Note per un diario parigino
da Chiunque cerca chiunque
di
Francesco Forlani
Terzo capitolo
La bonne
Il diciassettesimo porta sfiga. Se ci fosse un comandamento numero diciassette sarebbe: gràttati ogni volta che incontri qualcuno. E’ un quartiere middle class e neutro come una saponetta Mantovani. Neutro che ti lascia addosso un profumo di inconsistenza. Perfino il mercato della Rue de Lèvis sembra abitato da cose così. Courgettes da classe moyenne, ananas in finto pelle, pomodori Aiazzone, e un odore di burro che non ti molla le narici manco se anneghi in una bacina d’olio extravergine del Salento. Il diciassettesimo è così. Tra il sedicesimo figa e il diciottesimo sfigato. Ora volete mettere il fascino di uno sfigato con uno così. Perfino nel Monopoli francese non c’è una cazzo d strada del diciassettesimo. Ieri leggevo Perec che infatti si ricorda, eccome se non si ricorda, l’Avenue de Breteuil, verde, settimo Arrondissement, Avenue Henri-Martin rossa, sedicesimo, Avenue Mozart ancora sedicesimo, arancio. Georges Perec aveva vissuto la maggior parte della sua vita a Belleville, ventesimo arrondissement, colore viola. Ecco perché dovevo assolutamente cambiare quartiere.
Non appena si presentò l’occasione, un’amica di un amico mi telefonò per dirmi che un ragazzo inglese Simon Baker cercava un coinquilino nel Marais, mi precipitai da lui. Rue Vieille du Temple, sul Museo Picasso, a uno sputo da Les ètages di Guy e dal Toro Loco di Jacob, nella rue des rosières. Ecco, se avessi potuto scegliere io un colore per il diciassettesimo, per lo square du Parc avrei detto il rosa. Ma non perché il rosa porti sfiga, no, semplicemente perché fu lì che amai petite Mari, nel diciassettesimo arrondissement, nella chambre de bonne al sesto piano senza ascensore, cesso sul pianerottolo e Regis, ex paracadutista bretone come vicino, in un otto metri con la più alta concentrazione di blatte per centimetro quadro, senza frigorifero però con una finestra, che da sdraiato faceva vedere un cielo azzurro e crudele. Una sistemazione temporanea che apparteneva a Dominique, originario di Rennes e che era partito per la Germania, Berlino lasciandomi generosamente il posto. Nel diciassettesimo, con Petite Mari ero diviso tra due chambres, la mia e la sua in Boulevard Pereire. Quando c’era una disputa tra me e lei, che i colori delle nostre bandiere si mettevano di traverso, io italiano lei ungherese, quando mi confidavo con Enzo Gatta, il mio amico napoletano a Parigi (tredicesimo arrondissement) vuotavo il sacco e lui aggiungeva sempre, sostiene Pereire. Mari aveva una chambre de bonne meno invasa e così dormivamo spesso da lei soprattutto d’inverno, che faceva freddo e le blatte si mettevano sotto coperta. Un giorno che dovevo andare ad un appuntamento con Maria Brandon Albini, diciottesimo arrondissement, una sorta di istituzione a Parigi dagli anni trenta, antifascista e aristocratica di Milano, Mari, uscendo s’era raccomandata di non lasciare la stufa accesa quando sarei andato via.
