Georges Méliès Le Voyage Dans La Lune [ 1902 ]
[ apologia dell’immaginazione visionaria e dell’ironia&elogio dell’inattuale in tempo di croniche ]
JULES VERNE
Dalla Terra alla Luna, tragitto in 97 ore e 20 minuti
[traduzione di C. o forse G. Pizzigoni – Edizioni Paolo Carrara, Milano, 1872]
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Capitolo V. IL ROMANZO DELLA LUNA
[…] L’astro delle notti, per la sua vicinanza relativa e lo spettacolo rapidamente rinnovato delle sue fasi diverse, a bella prima ha diviso col Sole l’attenzione degli abitanti della Terra; ma il Sole stanca lo sguardo e gli splendori della sua luce obbligano i contemplatori a chinare gli occhi.
La bionda Febe, all’incontro più umana, si compiace di lasciarsi vedere nella sua grazia modesta; ell’è dolce all’occhio, poco ambiziosa; però si permette talvolta di eclissare il fratello, il radiante Apollo, senza mai essere eclissata da lui. I Maomettani hanno compreso la riconoscenza che dovevano a questa fedele amica della Terra, ed hanno regolato i loro mesi sopra le sue rivoluzioni. I primi popoli professarono un culto particolare alla casta dea. Gli egiziani la chiamavano Iside, i Fenicî Astarte, i Greci l’adorarono sotto il nome di Febe, figlia di Latona e di Giove, e spiegavano i suoi eclissi colle visite misteriose di Diana al bell’Endimione. se vuolsi prestar fede alla leggenda mitologica, il leone di Nemea percorse le campagne della Luna prima della sua apparizione sulla Terra, ed il poeta Ayesianax, citato da Plutarco, celebrò ne’ suoi versi i dolci occhi, il naso vezzosino e la bocca gentile, formati dalle parti luminose dell’adorabile Selene.
Ma se gli antichi compresero bene il carattere, il temperamento, in una parola le qualità morali della Luna dal punto di vista mitologico, i più dotti fra essi rimasero ignorantissimi in selenografia.
Nulladimeno, alcuni astronomi de’ tempi remoti scoprirono certe particolarità, confermate oggi dalla scienza. Se gli Arcadi pretesero di aver abitato la Terra in un’epoca in cui la Luna non esisteva ancora, se Semplicio la credette immobile ed assicurata alla vôlta di cristallo, se Tazio la considerò come un frammento staccato dal disco solare, se Cleareo, discepolo d’Aristotile, ne fece uno specchio terso nel quale riflettevansi le immagini dell’Oceano, se altri infine non videro in essa che un ammasso di vapori esalati dalla Terra, od un globo metà fuoco e metà ghiaccio, che girava sopra sè stesso, alcuni sapienti, in virtù di sagaci osservazioni, in mancanza d’istrumenti d’ottica, presentirono la maggior parte delle leggi che reggono l’astro delle notti. Così Talete di Mileto, 460 anni avanti G.C., emise il parere che la Luna fosse illuminata dal Sole. Aristarco di Samo diede la vera spiegazione delle sue fasi. Cleomene insegnò ch’essa brillava di una luce riflessa. Il caldeo Beroso scoperse la durata del suo movimento di rivoluzione, e spiegò in tal modo il fatto che la Luna presenta sempre la stessa faccia. Infine Ipparco, due secoli prima dell’era cristiana, riconobbe alcune ineguaglianze nei moti apparenti del satellite della Terra.
Queste diverse osservazioni si confermarono in seguito e furono di profitto ai nuovi astronomi. Tolomeo nel secolo secondo, l’arabo Abul-Feda nel decimo, completarono le osservazioni d’Ipparco sulle inuguaglianze che subisce la Luna seguendo la linea ondulata della sua orbita sotto l’azione del Sole. Poi Copernico, nel quindicesimo secolo, e Tycho Brahe nel sedicesimo, esposero completamente il sistema del mondo e la parte che rappresenta la Luna nell’insieme dei corpi celesti.
A quest’epoca i suoi movimenti erano pressochè determinati, ma poco sapevasi della sua costituzione fisica; fu allora che Galileo spiegò i fenomeni di luce prodotti in certe fasi dall’esistenza di montagne alle quali attribuì un’altezza media di quattromila e cinquecento tese.
