Nuovi autismi 1 – I nostri cancri

di Giacomo Sartori

Nella mia città abbiamo tutti il cancro. È per via degli ormoni nell’acqua del rubinetto. Le donne prendono la pillola per non avere troppi bambini, e poi corrono al gabinetto a fare pipì, e la pipì finisce nel fiume. Fin lì non ci sarebbero grossi inconvenienti, perché la femminizzazione dei pesci maschi e i cancri dei pesci ambosessi costernano ormai solo qualche occhialuto ittiologo. Poi però l’acqua del fiume rifinisce nel rubinetto: tu la bevi e ti viene il cancro. Naturalmente ci sono gli impianti di depurazione, ma molte porcherie restano pur sempre nel rubinetto, checché ne dicano i pieghevoli entusiastici dell’agenzia per l’ambiente. La prima è stata Isa. Insomma, la prima del nostro giro, perché come è ovvio prima di lei ce ne sono stati infiniti altri. Cancro al seno. Lei se lo aspettava, perché anche sua madre aveva avuto un cancro al seno. Se lo aspettava fin da piccola, quando appunto sua mamma l’ha lasciato sola con il padre che era depresso cronico. Era convinta che il tumore al seno le sarebbe venuto alla stessa età della madre, e invece si è manifestato solo due anni dopo, perché la natura non è che sia l’orologio che si pensa, in fondo fa quello che vuole lei. Oppure ha tenuto conto dell’allungamento della vita media, perché non è che si possa sempre sapere tutto delle arzigogolate strategie della natura. Isa per non correre il rischio di avere il cancro come sua mamma beveva solo acqua minerale, ma pare che una delle cause più in auge del cancro sia proprio la plastica delle bottiglie. Come da prammatica Isa ha cominciato la chemioterapia e ha perso tutti i capelli. I primi tempi era molto triste perché era molto attaccata ai suoi capelli lustri e ammiccanti: li considerava la sua arma infallibile per sedurre gli uomini. A Isa è sempre piaciuto sedurre gli uomini, tanto è vero che ha sedotto anche a me, anche se non lo si può dire tanto in giro. Nella nostra città ci sono però negozi specializzati dove si vendono parrucche di tutti i colori e tutte le fogge: il vantaggio delle grandi città è che per ogni cosa sono molto organizzate. Se uno abita in una cittadina abbioccata tra i campi di colza procurarsi una bella parrucca può diventare un vero problema, non è che il giornalaio oltre alle penne e alle buste tenga anche le parrucche. Se sei fortunato la parrucca te la paga la mutua integrativa volontaria, ma Isa aveva appena perso il lavoro, e aveva appunto deciso di risparmiare sui versamenti della mutua integrativa. Va detto che i prezzi delle parrucche possono essere anche esorbitanti, se si va su prodotti di qualità. Tu entri nel negozio, e la commessa o il commesso capiscono subito che sei un cliente chemioterapizzato: mentre ti fanno provare le parrucche usano molto tatto, ma anche la massima naturalezza, come si devono trattare i malati gravi. Di solito arguiscono anche se sei un chemioterapizzato ricco o scannato, e quindi adeguano l’offerta. Questa le sta proprio bene ti dice, come se si trattasse solo di farsi belli. La seconda a avere il cancro è stata Vero: cancro al seno anche lei. Seconda per modo di dire, perché probabilmente il tumore di Teo s’era incistato prima che Vero si accorgesse di avere un grumo sotto il capezzolo destro, anche se lui non aveva notato nulla di strano. Quando glielo hanno diagnosticato era quasi troppo tardi perfino per tornare a casa, adesso esagero un po’, e infatti poche settimane dopo è morto. A quel punto Vero era già però al secondo ciclo di chemio. Mary, la sua donna, che in realtà è straniera come me, ha rischiato grosso, perché pare che una delle cause più frequenti del cancro sia proprio la perdita di una persona cara. Attaccata com’era a Teo tutti si aspettavano che le venisse un cancro al cuore o da qualche altro organo legato ai sentimenti. E invece non le è venuto niente, almeno per ora. Forse non voleva così bene a Teo come sosteneva di volergli piangendo a dirotto. Pare che se il tuo problema è l’infanzia ti viene un cancro al seno destro, se invece la magagna che ti assilla è la