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IL MALE FREDDO DI ANNA MARIA ORTESE

a cura di Andrea Breda Minello

Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile. Sono esigente col mondo, non vorrei che le cose fossero come sono, ma conoscendo del mondo solo delle parti infime e dando giudizi che invece riguardano tutto, finisco per sembrare e per essere ingiusta, e così preferisco non parlare. Per questo quando mi si chiedono notizie su di me mi viene rabbia. I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco.

Non seguo la letteratura contemporanea, so poco chi sono gli scrittori che valgono. Non conosco gli altri, degli altri paesi, e questo è sbagliato. E anche questo va messo sul conto dell’antipatia… i poeti? Caproni. E naturalmente Montale: le sue poesie mi vengono incontro, c’è il Nord, c’è il freddo, certo, ma con una radice dolcissima. Mi piaceva molto Gozzano.
Stevenson ha avuto un’influenza su di me? Sì, perché guardava tutto con gli occhi di un bambino, c’era il gioco della vita, i briganti, l’avventura… Il “cattivo” dell’Isola del tesoro, il Capitano zoppo, non è, come ha detto qualcuno, il male odioso, puro, totale. Dove c’è divertimento, non può esserci il male assoluto, c’è il lato ingenuo del male, il lato infantile. Il male vero è l’industria, è il denaro. Il male è il freddo che essi provocano; se oggi ci fosse più calore, non ci sarebbe tutto questo male. Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali… resta solo il denaro, che chiede e impone un’altra natura, una natura artificiale. Una volta delle persone in cenci potevano sembrare vestite di tutto lo splendore della terra. Ho visto di recente il Pinocchio di Comencini: quanto freddo vero c’era in quegli anni, ma anche quanta libertà: un pezzo di legno, cioè niente, e si apriva il mondo della libertà… oggi tantissima gente al confronto sta benissimo, ma è come se avesse perduto ogni energia profonda, e come se avesse perduto la bellezza. Io ho avuto il vantaggio di una famiglia che mi lasciava libera di camminare e di leggere: sono state queste due possibilità a formarmi. Un tempo i giovani pensavano, avevano idee, non finiva tutto in attività organiche come è ora, non c’era un tempo libero da sciupare malamente come lo sciupano oggi. Una persona importante ha detto a proposito dei morti del sabato sera, dopo le discoteche, che bisognerebbe mettere nei pronti soccorsi del personale medico specializzato nel recupero immediato degli organi dei ragazzi morti negli incidenti di auto. Addirittura. Io sono stanca di vedere ricchi, gente che spende troppo per vestire, che vive nell’imitazione di gente ancor più ricca. L’oro, il denaro, hanno tutto questo spazio perché c’è la televisione, non potevano averlo senza le televisioni. Il desiderio è diventato il veleno. Nessuno consiglia il distacco, nessuno consiglia a nessuno: “ferma il desiderio”. Occorre fermare il desiderio. Invidio la libertà che c’era prima dell’industria.

Se uno è soffocato da un peso, questi va aiutato a rimuoverlo. Siamo una famiglia, dobbiamo assumerci le responsabilità di una famiglia. Chi soffre deve essere aiutato subito. Dove questo non avviene, non posso considerarlo il mio mondo. Ognuno è responsabile della caduta degli altri, e deve pagare per loro. Siamo coinvolti non per una nostra colpa, ma come membri di una famiglia. Anche se ne fossimo i membri privi di colpa, abbiamo delle responsabilità. Jimmy Op, in Alonso e i visionari, vuole riparare. Il concetto centrale del libro è questo. Io non credo nella condanna, per esempio non credo nell’inferno. Non vado in chiesa dall’età di 14-15 anni per l’orrore che mi fa l’idea dell’inferno, della pena eterna… dove c’è il dolore bisogna toglierlo, e subito. C’è un ragazzo in America che aspetta da dieci anni il boia che gli dia la morte, che è condannato a morte, che vive nell’attesa. Sarebbe persino meglio se lo ammazzassero, è orribile questa condanna all’attesa. Ma sarebbe meglio se lo liberassero. Chi è caduto va aiutato. Sia esso un verme, un dittatore, una creatura qualsiasi… Bisogna aiutare il prossimo sempre. Ci sono tanti ragazzi colpiti da Aids, che cosa si fa per loro? Chi cade è invece il più disprezzato. Ancora e sempre: guai ai vinti!
Si tolgano i soldi alle spese dei ricchi, alle spese ricchissime. Quando c’è chi soffre, queste spese sono immorali. Il divertimento è immorale, quando gli altri soffrono. Bisogna stangare tutto ciò che è follia consumista, divertimento. Il divertimento è tempo rubato a chi ha bisogno di aiuto. Invece su queste cose nessuno si arrabbia più, si lascia correre. Non bisogna perdonare tutto. È per questo che io risulto antipatica e che mi sento antipatica, che non posso essere simpatica.

Solo chi ce l’ha, sa davvero cos’è il dolore. Sì, è vero, un qualche dolore, una qualche infelicità l’hanno tutti. E allora? Allora si tratta di aiutare tutti, di non dire mai di no a uno che ha bisogno di aiuto, di essere intimamente pronti ad aiutare, sempre. C’è anche il dolore della natura di cui tenere conto, che è immenso; pensiamo soltanto agli allevamenti di animali, a tutte quelle creature tenute rinchiuse per poterle uccidere, pensiamo al dolore degli animali. Sarebbe meglio rinunciare a tutto, piuttosto che condividere queste colpe, o tollerarle. Per salvare il mondo c’è bisogno della nostra responsabilità, per salvare noi stessi dobbiamo responsabilizzarci verso il mondo. La creazione è tarata, ma si può correggerla. Però non bisogna perdere tempo, il tempo che ci resta è poco, la natura sta morendo. E il tempo che ho io è limitatissimo: se non parlo di queste cose, di cosa parlo?
Parlando di libri, di romanzi, di letteratura, bisognerebbe anche parlare di stile. Nell’opera è fondamentale lo stile, ma a volte, quando la società intorno a noi non sente, non conta: lo stile, in questo tipo di società, non conta più nulla.
Non ho più le piccole cose che possono dare consolazione; o meglio: non mi consolo più con le piccole cose. Non è retorica, davvero mi detesto, davvero mi viene sconforto a considerare cosa scrivo e faccio, cosa ho scritto e ho fatto. Le interviste le vedo come delle provocazioni. Io non voglio piacere per un’immagine, io no voglio “immagine”. Non posso più avere rapporti con la realtà, la realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto.
I libri, la scrittura, l’invenzione… sono ricordi e malattie dell’intimo. I libri sono ferite dell’anima. L’ostrica costruisce perle vere, io forse no, le mie sono forse perle false. Però questo so fare. La perla è la malattia dell’ostrica. Scrivere è una malattia; mi costano molto queste cose luccicanti che cerco di costruire.

Nei miei libri ci sono proposte che appaiono ineluttabili, proposte che il mondo rifiuta. Ci vorrebbe rinnovamento, nel mondo, non rivoluzione, che alla fine non cambia niente. L’importante è il rinnovamento.

Nota del Curatore
Due anni prima di morire, Anna Maria Ortese rilasciò a Goffredo Fofi per Linea d’ombra (1996) le dichiarazioni sopra riportate.
La scrittrice può e deve essere annoverata fra la schiera di quei nostri profeti laici troppo spesso vilipesi, mal interpretati o piegati a logiche che con la verità non hanno nulla a che fare. Profetessa laica, come lo sono stati Morante e Pasolini, in una costellazione di sostenitori dello scandalo, come punto di partenza per resistere agli abomini della società post-post-moderna. Questi lacerti, così come gli scritti di Corpo Celeste o il morantiano Pro o contro la bomba atomica e gli Scritti Corsari di PPP, sono il passepartout di una resistenza civile, prettamente umana, di una denuncia quotidiana del “vizio di forma”, corto circuito che palesa unicamente il ripiegamento, un’implosione del mondo.
Eppure Ortese, che talvolta sembra Cassandra, talvolta Sibilla, interiorizza e ripropone la lezione leopardiana della Ginestra con un dettato inusitato, che non ha pari o quasi nel nostro Novecento.
Andrea Breda Minello

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18 Commenti

  1. ANNA MARIA ORTESE E IL SOGNO.

    In questa magnifica lettera,- l’ho letto come una lettera per ogni lettore isolato- vedo gli occhi marittimi della scrittrice, quelli occchi che scrutavano il mistero della realtà sognata, la forma sfumata del miope-

    Il miope sa vedere meglio il sogno dell’apparenza del mondo. C’è un racconto molto bello che dice la disillusione di una bambina in una strada di Napoli: la bambina vede l’ombra, il polvere come ombra e polvere
    senza l’aura dell’immaginazione.

    Questa lettera è bagnata dalla luce lucida, amara che vestiva allora il cuore di Anna Maria Ortese. La scrittrice aveva scelto Napoli come porto della sua creazione. Ha dovuto conoscere anni di lontananza, di povertà, di fame, di lettere agli amici di SUD.

    Il freddo ha morso poco a poco il suo cuore, quando Napoli era nel suo ricordo il desiderio dell’infanzia e una libertà ritrovata, un porto napoletano con la meraviglia delle storie, era qualcosa di luminoso,
    una tristezza. Nel fondo la meraviglia erà li, nello spazio intatto del sogno.

    Grazie a te Franco, per questo testo bellissimo. Anna Maria Ortese è un mio grande amore letterario.

  2. Forse questo pomeriggio, Anna Maria Ortese avrebbe ritrovato un po’ di luce venuta dalla città amata. La sua amarezza si attenuarebbe. I suoi occhi avrebbero il colore marittimo della speranza.

  3. Cara Véronique, grazie del tuo post. Credo anche io che ora Anna Maria Ortese sia sorridente, presente fra noi, a gioire di questo ultimo lunedì di Maggio, che ci rende più speranzosi e- perché no- anche un po’ felici. Grazie a Franco di aver accettato di inserire il testo. Oggi è una giornata ortesiana, anche a Farheneit le hanno dedicato la puntata.

  4. Si, concordo, la Ortese è una GRANDE. Col tempo, lontano dai clamori, dalla velocità, dai rumori delle promozioni e dell’oggi, si può porre occhio e orecchio letterario critici sulla sua opera. Allora si scopre che essa incominica a PARLARE al di là del caduco e al di là della sua storicizzazione. Sì, il grande canto de LA BANDIERA DEL SOCCORSO, scritto nel 1998, poco prima di morire, nella sua ultima battaglia civile contro la pena di morte, per salvare dal boia l’ennesimo afroamericano incappato nel tritacarne patibolare, ha straordinari accenti leopardiani, con in più tutta la consapevolezza esistenziale del Novecento. Anch’io la amo e la apprezzo e voglio qui omaggiarla con un piccolo testo in suo onore che scrissi nel decennale della sua morte e che rispecchia la sua vita precaria e randagia :

    AD ANNA MARIA ORTESE

    io

    iguana
    in fuga dal mondo
    nata da libri incantesimo
    in cerca di fiaba apparizione visione…

    in cerca d’un luogo
    che mi rivoltasse il cuore come un calzino
    inchiodata all’abbraccio di tutte le anime
    affrancata da ogni sconfitta…

    in cerca d’un luogo
    in mezzo al deserto
    alla finestra d’una misera casa gialla
    affacciata sul porto…

    lontano
    dalle virtù del nulla
    che affogano il mondo

    in cerca di salvezza

    io

    in una lacrima
    ho visto i colori d’ogni diversità
    d’una sola nuda fierezza

    nell’indigenza del bene
    che parla con parola sommessa….

    in compagnia
    di zingari e bimbi
    in quel luogo trovato
    ho amato il mio aleardo
    in un luogo in mezzo al deserto
    iguana che guarda più in alto…

    affiliata al partito
    dei cercatori di dio
    d’un dio altro dalla pena del mondo
    respirando a pieni polmoni
    perché sacro
    è il respiro
    del bosco
    del lupo
    del cane…

    io

    in fuga
    da trentasei case e dieci città
    ho trovato infine quel luogo
    in una sola stanza tana in cui

    patire scrivere amare…

    S. D. A . , 15 . 12 . 2008

  5. Anna Marì,
    si tu vedisse chello ca succede ‘ncopp’a sti vasule ‘e Vesevo.

    Anna Marì,
    mò dico ‘na cosa ca te squart’o core: è meglio ca si morta.

    Anna Marì,
    perduoneme, ma saccio ca suffrive pe’ sta terra e stu popolo.

    Anna Marì,
    sapisse ‘e viche addò ne consumate suole, tacchi e sopratacchi.

    Anna Marì,
    ccà ‘a bellezza te ferisce ll’uocchie e ll’anema, ‘o core e ‘o cuorpo.

    Anna Marì,
    accussì ‘o nniro dint’o scuro d’e vasce e ‘e lampetelle d’e muorte.

    Anna Marì,
    ‘o Comandante Achille Lauro te deve ‘nu palatone ‘e pane, ‘nu chilo ‘e pasta, ‘na scarpa sola e diecimila lire ‘e carta tagliata a mità.

    Anna Marià,
    Bastava ca tu vutave Stella e Corona, sarebbe a dicere ‘o simbolo d’a Monarchia. E doppo vutato te deve ‘a robba prumessa

    tramite don Vicienzo, ‘o cumandate d’o vico. Maronna che pena pigliarse chelli ccose, fa ‘a faccia sorridente, ma cumbattere cu ‘a famme e ‘a morte.

    Ana Marì,
    Maronna che dolore e quale sofferenza avevamo annasconnere sott’o lietto. Tu sai ‘e chello ca sto parlanno quanno ‘e ccriature chiagnevene.

    Anna Marì,
    tu ‘o ssaje: chiagnevene senza mazzate; steveno senza latte p’e sti zizze sciupate e asseccunute. E ‘o fuculare scuro.

    Anna Marì,
    pare ca ‘o tiempo d’e lotte è passato comme acqua fresca, anzi sporca.
    Invece ‘a storia nun avessa mai turnà addareto, specie p’a soffrenza.

    Anna Marì,
    Marittiello e Ninuccio scenneno ancora ‘a ncopp’e Quartiere ‘nzieme ‘a banda d’e Rolex, senza guardà nfaccia a nisciuno, specie ‘e viecchie.

    Anna Marì,
    quanno cammenave p’e viche ‘e Montesanto, ‘a Sanità e d’o Carmine
    ire già ‘nu fantasma ca s’accuntentava ‘e poco, comme ll’aucelluzzo.

    Anna Marì,
    ccà s’accire e se spara, eppure ‘o sango ‘e Faccia ‘Ngialluta nun sgarra.

    Anna Marì,
    ‘O sango ‘o luvammo cu ‘a segatura, acqua a beverune e disinfettante.

    Anna Mari,
    ce fanno murì cu ‘o fieto ‘e craune: ‘e viche stanno chin’e munnezza.

    Anna Marì,
    tu mò nun putisse cammenà pe’ dint’e viche a cercà ‘e llente p’e vedè.

  6. il modo di stare al mondo di una creatura che scrive frasi come “Chi soffre deve essere aiutato subito. Dove questo non avviene, non posso considerarlo il mio mondo.” è una consolazione che non smette. Ringrazio Andrea per averci offerto questa chiara, maleducata, toccante, interminabile lettura.

  7. grazie, Maria Grazia, di tutto cuore. Anche la Ortese credeva nell’essere poeta fino in fondo, per il bene dell’altro, guardando al mondo con tutta la sua purezza.

  8. Molto giusto anche il riferimento alle sofferenze degli animali (in larga parte dovute al consumismo). Ma chi ha il coraggio di svelare tante ingiustizie (anche nascoste) spesso è visto come “antipatico”.

  9. è cosa buona e giusta questo post, non c’è che dire; un omaggio alla nostra scrittrice più grande fa sempre piacere. sarebbe ancora più giusto, però, far sapere anche che esiste un blog a lei interamente dedicato, con grande cura e passione, che di materiali come quello qui riprodotto abbonda e straripa. oltre a rendere un servizio alla comunità dei lettori, si eviterebbe di ringraziare e riverire per la scoperta o la riproposta dell’acqua calda. o fredda, a scelta.

    http://insonnoeinveglia.splinder.com/

  10. Grazie Andrea per questo omaggio ad AMO. Fa sempre piacere sentire la sua voce. Non so quanto profetica sia stata, nè se il profetismo possa essere una categoria applicabile alla letteratura (ho il sospetto che un po’ la danneggi, anche negli altri casi che citi), ma di sicuro AMO, ci ha fatto, e continua a rivelarci il mondo che già c’è con sguardo dolorosamente “meravigliato.” Un abbraccio, gm

  11. ciao andrea, finalmente sono riuscita a leggere questo tuo e di cui ti ringrazio, innanzitutto perché è autrice a me quasi sconosciuta, d’altra parte come lei conosceva poco niente gli straniere io conosco poco niente gli italiani. e assai di più gli stranieri. stupisce tuttavia che lei abbia infine uno stile assai più “straniero”. lo trovo straordinario infatti, anche i contenuti, certo, con una lieve diffidenza sul passo “i giovani un tempo avevano idee invece voi etc…”, sai, me lo ripeteva sempre mia nonna e anche una professoressa di italiano di quella stessa generazione, a cui io replicavo che i giovani di allora erano anche quelli che hanno fatto la II guerra mondiale. o hanno aperto auschwitz, a proposito di idee. voglio dire, diamoci una calmata sul pensiero di una morale involutiva, è una faccenda talmente complessa. detto questo ti ringrazio per questa lettura e prenoto ortese in ibs. ciao fanciullo.

  12. Ortese era grandissima: una che spendeva i soldi dei premi in caramelle e che per andare allo Strega si fece prestare un vestito. Altri tempi, verrebbe da dire, ma verrebbe da dire anche che una società che ignora una voce assolutamente inimitabile come la sua, io non mi sento di riconoscerla come mia.

  13. Cara, dolcissima Véronique: Anna non amava più Napoli dal 1953, quando fu costretta a scappare e non vi tornò mai più, tranne una volta, nei primi anni Sessanta, facendo un tortuoso giro d’Italia in treno e sostando pochi minuti… Addirittura, se non ricordo male, non scese neanche dal treno e ripartì…

    mary b: mi dispiace per te, ma Anna conosceva bene alcuni “stranieri”, cito a memoria i libri (pochi) che campeggiavano nella sua piccola biblioteca a Rapallo, quando andavo a visitarla: Cechov, Mansfield, Keats, Shelley, Holderlin, Bachmann, Conrad, Dickens, Andersen, Eca De Queiroz, Steiner (Rudolf), Dickinson, Coleridge, Stevenson, Novalis, Hoffmann, Melville, Forster, le sorelle Bronte, Austen, …

    Marilena Renda: dove hai letto che Anna si fece prestare l’abito (una camicetta blu e una gonna di seta indiana con sfumature azzurre, scarpe di feltro nere per la serata del 4 luglio 1967 (che poi indosserà di nuovo soltanto ai primi di luglio del 1985 per il premio Fiuggi)?
    Non comprò caramelle ma soltanto le maniglie delle porte di una casa che non aveva. Quelle maniglie furono poi donate a Nico Orengo, che l’intervistò per “Tuttolibri” (ai tempi del “Cappello piumato”, 1979)…

  14. Caro Giorgio,

    So la passione che hai nel cuore per Anna Maria Ortese. E’ vero quello che dici dell’Amore/ Odio per la città. Ho letto un piccolo libro che svela la corrispondenza della scrittrice poeta ( la considero come una romanziera poeta). Se sente una nostalgia per gli amici Napoletani ( in particolare Prunas), ma anche un risentimento: la sua fuga nella realtà sfuocata della vita, per non annegare nel fredo.
    Ho trascurato- nel mio amore per Napoli- questo sentimento ambiguo per la città, ambiguita provata da molto scrittori napoletani in esilio.
    Il ricordo della città parla di un paradiso perduto, ma anche di un luogo che soffoca, attanaglia il cuore: una città crudele e meravigliosa.
    La città incarna il mito della bellezza. Credo che il pericolo sia nell’impossibilità di dare una visione reale delal città. Non so se ho visto con nitore la città, questa chiarezza d’estate sfuocava la mia vista: c’era un sole d’oriente dal Vomero, un mare di speranza e di felicità, un’assenza di solitudine ( voci della strada che mi accompagnavo nel sonno), un respiro, ho provato qualcosa che non avevo provato: l’assoluta armonia con la mia storia personale, la mia immaginazione,
    la mia defizione della felicità.
    Non sono tornata da due anni a Napoli, ma la città mi abita ancora, amo chiudere gli occhi e traslocare, la porto come un amore, un desiderio.
    Avevo trovato il mio porto.

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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