In mutande e scalzo, poco dopo la sua partenza, sono andato al bagno lasciando la porta socchiusa e quando torno quella stronza non s’era chiusa come per farmi un dispetto! Le porte del diciassettesimo arrondissement ce l’hanno con gli italiani, sono razziste, ce l’hanno scritto in fronte interdir aux chiens at aux italiens, fanculo il diciassettesimo! Si ma come cazzo fare!! Un freddo boia, a Parigi aveva nevicato, mi guardo intorno e quasi chiedo soccorso a Regis che intonando uno dei suoi canti dell’ OAS avrebbe sfondato la porta con gli anfibi ma su quel pianerottolo l’unica forma di vita proveniva dalla stufa della Chambre de Mari e tra me e lei c’era quella fottutissima porta razzista. Su quella porta vedevo il profilo di Sacco e Vanzetti, la morte nera dei nostri a Marcinelle, i mondiali del ’78 ma subito dopo quelli dell’82. E così pensai, in mutande, agli stravaganti studenti americani incontrati all’Alliance Française, esattamente come petite Mari, che vestiva di blu ed aveva un foulard di seta e i capelli a caschetto. Allora con le mutande di seta – poverissimo mi rimaneva il corredo che mamma mi aveva messo da parte per la partenza, con pigiama e mutande di seta, che sarei stato ricco dentro, e così, dicevo, pensavo, chi cazzo vuoi che si chiederà chi è quel pirla che corre per le scale, in tenuta da maratona, all’americaine e senza scarpe, come uno studente Etiope, e con la canottiera bianca da studente portoghese, che a Parigi gli studenti sono l’anima della città, sono l’eterno maggio francese che porta in braccio la Marianne come nei paesini del sud le Madonne alle sagre, e allora correndo e respirando forte con le nuvole di aria densa che ti uscivano come boccate di sigari o di Lucky Strike arrivi all’ingresso del portone e bussi al citofono della famiglia dove petite Mari presta il suo servizio di baby-sitter in cambio della chambre e da mangiare, e lo speri davvero che lei scendendo si sia intrattenuta un po’ lì per sbrigare pratiche sospese e a quel cazzo di citofono con due cognomi per 5 minuti nessuno risponde e allora bestemmi forte invocando il dio dei senza tetto, dei rimasti fuori dal gioco e un passante ti scruta da capo a piedi nudi e tu sorridi perché gli studenti americani stravaganti sorridono sempre, che non capisci se è perché non capiscono una mazza o se per altro e ti rifai i piani sperando di non incontrare la concierge per le scale, che quella ti denuncia alla polizia, che quella è la figlia della figlia di un bastardo collabò che ha sempre denunciato, i clandestini, i comunisti, gli ebrei, gli anarchici e gli italiani, e per fortuna non incontri nessuno e di nuovo sul pianerottolo al sesto piano che almeno fa meno freddo giri e rigiri lungo il corridoio e rifai il percorso sperando di ricordare che le chiavi le avevi prese per andare a pisciare ma che t’erano cadute.
Pensi allora fortissimamente a padre Pio. Ti succede ogni volta che sei perduto. Perduto e solo. Lo invochi con tutte le tue forze, con tutti i tuoi rifiuti alla fede inculcata da bambino, ti fai mettere la parola buona da tua madre, non era forse lei che ti mostrava il telegramma nei momenti di sconforto cristiano e su cui un padre cappuccino da San Giovanni Rotondo rassicurava tutti dicendo che il Santo padre sapeva che il piccolo Francesco, nato a sette mesi praticamente morto, sarebbe stato un ragazzo vivace? Vivace sta minchia, si puzza di freddo il ragazzo!
Cazzo, allora, padre Pio non chiedermi nulla però in cambio che ormai non credo a tutte quelle storie lì ma a te sì, dammi la chiave.Lo sguardo a quel punto si concentra su un pezzo di fil di ferro che stava per terra.
Filo de ferro abbrunate, métallique, stuorte, raddressat, petite bête argentée qui monte qui monte, qui monte, fil que t’enfili, te squatti, t’adapti te démenti, fil do fllio do padre, do spiritu santu, fileferru, du padre stigmato, poerello, frato ‘ncappuciate, oh filo meo, filo de sto putain de paillasson, de zerbino scurtecate que me dici bienvenu, que io te dico a ssorete, porta maledicta, porta que nun se apre mai manco si l’est pompiere de Stura, de corazza e d’elmo de Scipio, cola lanza, collo specchietto che se rompe e dice datemi il martello per sfrunnà ogne cosa, porta que defende la raza propria, et tena fora o fridde, à raza altrui degenerata, Ritaliane, ca nun se lave, qui se bagarre et disidera le fimine d’artri, la robba d’artri, qui accira, qui dishonora, na raza ‘ntussecosa et humilitata, filo fa stu miraculo que me sto accerenne do gelo, da neve, de mutanda et piede scavze, viola, inzegrinate, accuorpate, scivola in de viscere da serratura, sbloca, scuntorna, divelta et inganna sta futtuta porta!
Quando il filo assai inspiegabilmente fece uno scatto nella serratura e la porta aprì le sue gambe, una vampata di caldo intenso si gettò su di me come una coperta militare e rimasi sull’uscio con una felicità che solo pochi avrebbero potuto capire, ma a me non me ne sbatteva un cazzo degli altri in quel momento, eravamo da soli io e padre Pio ma proprio perché c’eravamo entrambi, soli, non eravamo.
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te l’ho già detto, inutile ripeterlo.
Bellissimo, il tuo brano su Parigi, Francesco.
Vero, il cielo blu crudele di Parigi. Lo sai, non ho mai amato questa città.