maternità a quello sinistro. Mi sorge però il dubbio di aver invertito i seni: comunque sia ci sono economici bestseller che spiegano nei dettagli queste cose. Il problema di Vero è che dopo la chemio i capelli non le sono ricresciuti. Lei dava per scontato che sarebbero rispuntati, come succede sempre, e invece la sua testa è restata liscia e lucida come una palla metallica. Chiedeva spiegazione agli oncologi che l’avevano curata, e loro la guardavano con le guance strette e le sopracciglia alzate, beninteso aspirando con il naso: in certe situazioni i medici non fanno nemmeno più finta di sapere tutto. Proprio non lo arguivano perché diavolo non le erano rispuntati i suoi bei capelli biondi. Lei si infilava una parrucca solo quando era a casa da sola con il figlio preadolescente, che non sopportava le teste pelate, però per uscire si metteva di solito un foulard annodato sotto il mento: sembrava una di quelle donne nelle automobili decapottabili nelle pubblicità degli anni cinquanta. Parlo naturalmente del secolo scorso. Vero ha sempre avuto un gusto struggente per i colori, e i suoi foulard le stavano sempre bene. Qualche volta li annodava dietro alla nuca come una contadina sovietica. Un giorno uno dei suoi clienti le ha detto che le stava proprio bene il nuovo look. Lei ha risposto che era un look chemio, perché è una persona molto diretta. Poi un giorno ha deciso di non mettersi più niente: si disegnava solo con la matita le sopracciglia che non aveva più. Adesso le è spuntato qualche rado peletto setoso, che fa pensare ai capelli di certi neonati, e tutti noi lo troviamo molto incoraggiante. Molti dicono che la vera causa di tutti questi cancri sono i computer. Uno sta tutto il giorno seduto davanti al computer, e gli viene il cancro al seno, o al naso, le parti insomma più vicine ai raggi nocivi emessi dal computer. Altri incolpano l’inquinamento atmosferico, o la radioattività. Ma per me, sarà deformazione professionale, potrebbero essere benissimo i pesticidi. Uno mangia una sana insalata, o una invitante coppa di fragole, e gli viene il cancro. Insomma, magari il cancro non viene al primo piatto di sana insalata o alla prima invitante coppa di fragole, perché in moltissimi casi il cancro è una malattia poltrona. Però prima o poi arriva, su questo puoi stare tranquillo. Se però si stesse lì a preoccuparsi per tutto quello che si ingurgita verrebbe il cancro al cervello, quindi forse è meglio mangiare senza pensare a niente. Poi purea Liza le è venuto il cancro al seno. Anche per i tumori le donne hanno tendenza a essere un po’ monotone, sarà forse l’abitudine a pedinare la moda. Del resto con la nostra prostata noi maschi possiamo stare zitti: sembra quasi che se uno non ha il cancro alla prostata sia un poco di buono. Io mi sentivo un marziano, quando non avevo nessun tumore. Anche Jo ha avuto il cancro al seno. Poi però le ne è venuto anche allo stomaco, sebbene all’inizio le avessero detto che il suo tumore era una cosa da niente, e ce ne sarebbe venuta fuori senza nemmeno il bisogno della chemio. Uno pensa che un cancro allo stomaco sia necessariamente una tragedia, e invece pare che molti cancri allo stomaco di adesso siano poco più gravi di un banale raffreddore. Il povero Ghigo era uno di quelli che pensano che visto come stanno le cose è inutile smettere di fumare, tanto il cancro ti viene lo stesso. Quando uno è morto tutti dicono il povero tal dei tali, senza star lì a pensare quante sigarette fumasse e quali erano le sue teorie sul cancro ai polmoni. Il vantaggio delle grandi città è che sono tutti sono molto informati, perché la casistica è enorme. Appena uno si becca un dato cancro subito gli amici e i conoscenti gli consigliano a che ospedale andare e come meglio regolarsi per quel particolare carcinoma. E anzi sempre più spesso durante le cene si parla dei migliori servizi di oncologia per il tal o tal altro tumore, come appunto prima si discuteva dei ristoranti dove si mangiava la determinata squisitezza. È successo anche ieri sera, per questo lo dico. La memoria ancora ce l’ho buona.

