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Il male in Generale

di
Azra Nuhefendić

Mi ha preso per mano, ha parlato di sé, dei suoi nipoti, delle cose ordinarie, mi ha chiesto di Sarajevo, di come vanno le cose là”. Così l’ambasciatrice bosniaca in Olanda descrive l’incontro all’Aja con il generale serbo Ratko Mladić, appena trasferito in Tribunale.
Dunque, è così! I super criminali, in effetti, sono persone comuni, piccoli uomini, quelli che parlano del tempo e del cibo, della famiglia. Il generale Mladić, che nelle prime immagini dopo la cattura è apparso come un nonno innocuo, un paesano qualsiasi, quell’uomo che oggi a sessantotto anni si fa i bisogni addosso, è il responsabile dei peggiori crimini compiuti in Europa dopo la seconda guerra mondiale.


L’accusa è impressionante. Il generale Ratko Mladić è incriminato per il genocidio, compiuto nel 1992, contro i non serbi nelle otto città bosniache di Zvornik, Bratunac, Vlasenica, Foča, Ključ, Kotor Varoš, Prijedor e Sanski Most; per il genocidio a Srebrenica nel luglio 1995, dove ottomila musulmani bosniaci sono stati ammazzati alla velocità di cento persone all’ora. Un serbo, che aveva partecipato all’esecuzione, alla fine lamentava dolore al dito per aver premuto troppo sul grilletto del fucile. Mladić deve rispondere davanti al Tribunale dell’Aja, per l’assedio di Sarajevo, durato tre anni e mezzo, il più lungo nella storia moderna, per l’uccisione di diecimila sarajevesi, tra cui 1600 bambini, e per il terrore al quale furono esposti i cittadini.

“Tutti quelli che hanno commesso crimini, devono risponderne”, aveva detto al primo interrogatorio dopo la cattura il generale Ratko Mladić, come se fosse un incondizionato osservatore, un estraneo all’inimmaginabile orrore compiuto sotto il suo comando nelle guerre della ex Jugoslavia.

Per più di venti anni andavano costruendo la leggenda sul generale Ratko Mladić. Lo celebravano come un eroe, audace e dignitoso, brillante ufficiale, abile soldato, coraggioso patriota. I costruttori dell’immagine del “super generale” speculavano addirittura sul fatto che “Mladić non si sarebbe lasciato catturare ma, da uomo dignitoso, si sarebbe suicidato, come il generale tedesco Rommel”.
Ma la cattura del generale Mladić è stata coerente con la sua carriera militare. Cioè un codardo, che si è arreso a un gruppo di poliziotti venuti a prenderlo.

Nelle prime ore in carcere il generale Ratko Mladić non ha dato l’impressione di uno che si era sacrificato per un’idea, uno che magari si era insanguinato le mani per nobili intenti, né come uno che massacrava per la patria, che sterminava gli altri per difendere il proprio popolo, la chiesa, o la religione. Niente di questo, solo l’immagine di un miserabile, contraddistintosi per la grandezza del crimine che aveva condotto e ordinato.
Si mette le mani tra i capelli il mio amico, il giornalista e scrittore greco Leonidas Hadziprodromis, che all’età di vent’anni fu catturato dai generali greci, e condannato a venti anni di carcere, solo perché aveva scritto un pamphlet contro la giunta militare. Quel giovane non era scappato, non aveva accusato gli altri, non si era mascherato né si era nascosto, ma era stato fermo davanti ai giudici militari a difendere l’idea nella quale credeva.
Alla fine della seconda guerra mondiale, quando i partigiani di Tito entrarono vittoriosamente a Zagabria, un sottufficiale, che era a letto ammalato, con le ultime forze indossò l’uniforme dell’esercito sconfitto e uscì per strada. Fu ucciso subito, naturalmente.

Tra questi esempi di gente che lotta per un proprio ideale, non c’è Ratko Mladić. In lui non si è vista coerenza morale, né consapevolezza, né responsabilità. Da un giorno all’altro, cambiava l’insegna sotto la quale combatteva: ha sostituito la stella rossa con i simboli dei nazionalisti serbi che sgozzavano i non serbi. E, alla fine della guerra, quando doveva rispondere per quello che aveva fatto, il generale Mladić si è nascosto per sedici anni. Catturato, ha scaricato la responsabilità sui politici e sul popolo serbo “che ha scelto Slobodan Milošević per presidente”. Il che voleva dire che lui è innocente, un semplice esecutore degli ordini.

