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Rivelazione

di Giovanni Catelli

Finì di maledire l’esistenza di Dio dopo il settimo giorno dalla nascita del vento, quella bestemmia del creato che traversò il paese sino a devastarlo, spalancò le finestre dell’immaginazione alle dame bigotte dell’ Unione benefica, strappò le campane superflue dalla cima del campanile, per concedere ai fedeli di riconoscere il cielo, distrusse le vetrate a colori, dono generoso della banca del Latifondo, le sfondò con rigore cartesiano, spargendone i frammenti per le navate come granita di frutta, s’infilò con urla di sirena vendicatrice nel cratere immenso della cupola sfondata dalle campane, disperse i chierici con il terrore semplice della sua mala intenzione, ma non se ne andò, prima di aver assistito alla rovina di tutte le case della Conquista, con la pazienza provvidenziale dei flagelli di Madre Natura, non se ne andò, prima della morte degli animali tra le macerie delle stalle, non se ne andò, prima del tuffo dei disperati serali dalle ringhiere del ponte, non se ne andò, prima che i nomi delle strade fossero scomparsi dagli incroci, non se ne andò per sette giorni, e del villaggio rimasero le muraglie ostinate, le grida nel buio dopo i crolli senza testimoni, le griglie di ferro alle finestre vuote, per il canto d’irrisione della morte, le schiene spezzate dei bambini sotto i pali divelti della pubblica luce, la follia, dei sopravvissuti solitari nelle strade notturne, senza riposo, per la ronda instancabile della vita perduta, delle ore vane senza più direzione.
Finì di maledire l’esistenza di tutto quando si tolse le vesti sui gradini della chiesa, le strappò, con urla feroci senza più parole, a brandelli, come la vita che restava nel paese, quelle gabbane lugubri da funerale a pagamento, s’accanì, lacerando a morsi la vergogna, il tradimento, le promesse vane, l’illusione, dentro l’ora di sollievo per la partenza del vento, sotto il peso più completo e palese del silenzio, sulla soglia di polvere che annunciava il deserto per sempre, la distanza irrimediabile dalla Nazione moderna, dal progresso felice senza ritorno, dal futuro d’abbondanza, dal regno dei cieli nella patria di tutti ; era lì, la verità, finalmente, si poteva fiutare nell’aria sabbiosa dopo gli ultimi crolli, era lì, senza nessuno a vederla, senza parole o ragioni, era lì, senza merito nel suo potere di padrona, con il sordo sfacelo del dubbio nei frantumi dell’ora, nella rovina del domani, sincera, per l’intenzione amara dei sopravvissuti, di placare il dolore con le vendette dimenticate, conoscere qualcuno che fosse davvero colpevole, infine, incontrarlo, l’autore di tutto, e vedersela, lì, sulla piazza, con in mano il coltello, da uomini, senza inganni del vento, dei giorni, da uomini, con il breve bagliore di lame, il silenzio, la mossa felina, lo sguardo, la mano leggera, il fendente, la striscia di sangue, la polvere, il coro silenzioso delle pietre, la sera in arrivo, la morte, la china sabbiosa dei gesti da compiere.
Finì di maledire il nome che portava quando vennero a chiedere un aiuto per i vivi, una parola fasulla per mascherare il dolore, un gesto vuoto a ricoprire la morte, li prese a fucilate, sulla pubblica piazza, li fece sparire, senza grida rimaste nelle gole diroccate, li respinse, alla pena più vera di essere vissuti, alla maceria costante di vedere, al morso cieco dei risvegli, li disperse, nelle strade affollate dal silenzio, dalla sete, nel paese abbandonato dalla Patria, dai soccorsi, ancora immobili nelle città, sospesi, nelle fotografie nelle promesse, nelle partenze nei saluti.
Non rimase nulla nel tempo interrotto, nei giorni tardivi di carità Presidenziale, nell’epoca severa del coprifuoco e della Milizia, lo cercarono a lungo sugli altopiani senza memoria, nelle città piovose, lungo i fiumi della foresta, non lo trovarono mai, non lo trovarono più, neppure il nome la voce il fucile, neppure la veste il ricordo gli spari, nemmeno le grida gli sguardi la rabbia, nessuno sicuro della propria parola, nessuno capace di onorare la sorte, nessun testimone ad averlo mai visto, sentito, sulla porta della chiesa, gridare, sui gradini della chiesa, spogliarsi, sul sagrato della chiesa, sparare.

