo arrondissement, lui che passammo la serata a classificare l’intero scibile umano, che ne so dalla birra alla spina alla musica Pop e New Wave in tre macro categorie e allora gli faccio a Massimo: Cos’è, secondo te, Massimo, una verità, una  grande verità o una legge universale?
Lui si alza, va di là mentre io rimango di qua, mette su un pezzo di De André, quelle che comincia con le nuvole, e poi  finalmente decreta: legge universale.
Ma quale delle tre, la storia delle donne, degli stronzi, o della fuga di Laborit?

Sicuramente mi dirà che lo sono tutte. Intanto penso a Roch. Lo faccio quasi cadendo sul divano  letto che è di qua. Al fatto che se è vero che Parigi è come un veliero senza vele, con quella fottuta storia che è proibito, per legge, stendere i panni alle finestre, mi chiedo come cazzo faremo noi a salvarci dal naufragio?

Poco dopo di là mi arriva una voce:
Tutte e tre.

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8 Commenti

  1. me l’ero perso questo Diario.
    Un gran talento, francescoforlani, che da bravo talento ti spiazza e apre su padre Pio (si legga “Il diciassettesimo porta sfiga”).

    M’è venuto in mente quell’editor e scrittore di una casa editrice: “associare l’amore alle rose è banale. La bravura sta nel collegarlo, che so, al semaforo”, mi disse.
    Ecco, effeffe sa associare l’amore col semaforo.

  2. Il China Club mi incuriosisce, e mi ha incuriosito quando ci sono passato davanti, nelle folli notti da arpenteurs de la ville. Ci entrerò prima o poi.
    Grazie per l’impegno.
    Federico

  3. arpenteur per esempio è una delle più belle parole francesi, insieme a flâneur e a godasse
    effeffe

  4. L’arpenteur è il personaggio poetico di Franz Kafka alla ricerca di un sogno, di un luogo sempre irragiungibile. L’arpenteur della città è l’ultimo passant romantique, quello che si porta con lui un sogno e guarda con occhi lucidi, aperti, anche sognatori. Mi sembra adeguato a Francesco:
    insolito, acuto, idealiste.
    Ma c’è una sfumatura tra flâneur e arpenteur: l’arpenteur ha un tempo ciclico, invece le flâneur ha un tempo senza orologio.

  5. E che godasse sia il mezzo attraverso il quale on arpente et on flâne è una bella coincidenza. A proposito, vi consiglio la lettura de Les Arpenteurs du Monde di Daniel Kehlmann, ma forse lo conoscete già.
    Véronique, è esattamente così che mi sento quando mastico Parigi a piedi, altri amici preferiscono il termine flâner, moi j’arpente, et ça ne pourrais être autrement.
    (Potremmo organizzare un incontro di Indiani parigini, per parlare di tutto ciò e di tutto il resto..)

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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