Dopo di lui Hevelius, astronomo di Danzica, diminuì le maggiori altezze a duemila e seicento tese; ma il suo collega Riccioli le riportò a settemila.
Herschel, alla fine del diciottesimo secolo, armato d’un potente telescopio, diminuì d’assai le misure precedenti. E’ diede mille e novanta tese alle montagne più alte e ridusse le medie delle diverse altezze a quattrocento tese soltanto. Ma Herschel sbagliavasi ancora, e ci vollero le osservazioni di Schrœter, Lonville, Halley, Nosmyth, Bianchini, Pastorf, Lohrman, Gruithuysen, e soprattutto i pazienti studi dei signori Beer e Mœdeler, per risolvere definitivamente la questione. Grazie a questi dotti, l’altezza delle montagne della Luna è oggi perfettamente conosciuta. I signori Beer e Mœdeler hanno misurato mille e novecentocinque altezze, sei delle quali sono al disopra di duemila e seicento tese, e ventidue al disopra di duemila e quattrocento.
La loro più alta vetta domina di tremila e ottocento e una tesa la superficie del disco lunare.
Nello stesso tempo completavasi il riconoscimento della Luna; questo astro sembrava crivellato di crateri, e la sua natura essenzialmente vulcanica confermavasi ad ogni osservazione. Dal difetto di rifrazione nei raggi dei pianeti da lui occultati, concludesi che l’atmosfera doveva mancarle quasi assolutamente. Quest’assenza d’aria trae seco l’assenza d’acqua. Appariva quindi manifesto che i seleniti, per vivere in tali condizioni, dovevano avere un’organizzazione speciale, e differire singolarmente dagli abitanti della Terra.
Infine, in virtù di nuovi metodi, gl’istrumenti più perfezionati esaminarono la Luna senza tregua, non lasciando inesplorato un solo punto della sua faccia, e tuttavia il suo diametro è di duemila e centocinquanta miglia, la sua superficie è la tredicesima parte della superficie del globo, il suo volume la quarantanovesima parte del volume della sferoide terrestre! ma nessuno de’ suoi segreti poteva sfuggire all’occhio degli astronomi, e questi scienziati portarono ancora più lungi le loro prodigiose osservazioni.
E però osservarono che, durante il plenilunio, il disco mostravasi in certe parti rigato di linee bianche, e durante le fasi rigato di linee nere. Studiando con maggior precisione, giunsero a rendersi esatto conto della natura di queste linee. Erano solchi lunghi e stretti, scavati fra orli paralleli che generalmente mettevano capo ai contorni dei crateri; avevano una lunghezza compresa fra dieci e cento miglia ed una larghezza di ottocento tese. Gli astronomi le chiamarono scanalature, ma tutto ciò che essi seppero fare fu di così chiamarle.
Quanto al sapere se tali scanalature fossero letti disseccati di antichi fiumi o no, non poterono asseverarlo in modo completo. Laonde gli Americani speravano di poter ben determinare un giorno o l’altro questo fatto geologico. Essi riserbavansi parimenti di riconoscere questa serie di bastioni paralleli scoperti alla superficie della Luna da Gruithuysen, dotto professore di Monaco, che la considerò come un sistema di fortificazioni innalzate dagli ingegneri seleniti. Questi due punti ancora oscuri, e molti altri senza dubbio, non potevano essere definitivamente chiariti se non dopo una comunicazione diretta colla Luna.
Quanto all’intensità della sua luce, non c’è più nulla da apprendere in proposito; sapevasi che è trecentomila volte più debole di quella del Sole, che il suo calore non ha azione apprezzabile pei termometri; quanto al fenomeno conosciuto sotto il nome di luce cinerea si spiega naturalmente coll’effetto dei raggi del Sole rimandati dalla Terra alla Luna, e che pare completino il disco lunare quando questi si presenta sotto la forma della prima e dell’ultima fase.
Le cognizioni acquistate sul satellite della Terra erano a tal punto, quando il Gun-Club si proponeva di completarle sotto tutti i punti di vista, cosmografici, geologici, politici e morali.
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LUIGI PIRANDELLO
Quaderni di Serafino Gubbio operatore
1925