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5 Commenti

  1. Signore, io vorrei dirle tutto il bene, ma non posso. Lei scrive con una lingua che non è sua perché è quella di Marquez, del Marquez più riconoscibile e singolare, benché non popolarissimo, de “L’autunno del patriarca”. Certo a quella la sua lingua inferiore, ma questa inferiorità non la rende più originale. Lei purtroppo è vittima del fascino irresistibile di una prosa meravigliosa.
    “La macchina del vento” diventa qui nascita del vento e tutto il resto non è che un tentativo d’imitare Marquez. Ci riesce appena però e goffamente. Alla fine non ne è all’altezza e non ha fatto nulla d’originale. Nel suo mestiere ha sbagliato due volte.
    Io, naturalmente, non ce l’ho con lei, ma certe cose devo dirgliele, perché domani magari riuscirà a scrivere qualcosa di buono e questo mi pare tempo sprecato. Domani forse ci riuscirà se lavorerà per creare una sua lingua. Persino Kafka deve qualcosa all’autrice di “Babicka” e a diversi altri autori. La letteratura si sviluppa per partenogenesi, ma Rilke invitatava a lasciar decantare a lungo in sè i versi degli altri. A dimenticarli finché quel sangue diventi il proprio sangue.
    La invito a cercare una sua lingua. Non so quanti anni abbia e spero che sia giovane, così avrà il tempo di farsene una. Questo tentativo però è maldestro. Sarebbe stato un poco accettabile solo se avesse superato Marquez, ma non ce l’ha fatta.
    Scusi se sono stato sincero, ma, se con questo tono si fosse impegnato in un romanzo, immagini quanto tempo sprecato.
    Spero di esserle stato utile e che non me ne vorrà.

  2. Signora Vanna, la sua opinione è senz’altro legittima quanto la mia. Quanto possa valere però non lo so. A me pare scarsissima a dire il vero. Mi ricorda un poco il professor Pallore del genialissimo Gombrowicz, il quale a tutti i costi voleva che il suo alunno Galkiewicz accettasse che Juliusz Slowacki fosse un grande poeta et cetera et cetera. L’accanimento di pallore e l’ostinazione “negazionista” di Galkiewicz danno vita a uno dei momenti più spassosi di Ferdydurke. La sua eccellentissima e perentoria opinione me lo rammenta. Me lo ricorda, ma molto vagamente è chiaro. Poiché, per quel che vale la sua opinione per me, ecco, quasi non me lo ricorda più. Stia bene, signora Vanna!

    Ps. Naturalmente non è mia intenzione accanirmi contro il povero Catelli imitatore di Marquez ed evito di fare il Galkiewicz della situazione anche perché mi pare evidente che sia uno spreco di tempo e non porti a nulla di positivo. Dicendogli quello che ho detto intendevo fargli un favore. Se poi entrambi siete d’accordo che la prosa presentata è un quasi capolavoro a me è indifferente. Non c’è nulla che metta più d’accordo la gente della mediocrità, essendo tipico della mediocrità il fatto di essere comune. Di nuovo ossequi, signora!

  3. “Gentilissimo” signor Antonino, è evidente che questo racconto è un divertissement letterario con evidenti citazioni marqueziane, ciò non toglie nulla a mio parere alla bellezza del racconto, se a lei non piace legga altro, non si metta qui a fare esibizioni di erudizione.

  4. Finì per maledire l’esistenza di Dio.
    Questo racconto mi ha fatto riflettere sulla vocazione religiosa,quanto
    il prete sia sempre più difficile oggi,il vero donarsi agli uomini gratuito,
    la vocazione intesa come vera opera di Dio.
    Nella guerra o nei Paesi provati da calamità naturali,il prete è messo a dura prova,ma il prete è anche un “uomo”,ed è l’uomo più che Dio,che fà
    vacillare la fede,l’indifferenza dell’uomo,la cattiveria,il potere,il non poter essere un dio,o non come Lui.
    Persino madre Tersa ha vacillato nella fede,prima di morire.
    Certe risposte non esistono,ma penso ci sia data la possibiltà di un percorso,più o meno lungo e dei talenti,ognuno il suo secondo la propria natura,la strada non è mai semplice e un Dio da lassù “forse” ci guarda.
    Grazie Catelli,ispirato o meno a qualche altro scrittore,l’importante è muovere pensieri e sentimenti,e ci è riuscito di certo.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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