La dignità e la parola d’onore di un ufficiale sono cose mitiche. Una volta, per correttezza e decenza, si facevano duelli mortali. Bastava la parola d’onore che non avrebbero combattuto più, e gli ufficiali – prigionieri (nella guerra russo giapponese) venivano rimandati a casa. Ed essi mantenevano la parola data. Ma in questa categoria di onesti e dignitosi non c’è Ratko Mladić.

“Poi è arrivato il generale Mladić, e si è rivolto a noi. Vicini, state tranquilli, non vi succederà niente. Nessuno vi toccherà. Vi procureremo il cibo e troveremo un po’ d’ombra per voi, qui fa molto caldo. C’era una grande massa di diverse migliaia di donne, bambini e anziani, avevano tutti una cosa in mente: fuggire nella base dell’Onu a Potocari. Credevano che là si sarebbero salvati. E tutti gli hanno applaudito, dicendo grazie, signore, la ringrazio generale. Ci hanno portato al deposito. Quando l’ultimo uomo è entrato, all’improvviso hanno cominciato a sparare. C’erano spari di mitra, granate, raffiche. Non sapevamo da dove provenivano. La gente ha cominciato a gridare, urlare, implorare aiuto. Hanno continuato a sparare nel magazzino fino a sera”, ricorda Camila Omanović.

Una delle immagini televisive simbolo del genocidio è il generale Mladić nella Srebrenica appena occupata che, davanti alle telecamere, accarezza un ragazzino bosniaco biondo, che tremava non meno del coniglietto che teneva in braccio. Ma dall’altra parte “c’era una donna con tre figli. I due ragazzi più grandi si opponevano, poi li hanno presi tutti e tre… Penso che il più grande avesse tra i diciotto e i vent’anni, l’altro tra i dieci e i quindici. È la mia valutazione in base alla loro altezza. Il più piccolo aveva tra i cinque e i sette anni. Li hanno uccisi dietro la fabbrica. Siamo andati là dopo un’ora. Tutti e tre stavano vicini, distesi per terra. Erano coperti fino alla vita, e avevano la gola tagliata”, è l’orrore raccontato da un testimone.

La perfidia è l’attributo più adatto per l’uomo che l’olandese Vasen David aveva visto a Srebrenica nel luglio 1995: “Il generale Mladić si è avvicinato ai rifugiati musulmani, la truppe televisiva era con lui, e hanno cominciato a lanciare caramelle ai rifugiati musulmani. Hanno ripreso tutto quello che diceva Mladić. E poi il cameraman ha spento la telecamera, e quello che è successo dopo era orribile, perché hanno cominciato a strappare via i dolci alle persone e a picchiarle, anche i bambini che stavano davanti”.

Già nella primavera del 1995, quando bombardava la città assediata di Gorazde, la zona protetta dalle Nazioni Unite, i giornalisti stranieri scrivevano sull’ “eccellenza militare e la capacità del comandante Mladić”. E io mi chiedevo cosa c’era di brillante e coraggioso nell’attaccare delle città messe sotto assedio ancora prima che cominciasse la guerra. Cosa c’è di eroico nel bombardare Sarajevo con 600 pezzi di artiglieria pesanti, con una media di 350 bombe al giorno? Cosa c’è di difficile nel bersagliare civili disarmati, terrorizzati, affamati? In che cosa consiste il coraggio nel colpire Magdalena, la mia amica d’infanzia, una donna che ancora oggi, da nonna, sembra una bambina, ferirla a un centimetro dal cuore, e aspettare che le si avvicinino i soccorritori per colpire anche loro?

Fu il generale Ratko Mladić a impartire gli ordini, intercettati e depositati presso il tribunale dell’Aja: “Sparate alla carne viva”, cioè agli uomini, alle donne, ai bambini. “Sparate fino a fargli esplodere il cervello”, urlava il generale Mladić, e sotto, nella valle, stava la città inerme, indifesa. Poi da “patriota” ordinava: “Sparate sul quartiere di Velesici, là non ci sono tanti serbi”. Cosa può esserci di glorioso nel combattere una guerra dove da una parte c’è la quarta potenza militare d’Europa, cioè l’ex armata popolare Jugoslava (JNA) condotta dal generale Mladić, e dall’altra parte quelli come il mio amico Ipe, di Sarajevo: “Partivamo per il fronte con una macchina “Yugo”, vecchia, in cinque con un fucile. Battevamo i denti dalla paura. Schiacciati l’uno contro l’altro, sentivamo il tremore di chi ci stava accanto, e questo ci faceva spaventare ancora di più. Poi, arrivati al fronte con scarpe da ginnastica consumate e in maglietta, affamati, pensavamo solo a una cosa, a sopravvivere e a difendere quelli che avevamo lasciato a casa”. “Il mattatoio”, così ha intitolato il suo libro sulla guerra in Bosnia l’americano David Rieff.

L’unica volta durante la guerra in cui i soldati guidati dal generale Mladić hanno dovuto affrontare un altro esercito addestrato e armato, cioè alla pari, si sono dati alla fuga. I primi a scappare sono stati i capi politici, religiosi e militari. Fuggivano dal fronte con macchine di grossa cilindrata, poi c’erano quelli che si ritiravano coi trattori, c’era la gente che fuggiva sui carri trainati dalle bestie, e infine quelli che andavano a piedi. Se l’altro esercito non fosse stato fermato dagli americani, le truppe del “glorioso” Ratko Mladić, sarebbero finite ammassate in Serbia.

Né eroe, né tanto meno ufficiale dignitoso, nemmeno un condottiero brillante, né un consapevole patriota. Il generale Ratko Mladić è stato un’allucinazione, alla quale ha creduto lui stesso, insieme a molti serbi che ancora oggi lo glorificano.

L’unica cosa vera che lo riguarda è il grandissimo crimine che ha commesso e l’intramontabile dolore che i suoi crimini hanno provocato alle centinaia di migliaia di sopravissuti. Per questo resterà nella storia come il boia dei Balcani.

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17 Commenti

  1. se questo generale fosse stato un eroe, un ufficiale dignitoso,e un condottiero brillante
    sarebebro stati meno atroci i suoi crimini ?

    a volte il male prolifera anche negli uomini eroici,dignitosi e brillanti

  2. Questi miserabili estremisti di centro piccoloborghesi che si ergono a eroi da quattro soldi della vigliaccheria fanno sempre vomitare.

  3. di fronte a queste biografie sono sempre stupito che altri individui — poiché Mladić non è certo il solo — della mia stessa specie siano potuti arrivare a tanto. Credo sia comunque un buon esercizio quello di scavare dentro di sé per riconoscere eventuali insospettati analoghi orrori, prenderne coscienza è un modo certo per mantenersene lontani. Grazie assai, Azra.

  4. indubbiamente maldic insieme alla tigre erkann ha fatto molte cose brutte e quindi io chiaramente non li apprezzo. però bisogna considerare che questi personaggi hanno anche dei vantaggi, cioè sanno risolvere alcune situazioni che altri non sanno risolvere in ambienti un po’ particolari. io per esempio invece di condannarli in galera o al limite a morte gli darei un’ultima scians in ambienti tipo napoli o la calabria per vedere se magari potrebbero risolvere quei problemi che ci sono. se non sbaglio erkann è morto ma pribke è ancora vivo e non so se un personaggio come de maggistris potrebbe servirsi di tali uomini. grazie e scusate

  5. caro amico rotowash, io non credo che questa volta hai ragione. in calabria non lo so chi c’è perchè non la seguo ma non credo che un personaggio come de maggistris potrebbe chiamare questi ‘vip’ diciamo, anche perché ha gia detto che chiamerà saviano facendo capire che punterà più sulla cultura.

  6. @natalia castaldi
    In nome dell’eroismo della libertà e dell’eguaglianza sono stati commessi i crimini più atroci.
    Vogliamo ricordare Stalin, o Polpot (e tutti i loro seguaci) tanto per fare due nomi?

    L’idea che a compiere il male si debba essere brutti sporchi e cattivi nonchè vigliacchi è un po’ troppo semplicistica.

  7. @imondizie riunite

    Comincia a tremare, De Magistris è arrivato e non ti si vedrà più per strade.

  8. @Carmelo
    e scusami, in nome di tu dici, ma ciò non toglie che il nome fosse alquanto improprio (propagandistico, utilitaristico.. etc.), dacché alla storia non restano che dei brutti, sporchi (dentro) e vigliacchi, per nulla dignitosi e per nulla eroi. questo intendevo.

  9. sparz illuminante e azra preziosissima
    grazie ovviamente al maestro Furlan
    scuotere e scuoterci non è mai abbastanza
    c.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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