[Immagine: Chaissac, “Sans titre”, gouache sur papier, 20.8×16 cm]

Print Friendly, PDF & Email

9 Commenti

  1. Io non avrei utilizzato quell’aggettivo..

    Comunque si sa: Sartori scrive con tale leggerezza e ironia che anche l’oggetto più tragico diventa una quisquilia, tanto da poterla definire deliziosa.

  2. Direi che è proprio questo carattere da racconto di fantascienza che rende l’inverosimile ironia .. deliziosamente contagiosa.

  3. ringrazio dei complimenti;
    però non so se mi riconosco molto nel termine “ironia”, intendo nella sua accezione corrente, bassa (lo dico perchè la cosa mi ha fatto pensare, non per altro), anche se naturalmente poi come figura retorica l’ironia ingloba tante cose, e probabilmente ci finirei dentro;
    ironia implica visione dall’alto, giudizio, finzione (di ignoranza), è un’ arma, un’arma vigliacca (rispetto all’attacco diretto), sconfinante nell’ipocrisia, o comunque nella “manipolazione filosofica” (Socrate), con un’intenzione freddamente programmatica, mentre questo tono vorrebbe essere più vicino all’irrisione (e all’autoirrisione) involontarie (connaturate al fluire della lingua stessa, che in sè contiene significati diversi), vissute sulla pelle del personaggio, con una “innocenza” (dello sguardo, non dell’essere) sottesa;
    in realtà credo di non amare molto l’ironia; anche nella vita la pratico molto meno di un tempo; e nei testi attuali amo le lingue complesse che dicono anche il contrario di quello che affermano (tipico Bernhard), però appunto creando confusioni e sconcerto, senza che una determinata linea programmatica prenda il sopravvento;
    non so, mi sembra impossibile essere ironici dopo per esempio Beckett;
    questo però è quello che vedo io, che so benissimo cosa voglio, ma non so forse teorizzarlo;

  4. Mah.. Sartori non so se si possa decidere, a un certo punto, di non essere ironico o decidere di non usare l’ironia, l’ironia o ti appartiene o non sai neanche cos’è, se non per sentito dire. E se ti appartiene verrà sempre fuori, come le scorregge, che tu lo voglia o no. E’ un modo per affrontare la vita, è un punto di vista che ti pone fuori, “fuori” non significa necessariamente porsi in alto, non è necessariamente un atteggiamento altezzoso o sarcastico che prevede giudizio, è più uno sguardo attento alle sfumature, al dettaglio, all’altro(dove l’altro sei tu visto da fuori), osservando il quale riesci finalmente a riconoscerti e riconoscere la tua possibile irrisione(autoironia ?); giusto per non porti troppo in alto; questa è un’irrisione terapeutica che puo’ rendere una situazione particolarmente drammatica, sostenibile.
    L’ironia ha vari utilizzi dipende dall’indole di chi l’utilizza e che fini si prefigge: ci sono ironie basse e bassissime che si prefiggono la demolizione dell’altro e ironie che favoriscono l’incontro il riconoscimento e la condivisione. Talvolta l’ironia ti permette di stemperare una situazione tesa, e ti permette anche di trovare degli amici e magari una fidanzata. ^__^
    C’è chi ha la forza di affrontare la vita senza ironia e giudicano l’ironia questione da deboli, vigliacchi; questo per me significa porsi arrogantemente al di sopra è un atteggiamento da guerrafondaio che si presta facilmente all’irrisione dell’ironico. Il presunto potere che talvolta riusciamo da intellettuali ad arrogarci va sempre irriso, giusto perché non prendersi troppo sul serio. In un mondo nel quale non è possibile avere nessuna certezza assoluta che non possa essere confutata.