L’ho sentita sempre in inverno, senza cuore. A volte quando aspettavo il treno che mi riportava nella Picardia, mi sentivo in esilio, il gelo faceva cammino nel corpo. Non avevo distrazione nel mio dolore. Ho sempre attraversato Parigi con l’angoscia del luogo, l’impossibilità di trovare
silenzio, tempo che si allungava, perché ero tra due luoghi: quella della
casa madre nel sud, quella della casa che non avevo scelta. Guardava
nell’autobus la Seine sempre del colore blu appassito; non ha mai avuto
il blu del cielo della mia infanzia.
Tu dici la miseria, la povertà. Piccola stanza con la vicinanza del cielo,
ti fa un morso nel corpo. Senti tutta la solitudine di un pomeriggio con solo società il ricordo del tuo paese.
Parigi non è generosa come Napoli, magnifica e crudele, un leone di marmo. Il solo luogo che mi piaceva ( perché non tornero più a Parigi, dopo il mio trasloco) era la rue des Rosiers, perché sentivo un calore, un mistero che non ho provato in una parte altra di Parigi, perché la mia angoscia era scomparsa per diventare desiderio di trovare la chiave del mistero; ho amato anche i ponti perché erano diversi: il vento faceva ballare l’acqua del fiume, ma era in sospeso nel cielo.
Tu, figlio di Napoli, penso come hai dovuto sentire tutta la distanza con la tua lingua, la manera di sentire la vita, il calore cha attraversa il corpo della città, la possibilità di bagnare lo sguardo con il mare.
Quando sono venuta a Napoli ho sentito l’aria della memoria felice del corpo, il vento mi bagnava con il caldo come la mia madre, quando mi bagnava. Credo che abbiamo tutti una città simbolo della nostra felicità.
caro Francesco,
cacciato che verrò a breve dallo sbadigliante 15ème,
métro Vaugirard, con i suoi trottoir al benzene discreto
coi suoi collant philppematignon, gambe di gazzella ma seno “piallato”,
che quasi mai si volta mai nella
mia direzione, ma come a farlo per dispetto
in quella opposta, financo a guardare il più cisposo dei cani,
ma non te (e tu non le guardare!) (ma perché violentarti e non guardare?, tu anima mediterranea, beau gosse anima calda, tu che sempre saresti tentato di guardare…),
“cacciato” causa concierge carogna che soffia come cobra nelle scale, sguardo basso da cagna, che ha scoperto che ero in sous-location,
che ha spifferato la notizia al proprietario,
che la police, o meglio un “huissier”, proprio in questi giorni
ha scassato la mia porta alle ore venti (fil di ferro o stuzzicadenti?), à 20heure, mentre ero alla presentazione di un libro alla shack & co.,
che l’huissier è entrato in mia assenza, come per un pregiudicato,
perché a Parigi “En cas d’absence… ou refus de laisser libre accès au logement, l’Huissier de Justice doit se faire assister d’un Commissaire de Police et d’un serrurier”,
“cacciato” che verrò a breve dal vellutato 15ème, quello proprio giù, che ti sembra più gelido degli altri quando è freddo, dove le ventate di erotismo che da altre parti nella città a volte soffiano qui non arrivano,
che allora bisogna andare a cercarle nei quartieri più a nord,
tradito dal 15ème mai amato, dopo un anno da rital pulito, e silenzioso,
di nuovo in pasto (ma col pugnale tra i denti)(giammai rital umiliato!)
al mercato della location parisienne,
questo tuo scritto, ciao Francesco, è venuto al momento giusto per me,
è stato una risata e un cucchiaino di zucchero in più nel caffè che sto bevendo
e ti ringrazio.
Ma è un romanzo che pubblicherai a puntate su NI? Oppure è già uscito? Curioso io. Chiunque cerca chiunque è un gran titolo, tra l’altro.
Pa
un mio amico argentino aveva inchiodato tutto al pavimento, perfino la telè, oltre al divano e ai letti di modo che l’“huissier non potesse portare via nulla. C’è una legge infatti che dice che sono pignorabili solo gli elementi movibili e non fissi. Un giorno di sconforto mi disse: sai, quando verranno a pignorare me, mi inchioderò anch’io al pavimento e me li inculo! Un premio assai inaspettato alla carriera lo ha salvato dalla crocefiissione.. Comunque sia per guarire dal 15 c’è il ventesimo, Belleville, parte alta, più o meno dove è leggibile la scritta di Ben: il faut se méfier des mots.
Alessandro, ebbene sì, romanzo per l’estate a puntate su NI e Facebook, in corso di scrittura.
effeffe
Mi sembra veramente un ottimo sito,o blog che dir si voglia,ed anche il post.Le foto sono particolari.Ciao,Lucia.