    Secondo me nel suo scritto l’ironia c’è ma e’ un’ironia delicata; la chiami autoironia, ironia filosofica o psicologica o tutte queste insieme, ma ironia rimane, ma è un ironia sana perché l’ironia lei l’ha affidata ai suoi personaggi e io l’autore Sartori non l’ho nemmeno visto.

    p.s. non rileggo, cerchi di interpretare lei la mia “grammatica” creativa ^__^

  5. Mi permetta Sartori, ma lei ha mai realmente incontrato il cancro? Perchè, vede, quando lo si incontra “di persona”, c’è, anche in un malcelata ironia, un dolore e una rabbia che nel suo testo manca. Mi è parso di leggere il pezzo di un bravo giornalista che dopo aver sostato al reparto oncologia, si è informato sulle probabili cause del cancro. E il suo “abbiamo” è troppo sereno. Perdoni il pensiero schietto di chi ne ha scritto in modo” ironico” mentre indossava una parrucca.

  6. @ patty
    naturalmente la narrativa, come l’arte in genere, “gioca” spesso con temi e soggetti che nella vita possono essere fonte di dolore anche insostenibile;
    una persona a me vicina anni fa è stata molto colpita da un lutto, e ogni volta che per distrarla la portavo al cinema, nemmeno a farlo apposta – anche quando era una commedia – zac, c’era un funerale (e lì che mi sono reso conto di quanti funerali ci sono nei film), che naturalmente per la persona a me cara – fragilizzata e traumatizzata – era insopportabile (anche quando appunto era una commedia: l’equivalente forse della “serenità” di cui parla); questo per dire che capisco benissimo cosa intende;
    detto questo, in tutti i miei scritti cerco di non essere né gratuito né superficiale, anche se forse non ci riesco;

  7. @ ares
    certo, ci sono tante forme di ironia, in letteratura come nella vita, e alcune sono gradevolissime e squisite, ne convengo;
    dicevo solo che io mi sono un po’ liberato – non certo per volontà ma come risultato del mio percorso personale – dall’ironia nevrotica e disdegnosa nella quale sono stato educato, e ne sono ben contento; ma si sa, tutto viene poi fuori nella scrittura (con sconcerto ho appreso da adulto che l’ipersensibilità, che da spesso ottimi scrittori, più che una “qualità” (come io pensavo) è piuttosto una tara legata alle difficoltà incontrate dal bambino nella prima infanzia, che l’ha dovuta adottare, se non voleva sopperire, come strumento di difesa);

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Dogpatch

di Elizabeth McKenzie (traduzione di Michela Martini)
In quegli anni passavo da un ufficio all’altro per sostituire impiegati in malattia, in congedo di maternità, con emergenze familiari o che semplicemente avevano detto “Mi licenzio” e se ne erano andati. Ero veloce alla tastiera del computer e imparavo facilmente senza bisogno di molte ore di formazione.

Euphorbia lactea

di Carlotta Centonze
L'odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d'ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione.

Un’agricoltura senza pesticidi ma non biologica?

di Giacomo Sartori
Le reali potenzialità di queste esperienze potranno essere valutate in base agli effettivi risultati. Si intravede però un’analogia con la rivoluzione verde, che ha permesso l’insediamento dell’agricoltura industriale nelle aree pianeggianti più fertili, e ha devastato gli ambienti collinari e/o poveri.

Pianure verticali, pianure orizzontali

di Giacomo Sartori
I viandanti assetati di bellezza avevano gli occhi freschi e curiosi, guardavano con deferenza i porticcioli e le chiese e le case, ma spesso anche le agavi e le querce e le rupi. Sapevano scovare il fascino anche dove chi ci abitava non lo sospettava, per esempio nell’architrave di castagno di una porta decrepita o nell’acciottolato di un carrugio.

RASOTERRA #2

di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)
A Mommo gli orti e i campetti sono striminziti, in un secondo zampetti da una parte all’altra. E sono in pendenza, perché lì sul fianco della montagna non c’è niente che non pencoli in un senso o nell’altro, anche le case e le strade e i prati si aggrappano saldamente per non scivolare a valle.

RASOTERRA #1

di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)
Gli umani sono esseri molto singolari, hanno la mania dell’ordine e della geometria. Adorano i campi perfettamente rettangolari, i solchi degli aratri paralleli come rotaie, l’erba rapata a zero, gli alberi tutti uguali, i frutti identici uno all’altro, le strade asfaltate senza l’ombra di una buchetta o d’un filo d’erba.
giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: